Corriere della Sera, 27 luglio 2019
Operazione Everest pulito
Natura
Il rumore delle eliche rimbomba tra le pareti di roccia, un elicottero emerge da un sottile strato di nuvole. Siamo a Namche Bazar, in Nepal, a 3440 metri di altitudine, tradizionale luogo di partenza per il campo base dell’Everest che è situato su un ghiacciaio eterno duemila metri più in alto.
È l’inizio del cammino che portò Edmund Hillary e Tenzing Norgay, nel 1953, con indosso stivali Bally – il marchio svizzero che sponsorizza ora questa nuova avventura – a raggiungere per primi la vetta più alta del mondo.
Il viaggio in elicottero è breve, dopo una manciata di minuti ci fermiamo a Pheriche, un villaggio rurale a metà strada in direzione del campo. Lasciamo lì i rifornimenti e aspettiamo il via libera per il meteo, che a queste altezze può cambiare in breve tempo: responso positivo. Proseguiamo fino a un’enorme distesa di rocce appoggiate su un ghiacciaio che sembra infinito: il campo base. I minuti sembrano ore, ogni passo è come farne cento. L’aria è pesante, la mente annebbiata ma il paesaggio è unico. Il tetto del mondo è lì, a poche migliaia di metri più in su. Davanti a noi, la sconfinata distesa di tende dei quasi 400 scalatori in cerca della vetta.
Vandalismo ambientale Il Chomolungma (“madre dell’universo” in tibetano), o Everest, è alto 8848 metri. A quell’altezza sfrecciano i Boeing 747 (9-10mila metri). È altro come 85 campi da calcio regolamentari messi uno sopra l’altro, o 75 «Hyperion», la sequoia più alta del mondo. Se fosse un lago sarebbe profondo 22 volte il lago di Como (410 metri, il più profondo in Italia) e quasi 6 volte il lago più profondo al mondo, il «Baikal» in Asia (1600 mt).
La curiosità, la voglia di esplorare hanno portato l’uomo quasi in ogni angolo del pianeta. Quella che si vede qui, però, è l’altra faccia della medaglia, quella scomoda, del vandalismo ambientale: date l’altezza quasi impossibile – sopra agli 8mila metri è presente solo il 30 per cento dell’ossigeno – e la difficile permanenza, gli scalatori abbandonano ogni tipo di rifiuto in cima a questi monti. Incuranti del potenziale danno ecologico e insensibili alla bellezza incontaminata di questi giganti silenziosi.
Fra bombole e lattine L’Everest è uno dei più bersagliati, complice l’affollamento di scalatori (solo quest’anno sono stati concessi circa 400 permessi). Per questo assumono sempre maggiore importanza iniziative come la «Peak Outlook» di Bally, lanciata questa primavera con l’obiettivo di preservare le vette più estreme del mondo, gli ambienti e le comunità circostanti. Come garanzia di questo impegno a lungo termine, il marchio di moda svizzero, ha sponsorizzato una coraggiosa spedizione di pulizia proprio sul Monte Everest, ripulendo la cima da ben una tonnellata di rifiuti di vario genere. A guidare la spedizione Dawa Steven Sherpa, alpinista professionista, assistito dal suo team di esperti scalatori e guide. Tutti appartenenti agli Sherpa, tribù etnica originaria dell’alto Himalaya del Nepal, conosciuta per la grande capacità di sopravvivenza ad alte quote.
Fra i rifiuti raccolti – la maggior parte sopra gli 8mila metri – taniche di combustibile, bombole di gas, tende e scale rotte, vecchie corde, lattine, involucri di cibo, sacchetti di plastica, oggetti personali e perfino libri.
L’etica della moda L’iniziativa ha coinvolto anche Jamling Tenzing Norgay, figlio di Tenzing Norgay, lo sherpa che ha raggiunto per la prima volta la cima dell’Everest al fianco di Sir Edmund Hillary, con indosso stivali Bally. Proprio da quell’avvenimento è nato il legame del brand svizzero con l’Everest e l’alpinismo. Per celebrare il lancio di «Bally Peak Outlook», il marchio introdurrà una capsule collection in cui il 100% dei proventi andrà a beneficio delle spedizioni ecologiche future.
«Lo stile di vita in montagna non è solo il fulcro dell’eredità di Bally, ma un codice integrale nella tabella di marcia per il suo futuro – racconta Nicolas Girotto, ceo di Bally —. Sono orgoglioso che l’iniziativa Peak Outlook sia solo uno dei tanti elementi che caratterizzano la forte sostenibilità della nostra compagnia».
Il brand svizzero, fondato nel 1851 nella piccola Schönenwerd, ha reso l’ecosostenibilità un valore aggiunto per la propria azienda. «L’industria della moda deve comprendere l’importanza di attuare politiche ecologiche. Noi tutti abbiamo il dovere di migliorarci indipendentemente dal marketing e dalla comunicazione – continua Girotto —. Anche l’intelligenza artificiale può ridurre l’impatto ambientale delle nostre produzioni. Gli algoritmi possono migliorare le nostre previsioni di vendita, così da programmare una più efficiente catena produttiva con sempre meno scarti. Questa assunzione di responsabilità dimostra come il business non sia incompatibile con il rispetto dell’ambiente e dei suoi delicati e meravigliosi equilibri».