Corriere della Sera, 27 luglio 2019
Il punto su Ebola
Salute
Sikuli ha 15 anni e parla con gli occhi bassi, quasi avesse timore a cantare vittoria. Al suo paese – Beni, Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo – vivere è una scommessa quotidiana. Sikuli ha aspettato 21 giorni, il tempo dell’incubazione, prima di essere dichiarato fuori pericolo. Ogni sera un’infermiera andava a misurargli la febbre. Il virus aveva colpito Roger, il fratello: «Pensavamo fosse malaria, ma all’ospedale hanno capito che era Ebola». A Roger hanno dato le terapie contro l’infezione, ai suoi familiari il vaccino. Ha funzionato. Rispetto a cinque anni fa, quando Ebola falcidiò 11mila persone tra Liberia, Guinea e Sierra Leone, oggi la medicina è meglio preparata contro il virus che «svuota» la gente dei liquidi vitali fino a farla morire. Allora non c’erano farmaci specifici né vaccini, e la percentuale di sopravvivenza in Africa occidentale fu del 50% sul totale dei contagiati. Adesso è del 70%, per i ricoverati nei centri di cura. Ma i farmaci servono a poco, quando i conflitti tengono lontani i malati.
Il primo di agosto Ebola compie un anno in Congo. Cresce: pochi giorni fa l’Organizzazione mondiale della sanità l’ha definita «emergenza internazionale». In un anno 1.700 morti, settecento negli ultimi tre mesi. Il governo a Kinshasa ha appena licenziato il ministro della Sanità, il dottor Oly Ilunga, contrario all’introduzione di un secondo vaccino. «Uno solo non basta, occorre cambiare strategia, l’epidemia è fuori controllo» dice al Corriere Claudia Lodesani, medico infettivologo da un anno presidente di Medici Senza Frontiere Italia, che Ebola l’ha già vissuto sul campo nel 2014-2016. Accanto ad altre organizzazioni, oggi Msf combatte il virus in una zona molto più povera e stremata nel cuore dell’Africa. «Nel Nord Kivu il sistema sanitario era già al collasso prima. I bambini morivano e continuano a morire di morbillo e di malaria, le donne di parto». Terra di miniere e milizie armate, di commerci e profughi in movimento. Un ambiente ideale per la crescita di Ebola, che si propaga grazie al contatto con i fluidi di corpi infettati (vivi o morti) e i cui sintomi (per esempio la febbre, il mal di testa) all’inizio si confondono con quelli di altre patologie.
Ebola e la guerra, che binomio. Come virus e sfiducia: alle ultime, contestate elezioni del 2018, nel Nord Kivu non si è potuto votare. Colpa dell’epidemia, si sono giustificate le autorità di Kinshasa. L’epidemia è così stata percepita come uno strumento del potere centrale, rendendo gli operatori sanitari bersaglio di violenze. «È difficile raggiungere i malati, molti muoiono a casa – dice la dottoressa Lodesani —. Occorre cambiare strategia. Solo coinvolgendo le comunità si può interrompere la catena dei contagi in una zona di conflitti armati».
È quanto fanno sul terreno le squadre di Save the Children: sensibilizzazione e sostegno ai rari «fortini» sanitari. Le testimonianze dei ragazzi qui ritratti sono frutto di questo lavoro. Ebola (per il momento) non mette in allarme gli aeroporti del mondo, come quattro anni fa. Ma avanza. Ha fatto la prima vittima a Goma, città di confine con 2 milioni di abitanti. Si «allea» con il virus del morbillo, che quest’anno negli stessi luoghi ha fatto duemila morti, in gran parte bambini sotto i 5 anni, perché il lusso delle vaccinazioni si ferma al 15% degli aventi diritto. Ebola e il morbillo sono sulla stessa barca, quella dei ragazzi con gli occhi bassi, che in fondo è anche la nostra.