Il Messaggero, 27 luglio 2019
Intervista a Paola Zuckar, potente agente del rap
Spettacoli Musica non classica
Se il rap ha lasciato l’underground per dominare il mercato discografico italiano, è in gran parte merito di Paola Zukar. Classe 1968, genovese, si è formata negli anni ’90 lavorando ad «Aelle», rivista specializzata in cultura hip hop, e viaggiando in America, dove ha intervistato i più grandi, da Tupac a Jay Z. Dal 2005 è a capo dell’agenzia Big Picture Management che ha puntato su artisti come Fabri Fibra: «Paola ha portato il rap dove non aveva accesso», Marracash: «Lei è uno dei motivi per cui il rap ha finalmente attecchito in Italia. Una vera self-made woman» e Clementino «Un personaggio che ci ha valorizzati al massimo». La sua rivoluzione dal 2006 al 2016 l’ha raccontata nel fortunato libro del 2017 Rap-Una storia italiana. Lavora senza sosta e si concede una chiacchierata con noi solo a tardissima sera.
La Signora del Rap ha avuto difficoltà a farsi accettare in un ambiente maschile?
«Per la verità no, forse perché sono stata estremamente determinata. Credo che quando sei appassionata di qualcosa, hai una luce negli occhi che gli altri percepiscono. Non c’è spazio per fraintendimenti»
Nemmeno una diffidenza iniziale da parte dei suoi artisti?
«Al contrario, i primi supporter sono stati loro, Fibra e Marra, con me da oltre dieci anni. Insieme eravamo convinti di poter affermare nel mainstream questo genere all’epoca di nicchia. È stato complicato far passare un’immagine dura e testi abrasivi per il collo di bottiglia della musica tradizionale italiana. Poi i risultati sono arrivati»
Mai stata discriminata da altri in quanto donna in un ruolo apicale?
«Accade spesso. Più sali di grado, più la discriminazione è esplicita. Come disse una motociclista spagnola: i colleghi maschi sono sorpresi e ben disposti, si divertono a correre con me nel circuito, finché non vinco. Le cose però stanno cambiando e il processo è irreversibile»
Cosa l’ha affascinata del rap?
«Il linguaggio libero dalle ipocrisie, il coraggio di affrontare temi forti con sincerità, senza nascondere pensieri scomodi. I rapper durano se sono autentici, chi mente o imita sparisce presto. Da ragazzina guardavo la minoranza afroamericana che negli Stati Uniti, con questa musica, si imponeva in una società fortemente discriminatoria e mi identificavo in quanto minoranza femminile. Per me il rap aveva il potere della rivalsa e dell’emancipazione».
Le danno fastidio i testi sessisti o tutto è lecito in nome della libertà di espressione?
«Certo che mi danno fastidio, ma il rap è un’istantanea della società e la società è sessista. Non tutto il rap lo è. I miei artisti ad esempio mi hanno citata nelle canzoni dandomi un ruolo di primo piano e trasformandomi in una figura pubblica. È stata una loro iniziativa»
Può darsi che un certo disprezzo dei rapper per le donne, derivi dai comportamenti poco edificanti di fan, groupies o arrampicatrici disposte a tutto?
«C’è un lato dell’ambizione femminile che si ha pudore a raccontare. Chi è famoso, fa di frequente questo tipo di incontri. Ma le donne possono arrivare al successo anche senza approfittare della visibilità altrui».
Ha una figlia adolescente. La preoccupano l’ostentazione di soldi e droga, l’uso insistente della parola bitch verso il pubblico femminile?
«Mi preoccupa in generale l’ossessione moderna per il denaro e la fama, che certo non nasce dal rap. Anzi, il rap fornisce uno spunto di dialogo con i nostri figli, ci aiuta a capire in cosa si riconoscono e perché».
Demonizzare il genere non serve.
«Come non servì bruciare i dischi dei Beatles o dei Rolling Stones. Sta a noi dare i modelli di riferimento. Se guardiamo un film con un eroe negativo, o leggiamo un libro con un villain per protagonista, non ci allarmiamo. Perché con le canzoni sì?»
Perché il rap sembra incidere più di qualsiasi altra cosa sui giovani.
«Se accendi la tv, è solo eccitazione e intrattenimento. Nel pop non trovo grande impegno. Nel rap mi sembra ci siano più contenuti che altrove. Ecco, dovremmo lamentarci dell’altrove»
In quanto manager donna, ha le stesse percentuali di un uomo?
«Non lo so. Io prendo il 15%, c’è chi osa chiedere 25% e mi sembra fuori luogo».
Da Sanremo al Primo Maggio la polemica è sempre la stessa: poche donne e tanti uomini. Questione sessista o meritocratica?
«Entrambe. È una situazione molto italiana, in America sono tante le donne di successo, da Beyoncé a Billie Eilish».
Perché da noi le rapper sono rare?
«Tante sono riflesso degli uomini, si fanno scrivere i testi da loro. Forse è questo che non funziona».
Perché non ha messo sotto contratto donne?
«L’ho appena fatto. Finalmente ho trovato la ragazza che cercavo. Si chiama Madame, ha 17 anni, vicentina, molto brava, si scrive tutto da sola e ha un’estetica tutta sua».
L’empowerment nel rap può non passare per l’esibizione del corpo?
«Certo, penso a Lauryn Hill e a tante altre. La sessualizzazione regna tanto anche nel pop, non è appannaggio del rap. L’ empowerment non è denudarsi, è attitudine, autodeterminazione e consapevolezza».