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 2019  luglio 27 Sabato calendario

Intervista a Franca Valeri

Spettacoli Teatro
L’incipit coincide con il crollo delle illusioni del Duemila, atteso con trepidazione e isteria e ridotto a una manciata di momenti per niente diversi dai precedenti. Nel miscelare riflessioni e memorie nel nuovo libro Il secolo della noia (Einaudi), Franca Valeri, 99 anni il 31 luglio, si interroga sulle aspettative mancate e sui rischi di un presente frammentato. Valeri guarda al teatro e all’arte cercando di intravedere crepe e prospettive future, racconta cosa sfugge a chi continua a picchiettare sullo smartphone. Guarda alla sua, di storia, alle ferite e agli incontri- da Vittorio Caprioli a Pasolini- e cerca di immaginare come il genio possa ancora germogliare nelle generazioni future. Persino nella più comune delle insidie, la noia.
"La noia del secolo avrà pure sia una ragione che una scappatoia” scrive. Qual è la ragione?
«Al contrario del mondo che io ho conosciuto, il presente è meraviglioso, comodissimo, però, più noioso, privo di scambi reali».
La via d’uscita può risiedere nel bisogno di una creatività condivisa?
«Credo di sì. Quando siamo partiti alla volta di Parigi con il Teatro dei Gobbi eravamo in tre, io, Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci. Non sapevamo cosa avremmo fatto. Ma eravamo, nei primi periodi, sempre insieme ed era emozionante immaginarsi il teatro, perché le cose si fabbricavano con l’aiuto l’uno dell’altro. Non oso immaginare come possa essere penoso per i giovani, oggi, fare arte o teatro. Noi abbiamo vissuto una giovinezza libera, libera di creare e creare non da soli».
Racconta la noia eppure dice di essersi annoiata raramente e che la sua vita sia stata piena di svolte incredibili…
«Le mie svolte sono state sono stati incontri, letture, persino ascolti. Ho sempre dato molta importanza alla musica».
Un incontro che le ha fatto cambiare rotta?
«Potrei citarne infiniti ma preferisco parlare di opere letterarie, soprattutto di scrittori francesi. Mi chiamo Valeri perché mio padre preferiva da attrice non avessi il mio nome e, una mia amica, che stava leggendo un libro di Paul Valéry mi ha suggerito di utilizzare il cognome fittizio Valeri. Quando ho incontrato i figli di Valéry, anni dopo, mi hanno chiesto se eravamo parenti. In un certo senso sì, qualcosa ci legava».
Dice che far ridere è una formula matematica. Quando nella scrittura di un personaggio capiva che quell’equazione funzionava?
«Era istintivo, io ce l’avevo dentro, voltavo tutto in comico. La mia quotidianità, le persone che incontravo, tutto era materia d’ispirazione. I miei personaggi non erano l’imitazione di qualcuno ma frammenti rubati a tantissimi visi che conoscevo».
Nel libro ricorda il suo debutto al Teatro Valle…
«Per me il Teatro Valle è indimenticabile. La prima volta in cui vai in scena, ti assicuro, te la ricordi per tutta la vita: la sala non è ancora piena e ti sembra già di sentire le voci di un pubblico che non vedi ma puoi immaginare. Se penso, oggi, che il Teatro Valle sia ancora chiuso, provo un forte dolore. Non credo che l’amministrazione di Roma abbia fatto abbastanza».
Quali sono le responsabilità della politica?
«Tante. Ci dovrebbe essere sempre una parte politica, un partito, che lotta per qualcosa come ricreare un teatro. Ma il Teatro Valle non è l’unico esempio. Se si parla di patrimonio artistico in Italia, ci sono molte cose che si perdono e nessuno si chiede o sa il perché».
Nel suo libro ricorda le grandi ferite della storia a partire da una dimensione privata: “Quando sono uscite le leggi razziali papà era seduto sul letto ancora in pigiama, e due lacrime gli scendevano sulle guance"scrive…
«Ero una ragazza nel 1938, avevo 18 anni. È stato un momento atroce, insensato della storia. Eravamo terrorizzati, ho sempre in mente una giovane che conoscevo il cui nome ho poi ritrovato nel resoconto delle vittime. È assurdo che qualcuno ignori questa pagina terribile».
Cosa secondo lei si è inceppato nella memoria storica collettiva?
«Me lo chiedo spesso. Quella voglia di dimenticare subito dopo l’orrore era forse l’immediata reazione a qualcosa di tremendo, però non so cosa abbia portato a rimuovere poi».
A questo proposito il dilagare di estremismi politici può definirsi un paradosso?
«Sì, è un vero paradosso. Mi chiedo avendo avuto un passato recentissimo così come sia possibile.Io non ho mai dimenticato». —