La Stampa, 27 luglio 2019
Una Spoon River dedicata a Fausto Coppi
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Come si fa a raccontare il taciturno e schivo Fausto Coppi, nel centenario della nascita?
Maurizio Crosetti, che racconta da anni di sport, inesauribile miniera di storie e di metafore, puntando sulla pasta umana dei suoi personaggi, si è inventato una Spoon River adagiata sui colli di Tortona, dove nacque l’Airone, facendo parlare dall’aldilà chi gli è stato più vicino, ognuno con la sua voce (Il suo nome è Fausto Coppi, Einaudi Stile Libero, pp. 220, € 17,50). Rispetto al palcoscenico delle corse, ha privilegiato tutto quello che sta prima e dopo e dietro, il backstage del privato, dell’intimo. Delle cose non dette.
I genitori sono contadini, sei pertiche a granoturco e un po’ di vigne sulle colline: Angiolina dei Boveri, l’anello forte, la mater dolorosa che deve seppellire tre figli; il Dumenichín che torna zoppo dalla guerra e si mette a bere. Poi ci sono il Serse, l’amatissimo fratello-complice estroverso e ridarello, che muore in corsa per una caduta; Merlano, il salumiere di Novi che aveva assunto quel garzone alto e magro che consegnava pacchetti di insalata russa e vitello tonnato su una pesante bici da donna detta «tre-fusì», tre fucili. E Biagio Cavanna, ex boxeur con la faccia di Jean Gabin, massaggiatore cieco che «vedeva» tutto con le mani; Girardengo leggenda vivente che era di Novi anche lui; Pinella, il capo meccanico detto Pinza d’oro, i gregari più fedeli, Gino Bartali, amico-rivale dalla voce di catrame. A chiudere, le voci dolenti: Bruna, la maestrina timida e discreta che di Fausto è stata la prima moglie, e la figlia Marina, che non riesce più a distinguere tra ricordi veri e ricordi costruiti; Giulia Occhini, la «dama bianca», la «donna del peccato» che scandalizza un’Italia bigotta; suo figlio Faustino che del padre troppo famoso, perso quando aveva cinque anni, ricorda solo le cose che gli hanno raccontato.
Ultimo a parlare lo stesso Fausto il taciturno, il «ciudìn», il chiodino nato di due chili, tutto naso e occhi, ossa fragili e cosce potenti. La famiglia sperava che un giorno sarebbe potuto diventare un buon «masaporsèi». Era inflessibile con sé stesso, generoso con i gregari, la passione della caccia e dei vestiti eleganti, innamorato delle innovazioni tecnologiche. Faceva ogni cosa come se fosse l’ultima. «Sembrava un condannato», fa dire di lui Crosetti a Bartali. Ma, andandosene troppo presto, Fausto è rimasto per sempre giovane nell’amore della gente.
Come nei versi di Lee Masters, il tono generale è quello di una accettazione accorata del proprio destino, persino del fatale scolorirsi dei ricordi. Uno stoicismo sommesso e molto piemontese che ogni tanto si concede qualche apertura lirica. In una luce di purgatorio, il coro delle ombre non alza mai la voce, non drammatizza e non accusa, perché a dire le durezze della vita l’enfasi non serve. La grana della pellicola di Crosetti è il ben calibrato bianco e nero dei film di De Sica, Rossellini o Zavattini, con in più l’introversione malinconica di Pavese e la fisicità di certi racconti di Fenoglio: quella Langa omerica e coriacea, impastata di fatica e di lutti, non è lontana, e rintocca anche in certi inserti dialettali («sagrinato», «sbaruare», «gagno», «maroda»).
Qui la malora è quella morte assurda a quarant’anni per una malaria contratta in Africa e non diagnosticata, che ha finito col segnare chi gli era più vicino. Tutt’attorno c’è un’Italia risparmiosa che si ingegna a campare in dignitosa povertà, contenta di quel che riesce a raggranellare, e si accalca attorno alle poche radio per esaltarsi con la nuova epica delle due ruote. Come diceva Nicolò Carosio: «Primo Coppi, in attesa del secondo trasmettiamo musica leggera».—