Il Messaggero, 27 luglio 2019
Biografia di Robespierre
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Duecentoventicinque anni fa, il 28 Luglio 1794, Maximilien de Robespierre, detto l’Incorruttibile, finiva sulla ghigliottina. Aveva posto fine a un’epoca vecchia, e l’epoca nuova mise fine a lui. Ma senza di lui la Storia dell’Europa contemporanea sarebbe incomprensibile.
Era nato nel 1758 ad Arras, dove aveva esercitato la professione legale. Come oratore era dispersivo e prolisso, e l’unica concessione fatta alla brevità scrisse uno storico era la sua statura. Ma la sua ferrea volontà lo rendeva convincente, e quando gli elettori nel 1789 lo inviarono agli Stati Generali non immaginavano che quell’esile avvocato di provincia avrebbe cambiato la Francia. Sulle prime, in effetti, non brillò di protagonismo. Durante la vita dell’Assemblea Nazionale (fino al 1791) a dominare la scena furono l’eloquenza di Mirabeau, l’autorevolezza di Lafayette e la diplomazia di Barnave. Ma quando la Rivoluzione assunse un carattere più classista ed estremo dopo il fallimento della fuga del Re, la vecchia guardia girondina cominciò a perdere influenza, e il palcoscenico fu occupato dall’irruenza di Danton, dal radicalismo di Marat e dall’intransigenza di Robespierre. Non vi un vero e proprio triumvirato, perché ognuno ebbe i suoi adepti e i suoi programmi. Ma tutti e tre condivisero l’idea che la Rivoluzione esigesse il suo tributo di sangue.
IL PROCLAMAIl Duca di Brunswich, in rappresentanza delle varie potenze regnanti, aveva emanato a Coblenza un proclama che intimava ai francesi di restaurare il regime assoluto. La Francia rispose chiamando i cittadini alle armi. Il 2 Settembre 1792 la plebaglia parigina cominciò a massacrare alcune centinaia di preti e di prigionieri, e poco dopo Kellermann, al comando di un’armata di straccioni sconfisse a Valmy le più esperte truppe austro-prussiane. Per rompere definitivamente i ponti con il passato, e con il resto d’Europa, la Convenzione decise di giudicare il Re. Il 24 gennaio 1793, Luigi fu decapitato e l’astro di Robespierre cominciò a brillare. Tuttavia aveva in Marat un avversario temibile. Marat era un estremista psicopatico, che voleva purificare la patria con il sangue di chiunque la pensasse diversamente da lui. I due sarebbero presto arrivati alla resa dei conti se Carlotta Corday per vendicare i morti di settembre non avesse pugnalato Marat mentre era immerso nella vasca a curarsi la scrofola. Così Carlotta salì al patibolo, e Robespierre al vertice del potere. Intanto il nemico premeva ai confini, la flotta inglese bloccava i porti, la Vandea era in rivolta, molti generali si defilavano, le diserzioni erano frequenti, e Danton dava segni di insofferenza. Robespierre – che vedeva corrotti e traditori anche tra i suoi amici mirò al proprio potere assoluto come unico mezzo per salvare la Patria. Si sbarazzò degli oppositori, veri o presunti, di destra e di sinistra, eliminando i girondini, più moderati, e gli hebertisti, più facinorosi. Alla fine spedì alla ghigliottina anche Danton, che cominciava a predicare la conciliazione. Rimasto solo al comando, il mite avvocato di Arras fece promulgare la legge dei sospetti, che consentiva al Comitato di Salute Pubblica, dominato da lui, di imprigionare e giustiziare ogni potenziale nemico della Repubblica. Così cominciò il Terrore.
L’ORROREIl tribunale rivoluzionario procedeva par fournées, condannando a morte anche cinquanta persone alla volta senza nemmeno averle interrogate. Ma la Rivoluzione non doveva limitarsi alla Capitale. Robespierre spedì in provincia i suoi proconsoli: Carrier a Nantes, Fouché a Lione, Le Bon ad Arras. Ovunque questi sciagurati assassinarono centinaia di sacerdoti, proprietari e artigiani, talvolta per pura e gratuita crudeltà. L’Incorruttibile non si rallegrava di queste stragi, ma le riteneva indispensabili, cosicché nello stesso Comitato qualcuno cominciò a temere per la propria testa. I Giacobini più accorti, come Tallien e Barras si domandarono se quell’intransigente demagogo, invaghitosi della Virtù consacrata dal sangue, non intendesse sbarazzarsi anche di loro. Cercarono e trovarono alleati in quel che restava dei girondini e dei moderati, e progettarono di destituirlo. E qui Robespierre commise un errore imperdonabile. Fiutato l’agguato, sfidò la Convenzione a squarciare il velo del tradimento, senza però indicare i traditori, cosicché tutti si sentirono minacciati e nessuno lo volle più ascoltare. Quando Robespierre si presentò con insolente arroganza alla tribuna, l’intera assemblea insorse e ne chiese l’incriminazione. Fu arrestato e portato in una cella al Luxembourg, dove il comandante, intimorito dalla personalità del detenuto, lo affidò alla Comune che lo accolse all’Hotel de Ville come un eroe. La Convenzione sembrava perduta, perché la Comune controllava un’efficiente guarnigione militare, ma il suo comandante, Hanriot, nel momento cruciale si ubriacò. La Convezione radunò le truppe fedeli e le spedì all’Hotel de Ville ad arrestare Robespierre e i suoi seguaci che nel frattempo erano stati dichiarati fuorilegge, da eliminare cioè senza processo.
L’IRRUZIONEQuando i soldati irruppero nel Municipio, il dittatore tentò di suicidarsi sparandosi alla testa, ma riuscì solo a frantumarsi la mascella. Gliela riaggiustarono con una benda, e lo riportarono all’Assemblea. Dopo una notte di agonia, fu collocato sulla stessa carretta delle tante sue vittime, assieme a Saint Just e ad altri fedeli. Durante il tragitto la folla, quella stessa che lo aveva applaudito con riverente entusiasmo, lo sbeffeggiò coprendolo di contumelie. Il condannato, oppresso dal dolore e dalla vergogna, finì sulla ghigliottina davanti a una piazza entusiasta. Eleganti signore avevano affittato a caro prezzo dei balconi per assistere alla cerimonia. Quando il boia alzò la testa del condannato, Parigi tirò un respiro di sollievo. Il Terrore era finito e la Francia (senza saperlo) era pronta per Napoleone.
LE CONTRADDIZIONIRobespierre riassunse e impersonò tutte le contraddizioni della rivoluzione. Detestava gli aristocratici, ma vestiva come loro, incipriandosi la parrucca e indossando calze di seta; predicava l’abolizione della pena di morte, ma mandò migliaia di innocenti alla ghigliottina; era anticlericale, ma combatteva l’ateismo e venerava l’Essere Supremo; era astuto e spietato, ma il suo ultimo discorso, che ne provocò la caduta, fu un monumento di inavvedutezza. Era un maniaco ossessionato dall’idea della Virtù e si illudeva che l’incorruttibilità fosse dote necessaria e sufficiente per reggere uno Stato. Si asteneva come Hitler – dai modesti vizi ordinari, per concentrarsi su quello di sterminare gli avversari. E come tutti questi moralizzatori di incerta morale, finì come meritava: una lezione, aggiungiamo, valida anche oggi.