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 2019  luglio 27 Sabato calendario

Problemi dell’alleanza Pd-Cinquestelle

Editoriali
La questione del rapporto con i Cinque Stelle – forse non ora, ma nel prossimo futuro – ha ormai trovato il suo posto nella confusa agenda del Pd. Se non altro è un punto chiaro, benché divisivo e con un forte retrogusto di trasformismo. A rompere il tabù ci hanno pensato Dario Franceschini e il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, quest’ultimo con l’intervista a Repubblica di ieri. Non sono i soli a esprimersi senza troppi giri di parole, basti pensare alla tenacia di un Franco Monaco, ma sono coloro che hanno imposto il tema superando il fuoco di sbarramento di Renzi e i suoi amici ("senza di noi"), ma anche il dissenso di Calenda con la sua corrente ("Siamo Europei"). l continua a pagina 35 Pd Nicola Zingaretti e Beppe Sala segue dalla prima pagina U na corrente che talvolta dà l’dea di essere quasi un partito, non fosse altro per l’insofferenza del leader («Non intendo rimanere associato a un asilo di rncorosi intenti a fersi dispetti mentre il Paese è allo sbando»). In concreto, ci sarebbe la volontà di scoprire i “valori comuni” (Franceschini) nascosti dietro gli insulti grillini al “partito di Bibbiano” e chi più ne ha più ne metta. Va detto tuttavia che il passo più politico lo ha compiuto proprio il sindaco di Milano, possibile futuro candidato premier del centrosinistra riorganizzato. Sala ha posto una condizione precisa per delineare un’intesa con i Cinque Stelle quando l’attuale governo cadrà: che Di Maio esca di scena in quanto personaggio “screditato” e il movimento si dia un’altra guida. Comprensibile la logica che muove il sindaco, in quanto Di Maio è ultra-compromesso per essersi legato a Salvini. È a causa del duopolio che Renzi ancora oggi – e nonostante, ad esempio, la frattura sul voto europeo a Ursula Von der Leyen – può sostenere che non ci sono differenze tra Lega e 5S, per cui è inutile perdere tempo nel tentativo di separarli. E Zingaretti? Il segretario del Pd se la cava escludendo al momento qualsiasi apertura ai grillini, ma prevede che il movimento è in procinto di esplodere. Ne deriva che egli non crede alla perfetta sovrapposizione dei due populismi. Inoltre, se i 5S “esplodono”, eventualità che peraltro deve ancora realizzarsi, è evidente che il Pd guadagnerà una posizione più centrale e potrà sedersi al tavolo con un segmento, magari più di uno, degli esplosi. Nel frattempo Zingaretti ha il problema di tenere insieme il suo partito, anch’esso a rischio di frantumarsi. Quindi evita di raccogliere gli spunti di Franceschini e Sala, benché sia fin troppo chiaro che quelli sono i nodi della discussione. Soprattutto se Di Maio fosse davvero vicino al siluramento, il che è plausibile. Il punto di forza dei fautori del rapporto con i Cinque Stelle è soprattutto uno: la necessità per il Pd di stringere alleanze in vista della prossima legislatura. Infatti la “vocazione maggioritaria” ancora oggi prediletta da Renzi e dai suoi è irrealistica, per cui si rischia di lasciare tutto il campo a Salvini. Il punto di debolezza è invece duplice: primo, un accordo futuro richiede come minimo che il Pd sia molto più forte, in termini numerici, dei 5S; secondo, andrà chiarito qual è la vera natura e l’affidabilità del movimento ex grillino: inutile attendere l’uscita di scena di Di Maio se il vero leader occulto rimane Casaleggio. È con lui che occorrerà in ogni caso negoziare, meglio saperlo. E c’è un’altra conseguenza da mettere nel conto: la spaccatura del Pd, con la fuoriuscita dei renziani, forse di Calenda. Al punto in cui siamo, fare patti con i 5S comporta questo prezzo. Può valere la pena pagarlo, ma è bene esserne consapevoli.