Corriere della Sera, 27 luglio 2019
Barbareschi non lascia niente ai figli
«Io un padre degenere? No. Ho dato ai miei sei figli gli strumenti per la migliore educazione, nelle scuole e università più importanti, spendendo milioni di euro. Hanno avuto la possibilità di avere passaporti americani ed europei, parlano quattro lingue, hanno relazioni internazionali...».
Luca Barbareschi ribadisce quanto ha affermato nel programma di Pierluigi Diaco Io e te su Rai1: «I figli dei ricchi diventano cretini e ai miei non lascio l’eredità».
È una sua ennesima provocazione?
«No è la mia convinzione: con la greppia bassa allunghi il collo per mangiare, ma non ti dai da fare e ti rimbambisci. Il cervello è un muscolo e va allenato come ci si allena in palestra, va sollecitato con stimoli, sfide, obiettivi da raggiungere, altrimenti si tende alla demenza. Ecco perché, quando i mei figli hanno raggiunto la maggiore età, ho detto ok, proseguite da soli».
Lei, però, è un padre ingombrante...
«Per questo li ho lasciati andare per la loro strada. Michael è il più grande e fa l’avvocato; Beatrice è laureata, sposata con due figli; Eleonora ha creato un’azienda di design interdisciplinare, si è comprata casa da sola, non l’ho mai aiutata e voleva cambiarsi il cognome; Angelica ha iniziato per conto suo una carriera d’attrice. Poi ci sono i piccoli, Maddalena e Francesco Saverio, 9 e 7 anni, e vedremo cosa sapranno fare».
Sei figli: la dinastia Barbareschi?
«È proprio quello che non ho voluto accadesse! Come in quelle grandi dinastie dove i rampolli, privilegiati, finiscono male. Se hai una rete protettiva diventi molle. Io voglio essere per loro solo un punto di riferimento».
Vuole essere un esempio?
«Ho costruito tutto quello che ho fatto da solo e non sono un uomo potente, non appartengo a massonerie... Sono stato abbandonato da mia madre quando avevo 7 anni e sono cresciuto con due zie e mio padre con cui ebbi un duro confronto: quando gli dissi che non volevo studiare economia come lui e fare l’attore, mi rispose secco “bene, buon lavoro e arrangiati”. Lo mandai al diavolo».
Neanche ad Angelica ha dato una mano per entrare nello spettacolo?
«Assolutamente no. Lei voleva un riconoscimento di ciò che iniziava a fare, ma io non riesco a dire ciò che non penso e sono stato molto drastico. Lei rimase molto male e mi disse: spero che tu muoia d’un colpo... In quel momento, nella mia mente è ripassata tutta la mia vita velocemente, in un istante... ma ho tenuto duro e le ho ribattuto: se io muoio, tu rimani orfana».
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«L’eredità di papà? Ha cominciato ad avere figli da giovanissimo e gli auguro di campare fino a 120 anni, quindi se ne riparla tra una sessantina di anni... non ci conto proprio».
Eleonora Barbareschi, 35 anni, terzogenita dell’attore e regista, ribatte le affermazioni di Luca senza tanti complimenti: «Condivido con le mie sorelle l’eredità, quella sì, di un genitore con un carattere difficile, che ci ha allevato come tre maschi e quindi con il desiderio di essere libere, di venire riconosciute per i propri sforzi, in maniera meritocratica. Il problema, semmai è un altro».
Quale?
«È confondere la linea sottile che intercorre tra il rendere un figlio libero di emanciparsi e l’abbandono».
Si è sentita abbandonata?
«Un po’ sì. Mi è mancata la sua presenza. Non lo faceva per cattiveria, ma perché è troppo preso da se stesso. Un’assenza scivolata poi nella sua rigidità».
In che senso?
«Be’, la sua fissazione di costringerci a camminare con le nostre gambe. Se, a suo tempo, mi avesse comprato casa non mi sarei mica offesa».
Perciò voleva cambiarsi il cognome?
«È stato il mio primo desiderio, sentivo di non avere nessuna associazione con Barbareschi e non volevo passare per raccomandata. In quel periodo non ci parlavamo da 5 anni, io volevo sentirmi autonoma persino dal suo cognome».
E lui come reagì?
«Quando glielo comunicai, mi rispose: va bene, fallo pure. Il mio non era un gesto contro di lui, ma una necessità per la mia sopravvivenza».
Poi ha continuato a chiamarsi Barbareschi.
«Ci siamo incontrati: mi sono specchiata nei suoi occhi, abbiamo scoperto di avere delle esperienze condivise e allora mi sono detta: chi se ne importa del cognome, è la genetica che vince. Abbiamo riallacciato il rapporto, la rabbia è sparita. Avevo anche risolto il problema di essere figlia di un personaggio famoso».
Infatti lei ha intrapreso una strada molto diversa dalla sua, creando lo studio di design...
«Ho iniziato a lavorare a 23 anni, anche se papà ci faceva lavorare da ragazzine nel suo ufficio. Poi ho scelto un percorso distante, per dimostrare che non ero una demente. È stata sempre molto forte in me la spinta ad affrancarmi. Tra noi una sana competizione: ce l’ho fatta anche senza il suo aiuto».