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 2019  luglio 27 Sabato calendario

Irene Brin al cinema

Spettacoli cinema
Eppure bisognerà dirlo: abbiamo perduto il cinematografo, perdemmo il cinematografo da un pezzo, ne serbiamo il vizio, ma con distacco, vizio minore, vizio avvilito, l’oppio delle immagini è diventato un sonnifero, la morfina delle fantasie si è trasformata in sedativo: i Grandi Nomi, che un tempo assumevano valore di magia nera, sono ormai qualsiasi, li potremmo trovare in un elenco del telefono…». Lamento di oggi sulla stanchezza del cinespettatore? No, l’elogio funebre è tratto da Film rivista dell’ottobre 1946, alla fine della Mostra di Arte cinematografica di Venezia, la prima a guerra perduta, dopo l’armistizio, il governo Badoglio, la Liberazione: dopo la sospensione dal 1943. Hanno premiato il solo film americano ( non se ne vedevano dal 1939), L’uomo del Sud tutto terra crudele ed aratri, diretto dal francese Jean Renoir con la collaborazione di William Faulkner. Gli altri film in concorso erano sei francesi e sette italiani, tra i quali Paisà di Rossellini. Il critico ha 35 anni e dal 1939 scrive di cinema, almeno 350 articoli in 7 anni, sulle tante cineriviste d’epoca, come Film, Cine Illustrato, Si gira, Settebello e anche Fronte, destinato ai soldati, per cui scrive apposite storie, Paola Barbara preferisce la fanteria chimica, Alida Valli preferisce l’aviazione, Clara Calamai predilige la cavalleria ed altre. Si tratta di una ragazza, Maria Vittoria Rossi, conosciuta come Irene Brin, lo pseudonimo che le ha inventato Leo Longanesi ( ai brevi tempi di Omnibus chiuso per censura fascista), famosa ancora oggi a più di cent’anni dalla nascita nel 1911, però per tutt’altro. Con le fortune dell’alta moda italiana agli inizi degli anni ’ 50, l’intraprendente, coltissima signora ne diventa la massima esperta, come della mondanità, del buon gusto, del bel vivere internazionale, e assieme al marito Gaspero del Corso, ufficiale in carriera, anche musa dell’arte moderna e contemporanea attraverso le loro gallerie a Roma, la Margherita, l’Obelisco. Si ripubblicano tutt’ora i suoi scritti, se ne scrivono ancora biografie, se ne fanno convegni: ma quasi nulla si sapeva del suo lavoro per il cinema, al massimo la interpellavano su moda e arte, e le sue parole di rara sapienza facevano arrossire i suoi intervistatori; lei stessa non rievocò mai quel periodo di grande passione cinefila come se ne fosse stata tradita. Adesso, da Archinto, esce Piccoli sogni di vestiti e d’amore, scritti sul cinema 1939-1946, curato da Tommaso Mozzati, uno di quei quarantenni di massima cultura d’arte, curatore di mostre raffinate, ricercatore dell’Università italiana, “che cerca di sopravvivere al sistema accademico nazionale” con borse di studio in giro per il mondo; e che da due anni vive in America. In una delle biografie della Brin, quella di Claudia Fusani del 2012, ha trovato un sintetico riferimento a Film, a cui la ragazza poco più che ventenne collaborava con un altro pseudonimo, Geraldina Tron. Il fascismo ama il cinema come le arti, purché di propaganda e graditi al duce, artisti e intellettuali si adattano spensierati, talvolta con molto entusiasmo: anche Irene Brin non ha ragione per sottrarsi ai fasti e ai fastidi della dittatura. L’ammirano Galeazzo Ciano, Italo Balbo, Alessandro Pavolini, ma lei fa una inconscia e cauta resistenza seguendo il suo gusto e la sua sapienza. E per esempio sfugge alla richiesta di sgrezzare Miriam di San Servolo, sorella di Claretta Petacci che vuole fare la diva sofisticata protetta da Mussolini; poi scrive alla madre usando la sua sofisticata cultura per evitare la censura: «Abbiamo visto debuttare una nuova giovane stella… si chiama Miriam di San Servolo e mi sembra che nel fisico si intende, somigli molto all’abbesse de Fontevrault, oppure a Madame de Thianges: non che abbia lo spirito Mortemart, ma piuttosto il suo ruolo è lo stesso». Alla Mostra massimamente autarchica di Venezia del 1941 la signora esprime la sua preferenza per Lettere d’amore smarrite, film svizzero però diretto dall’austriaco Leopold Lindberg, che ha lasciato il suo paese con l’ascesa di Hitler, circostanza che evidentemente lei ignora. Ma subito si entusiasma con eleganza per La croce di ferro di Blasetti che ha vinto la coppa Mussolini per il miglior film italiano; quella per il film straniero va ovviamente a un film tedesco di propaganda nazista e lei se la cava con un po’ di prudenza, per poi definirlo, in una lettera alla madre,” noioso, pesante, deprimente”. Sono tempi di guerra, di paura, di silenzio, di rappresaglie, e Irene Brin vuole restare se stessa senza sfidare i cinefili in orbace che hanno già fatto togliere le recensioni di cinema dai quotidiani. Recensendo La cena delle beffe del prolifico Blasetti, se la cava benissimo evitando di soffermarsi sullo scandaloso seno della bellissima Clara Calamai nudo per un nanosecondo, dedicando molte righe a Sem Benelli, l’autore del dramma a cui il film si è ispirato, e lodando il regista per «la discrezione nera e bruciata, per cui ha saputo frenarsi ogni volta che il Castello di Zoagli stava per precipitare nella vicenda, e la destrezza posta nell’evitare bifore, trifore, torrette, ed i diversi ma ugualmente simbolici elementi decorativi, tanto cari ai pasticceri per i budini d’occasione». Tra i divi di quegli anni detesta Luisella Beghi, le piace l’Alida Valli di Piccolo mondo antico, ammira moltissimo Isa Miranda, la incuriosisce Luisa Ferida: «è permesso ad una donna mutar faccia, sopracciglia, zigomi, capelli, sorriso, qualità? Dimagrire, assotigliarsi, bruciare? Crediamo di sì. Ma ci si risponderà, ma le scarpe verdi… per via di certe scarpe veramente eccentriche che le diedero in piazza San Marco, due piedini da ramarro…» ma poi diventa crudele con certe dive americane che ritornano sui nostri schermi dopo la guerra; di Marlene Dietrich ex donna fatale, protagonista di Partita d’azzardo di Marshall dice «intonacata di cerone sotto una maschera funebre, con le grosse vene arricciate sotto le mani, con lo squallore delle braccia rinsecchite…». E distrugge l’ex bellissimo Tyrone Power che in La grande pioggia di Brown appare «ingrassato e immalinconito quanto lo strato di sudore che misteriosamente doveva servirgli a trasformarsi in Zorro». Le ispirano ironia anche i grandi registi, come il venerato Pabst, di cui nel 1940 va a vedere Ragazze in pericolo: un cognome, quello del regista, che «riteniamo pericoloso perché provoca nelle discussioni tra intellettuali del cinema, ciclopici e disastrosi zampilli di saliva e sibili serpentini…». Ma il nuovo cinema neorealista, gli attori presi dalla strada, le scene girate fuori dagli studi, le donne spettinate, le storie di poveri e di guerra, la realtà, parlano di un mondo che non le piace ¸ che la priva del fulgore, della distanza, della favola, dell’innocenza che chiede al cinema: trent’anni dopo anche Italo Calvino ricorderà il suo distacco di un tempo: «Il cinema italiano del dopoguerra… ha cambiato il modo di vedere il cinema… La sala buia scompare, lo schermo è una lente di ingrandimento posato sul fuori quotidiano». Brin si rattrista per Roma città aperta di Rossellini, trovandolo immorale, poco decorativo, poco comprensivo. «Se ne parla con prudenza o non se ne parla affatto». Quanto ad Anna Magnani, il volto della resurrezione nazionale, le è proprio antipatica, lei stessa e i suoi personaggi del popolo: «La carta grossa anche stavolta è Anna Magnani. Si dice in questi giorni che stia diventando bellissima, straordinaria, tutta liscia, gonfiata dentro e senza rughe, senza pori aperti, un velluto. E le sopracciglia lucide, la voce ricca, impara persino a vestirsi bene, ieri aveva qualcosa di viola indosso, proprio fantastico…». No, quel cinema della Liberazione non le piace, il suo piacere è altro: forse salva Luchino Visconti, suo amico, e di Ossessione, nella sua rubrica Irene ha visto un film sul quindicinale Film- Rivista, ne nota la spregiudicatezza morale, la libertà del racconto, con un insolito paragone a Sade. Ma il rimpianto è per Jean Cocteau, il suo amore per La bella e la bestia ( 1946) fiabesco, incantato, mieloso: «La lingua di Cocteau è divenuta arcaica, ma è quella che sappiamo intendere benissimo anche se ci rifiutiamo di parlarla… È un enorme luogo comune, una via lattea di luoghi comuni che abbiamo accettato con leggerezza senza annoiarcene». Ormai per la signora Brin non c’è che un altro mondo brillante, colto, di lusso, che ignora il mondo comune: l’altissima moda, l’altissima arte. L’addio al cinema lo dà definitivamente alla fine della mostra di Venezia del 1946: «Ecco che già anche Festival è una parola caduta, priva del lustro, della pompa così allegra in bocca a chi, come noi, fu giovane insieme al festival di Venezia», «Andiamo al festival di Venezia annunciavamo nel 1935 e sceglievamo sandali d’oro… Persino gli asceti, gli apostoli del cinema, apparentemente assorti in retrospettive russe o in bilanci europei- americani… pensano, avevo vent’anni, avevo trent’anni, avevo quarant’anni, ero talmente snello, talmente florido, talmente apprezzato...». Per fortuna la Mostra d’arte cinematografica c’è ancora, lei stessa snella, florida, apprezzata ed è arrivata al suo 76° anno. Le Irene Brin sono scomparse, ma di sandali d’oro ce ne sono sempre di più.