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 2019  luglio 27 Sabato calendario

Angelina, l’amore di Croce

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«Mio caro Giovanni (...), Angelina ebbe, giorni addietro, un riacutizzamento dell’infezione, con ritorno di febbri; ma ora anche questa seconda fase sta passando, e le condizioni del cuore si mantengono buone». Da Raiano, il paese dell’Abruzzo dove si trova in villeggiatura presso la cugina Teresina, Benedetto Croce scrive all’amico Gentile a proposito della compagna con cui vive da vent’anni. È il 14 settembre 1913, il culmine di un fitto scambio epistolare punteggiato dalla preoccupazione per la salute della donna: alla cardiopatia che la affligge da tempo si è aggiunta ai primi del mese la complicazione di una broncopolmonite. Tra alti e bassi, adesso però sembra aprirsi uno spiraglio di fiducia, e il 25 settembre, dopo un intervallo insolitamente prolungato, Gentile si rallegra: «Ho avuto confortanti notizie e spero che tu presto possa dirmi che è completamente guarita e che tu sei tornato tranquillo». Ma il filosofo dell’attualismo è in questo caso superato dagli eventi. Il giorno dopo l’amico torna a scrivergli. Poche parole, secche: «Caro Giovanni, ieri ho perduto la mia diletta Angelina».
È un Croce sorprendente, appassionato, incline a svelare fragilità e contraddizioni, quello che emerge dal Carteggio 1910-1914 con Gentile, quarto dei cinque volumi dedicati alla corrispondenza tra i due scolarchi dell’idealismo italiano, appena pubblicato da Aragno per le cure di Cinzia Cassani e Cecilia Castellani (pp. 640, € 35) su concessione degli eredi. Un Croce lontano dall’immagine «istituzionale» di papa laico a cui lo ha fissato Gramsci e in cui si sarebbe catafratto lui stesso, seppellendo ogni traccia della sua vita precedente. Quella con Angelina Zampanelli.
Alla loro storia si è interessato lo studioso napoletano Massimo Perna che sta lavorando alla sceneggiatura di un corto, basato su testimonianze dirette e indirette, nonché su un vecchio libro di Antonio Cordeschi edito nel ’94 da Mursia, Croce e la bella Angelina. I due si erano conosciuti nel 1893 a Salerno, dove lei, romagnola di Savignano, 23 anni ancora da compiere, rimasta orfana si era trasferita da uno zio che gestiva il buffet della stazione; mentre lui, di quattro anni più anziano, saliva spesso da Napoli in visita alla zia che lo aveva accolto dopo il terremoto di Casamicciola, a Ischia, in cui aveva perso i genitori e la sorella minore. Quella tragedia, avvenuta durante le vacanze nel luglio del 1883, aveva segnato l’adolescenza del futuro filosofo, e il ricordo lo avrebbe tormentato per tutta la vita: «Furono i miei anni più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa al guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio».
Ancora dieci anni dopo, anni intensi di esperienze umane e studi fervorosi, Benedetto non riesce a colmare il vuoto degli affetti. A sollevarlo dalla depressione in agguato è l’incontro con Angelina: donna «di imperiale bellezza», la ricorderà un altro amico del filosofo, Giuseppe Prezzolini, «più alta di lui, rassomigliante alla Teodora dei mosaici di San Vitale a Ravenna»; non un’intellettuale ma «molto intelligente», nella testimonianza di Antonio Gramsci; e inoltre allegra, briosa, disinvolta, una perfetta padrona di casa. Dalla casa di viale Principessa Elena a quella di palazzo Ariello in via Atri, a quella definitiva di palazzo Filomarino (oggi sede della Fondazione Croce), il loro salotto è il centro della vita culturale napoletana. Con un tipico vezzeggiativo partenopeo lei diventa Angelinella, o più brevemente Nella. A tutti gli effetti è una vita di coppia, anche in società e nei frequenti viaggi. Ma al matrimonio i due non arrivano mai, con una scelta per l’epoca sicuramente anticonformista e probabilmente neppure davvero deliberata. Gli amici fingono di non accorgersene, e Angelina prende l’abitudune di firmarsi con il cognome di lui.
I vent’anni trascorsi insieme sono anche, per Croce, il periodo più creativo, quello in cui, come ha notato Augusto Guzzo, «ha lavorato da innamorato, perdutamente innamorato della sua cara». Ma sono pure anni di leggerezza vitale, con il filosofo che imprevedibilmente si diletta di cucina: «L’Artusi è già passato allo stadio pratico», scrive all’amico Corrado Ricci che gli ha fatto avere il libro, «ed in questi due giorni abbiano eseguito con molta soddisfazione alcune sue ricette. Vedrai quando verrai a Napoli». Ed è il tempo in cui si sviluppa e si rafforza, tra qualche duro dissenso filosofico, la collaborazione e poi la fraterna amicizia con Giovanni Gentile, più giovane di lui di nove anni, e con sua moglie Erminia: le famiglie si frequentano a Napoli e, quando Gentile si trasferisce a insegnare a Palermo, si fanno visita e si scrivono in continuazione, e i Croce mandano regali ai numerosi, amatissimi figli degli amici. La rottura tra i due pensatori, per ragioni teoriche e soprattutto politiche, è ancora di là da venire, e si consumerà soltanto all’inizio degli anni 20 con l’adesione di Gentile al fascismo.
Ma nel felice ménage coniugale di Croce si insinua all’inizio del nuovo secolo il male che in una progressione inesorabile si porterà via la donna amata. E qui l’immagine che abbiamo del filosofo viene ribaltata. Nelle fasi finali della malattia, testimonia un amico, «il freddo loico, l’uomo che tiene una femmina per igiene e per divertirsi come con un grazioso cagnolino, ha pianto con tutte le sue lacrime; e quando io riuscivo a calmare la furia dei suoi singhiozzi, andava a inginocchiarsi al capezzale del… cagnolino e lì le parole e le carezze più dolci e più tenere». Quando Angelina si spegne, a Raiano, il filosofo, ormai 47enne, è sconvolto. «Il dolore per la perdita, l’angoscia per la prospettiva di un futuro di solitudine… A quel punto», osserva Massimo Perna, «a Croce restavano solo due possibilità: ammazzarsi, oppure…».
Ecco: oppure. In molte lettere l’idea del suicidio torna a affacciarsi alla sua mente. Per essere tosto respinta: «Certo, mi darò coraggio: che cosa posso fare, se non darmi coraggio?», scrive il 1° ottobre a Gentile. «Ammattire, no, perché sono troppo equilibrato; ammazzami, neppure, perché ho qualche sentimento dei doveri che mi legano alla vita».
Per distrarsi Croce riprende a viaggiare, a novembre si ferma a lungo a Torino. E poi la svolta, inattesa, fulminea. Di cui il 21 febbraio fa partecipe Gentile: «Io mi sono risoluto a prendere moglie. (...) Sposerò una buona e brava ragazza piemontese, che conosco già da due anni, della quale ho invigilato gli studii per la laurea (è laureata in lettere). E che mi aveva sempre ispirata una grandissima stima per la finezza dell’animo e la serietà del carattere. Era inoltre in rapporti di grande affetto con la povera Angelina (...). Non è giovanissima (ha passato i trent’anni); non è bella; ma è di buona salute, è molto simpatica, molto graziosa, soprattutto assai distinta e fine, come ti ho detto; e non è napoletana (perché di Napoli io amo i filosofi e non le donne e con una napoletana non m’intenderei). Si chiama Adele Rossi».
Le nozze si celebrano a Torino, nella chiesa di Santa Giulia, in Vanchiglia, perché la sposa è di famiglia religiosa. È il 7 marzo 1914, sono passati 163 giorni dalla morte di Angelina. Il 13 marzo il viaggio di nozze è già finito e Croce scrive a Gentile: «Sono, anzi siamo tornati iersera a Napoli». E subito attacca a parlare di lavoro. Di Angelina non dirà più una parola. Ma il ritratto di lei, commissionato nel 1899 al pittore napoletano Salvatore Postiglione, rimarrà sempre nel suo studio, protetto dalla premurosa discrezione della moglie, al riparo dalla curiosità delle loro quattro figlie.