Robinson, 27 luglio 2019
Spogliando la Gioconda
Cultura Arte
di Francesca Cappelletti Henri d’Orléans, duca d’Aumale, figlio di Luigi Filippo, ultimo re dei Francesi, erede già a otto anni delle immense ricchezze del suo padrino, il principe di Condé, si dedicò al collezionismo soprattutto negli anni del suo esilio londinese. Aveva vinto una clamorosa battaglia in Algeria e ne era diventato governatore nel 1847; ma l’anno seguente, con l’abolizione della monarchia in Francia, si era ritirato a Twickenham, adottando un motto che esortava saggiamente all’attesa. Aspettava; ma comprando libri preziosi e opere straordinarie del Rinascimento, formando una raccolta degna di spazi principeschi, quelli che avrebbe ricostruito una volta finito il tempo della pazienza. Tornato in Francia nel 1871, si dedicò infatti dal 1875 alla ricostruzione del castello di Chantilly, che ospita adesso la sua raccolta. I quadri, al contrario del suo possessore, non possono viaggiare: nel suo testamento il duca d’Aumale, soldato, esule, bibliofilo, deputato e accademico di Francia, riservò ai suoi capolavori un destino opposto al suo. L’unico modo di ammirare dal vero i grandi libri miniati con Les Très Riches Heures du duc de Berry, le Tre Grazie di Raffaello e uno dei capolavori del ritratto di tutti i tempi, la Simonetta Vespucci di Piero di Cosimo, è quindi di recarsi nella campagna vicino a Parigi e visitare il castello e la sua Galérie des peintures, alla ricerca dell’immagine di profilo della giovane moglie di Marco Vespucci, morta a ventitré anni nel 1476, ma qui a Chantilly per sempre, con la sua acconciatura complicata e densa di perle e la semplicità ideale della sua nudità, la “ninfa” Simonetta, protagonista della Giostra di Angelo Poliziano. Se il dipinto di Chantilly, a volte considerato una Cleopatra, raffigurasse davvero Simonetta, come indica la sua iscrizione, definitivamente ritenuta coeva alla realizzazione del dipinto dopo le indagini diagnostiche del 2014, allora quel serpente che ne avvolge il collo come un gioiello, non sarebbe un riferimento alla sorte della regina egiziana. Indicherebbe piuttosto il trasferimento della donna reale, celebre per la sua bellezza e rimpianta per la sua precoce scomparsa, nel mondo delle immagini, un luogo non più scalfibile dal trascorrere del tempo umano. Il serpente nero che in maniera estremamente vivida impreziosisce, piuttosto che minacciare, la bella Simonetta, amata da Giuliano de’ Medici e musa di suo fratello Lorenzo e degli altri poeti contemporanei, potrebbe alludere all’ouroboros, simbolo di quell’eternità che per definizione fa parte della tradizione intellettuale del ritratto. Questo è fin dalle sue origini connesso alla gloria del personaggio rappresentato, sia un condottiero o una donna virtuosa, da ricordare per la bellezza esteriore e per le qualità del suo animo: la pittura ne garantisce la memoria sempiterna e, quindi, l’immortalità. L’imperturbabile Simonetta, di profilo e con il seno scoperto, all’epoca del dipinto di Piero di Cosimo era già scomparsa e il suo ritratto non poteva che ulteriormente conformarsi alla dimensione ideale del suo personaggio. Bella e colta, raffigurata mentre era ancora in vita da Sandro Botticelli, la Vespucci è probabilmente il primo personaggio femminile realmente esistito che fa rivivere la grazia della ninfa antica e che viene celebrata dagli artisti contemporanei come la Venere vivente, una sorta di fusione, non di sovrapposizione, fra la donna osservata e l’immagine fantasiosa della dea della bellezza e dell’amore. Al soggetto pittorico della Venere vivente e alla creazione di questa tradizione del ritratto è dedicata la mostra di Chantilly sulla Joconde nue, Gioconda nuda ( fino al 6 ottobre), in cui l’inamovibile ritratto di Simonetta ha il suo posto d’onore, ma che si incentra su un’altra opera del duca d’Aumale, da lui acquistata nel 1862 e ancora più enigmatica: il famoso cartone leonardesco che rappresenta, appunto, un nudo femminile dalla bellezza androgina di dimensioni analoghe a quelle della Gioconda, noto anche come Ritratto di Monna Vanna, e con le mani in una posizione molto simile. L’opera è stata sottoposta, in occasione della mostra, a indagini accurate, che ne hanno provato l’uso in bottega per trarne delle copie pittoriche, alcune delle quali figurano nel percorso. L’aggiunta di un paesaggio alle spalle, talvolta addirittura di festoni di fiori, in una delle copie più tarde, riportata all’ambito dei Procaccini, sottolinea l’uso e la diffusione di un modello che circolava con grande successo e che si intrecciava con anche con la fortuna del prototipo “vestito”, qualche volta anche in luoghi lontani dalla presenza di allievi e seguaci di Leonardo. Copie di ritratti alla Clouet, anche nelle collezioni seicentesche romane, venivano riportate alla tradizione della Gioconda nuda, per altro considerata l’immagine dell’amante di Leonardo. Sull’autografia del cartone, ispessito da ritocchi e ripassi, la prudenza è più che d’obbligo. Ripercorrendo tutta la vicenda attributiva, accostandolo alla tecnica esecutiva leonardesca, la mostra si spinge a proporne l’appartenenza alla bottega del maestro. Più interessante e più ardita è un’altra ipotesi, quella per cui vale assolutamente la pena di visitarla: il cartone – o una sua derivazione – sarebbe stato conosciuto in Francia già nei primi decenni del Cinquecento e avrebbe dato luogo alla versione francese della Venere vivente. I curatori della mostra, Mathieu Deldicque, Vincent Delieuvin, Guillaume Kazerouni, hanno raccolto opere a volte poco note, o famosissime per la loro particolarità iconografica, come l’anonimo Ritratto di Gabrielle d’Estrées e di una delle sue sorelle, ora al Louvre ed emblema della raffinatezza della scuola di Fontainebleau alla fine del Cinquecento, riferendone la genesi al modello della Gioconda nuda. Donne probabilmente aristocratiche e celebri al loro tempo e nelle corti, come erano state la Monna Vanna di Leonardo e la Simonetta di Piero di Cosimo, si prestarono a essere raffigurate nude, come la dea dell’Olimpo. Gabrielle d’Estrées, amante di Enrico IV, è presentata nella posa della Gioconda nuda e con un’allusione alla fertilità, altra prerogativa di Venere. Questa pratica, in una serie di rimandi fra cultura rinascimentale italiana e francese, genera una tipologia alternativa a quella consueta del ritratto femminile aristocratico, specialità di Jean e François Clouet, padre e figlio, protagonisti di questa vicenda e anche di una mostra di disegni di dame che si svolge contemporaneamente nel castello. La dama al bagno di François Clouet, datata al 1570, poco prima della morte del suo autore, e arrivata dalla National Gallery di Washington, è uno degli originali e anche un po’ sovrabbondanti punti d’arrivo del racconto. Ci mostra la perfezione candida del corpo della protagonista, appoggiata alla balaustra di una vasca, ornata da una natura morta. Leggermente arretrata, la balia sorride con il neonato in braccio, mentre sullo sfondo si apre un interno opulento e operoso. Il regno di Venere trasferito in un interno comodamente domestico.