La Stampa, 26 luglio 2019
La soprano che non vuole truccarsi di nero per l’Aida
«Non voglio essere un ingranaggio in un meccanismo di razzismo istituzionalizzato». Parola, anzi tweet, del soprano americano Tamara Wilson. Il razzismo sarebbe mettere in scena Aida com’è sempre stata: nera. Si sa: lei è etiope, schiava degli egizi e da che Aida è Aida si sono sempre differenziati i due popoli in guerra dandoci parecchio dentro con il lucido da scarpe.
Adesso, secondo la signora Wilson, è arrivato il momento di correggere politicamente Giuseppe Verdi, quello sporco latifondista padano (Sant’Agata come la capanna dello zio Tom?). Il diktat della primadonna diventa un problema per l’Arena di Verona, dove Wilson è scritturata per tre recite dell’opera. Due le ha già cantate, il 21 e il 24. Ne resta una, domenica prossima.
La contraddizione
E già mercoledì Wilson aveva proclamato che non si sarebbe truccata e che quindi «la performance di stasera (il 24, appunto, ndr) sarà la prima in 106 anni di storia in cui Aida non sarà dipinta». Poi la ragione deve aver prevalso perché le foto documentano che mercoledì Aida era in scena regolarmente «abbronzata», come avrebbe detto un ex presidente del Consiglio italiano.
Ma il problema si ripresenta perché, sostenuta dai social, Wilson non vuole scurirsi per la rappresentazione di domenica. Oggi a Verona si cercherà un accordo. Ma pare che la sovrintendente e direttrice artistica dell’Arena, Cecilia Gasdia, a sua volta ex cantante ma non ex Aida perché non l’aveva in repertorio, sia per la linea dura: o Wilson si trucca o canta un’altra. Tanto più che si tratta di una ripresa dell’Aida «storica» del 1913 (uno spettacolo fresco fresco), quando il problema proprio non si poneva e un’Aida pallida era impensabile.
Due scuole di pensiero
Intanto però il dibattito in rete è aperto. Sotto l’hashtag #blackface si scontrano le due scuole di pensiero. Esempi? @brunomegale1 reputa «bislacca» la polemica e fa notare che «c’è una tradizione teatrale da non sottovalutare. Il rispetto per le differenze è altra cosa». Replica @pornonoblogs: «La tradizione se è razzista si può e si deve cambiare».
Il problema è forse serio ma di certo non nuovo. Il politically correct sta cambiando i connotati a molti capolavori scritti in altre epoche e con altre sensibilità. Si sono visti nel passato anche recente degli Otelli perfettamente bianchi, e del resto si sa che Shakespeare si era sbagliato prendendo il «Moro» per un attributo razziale invece che per un tipico cognome dell’Italia settentrionale (Mori, Moroni, Morini, Moretti etc.). Si è ahimè vista, l’anno scorso al Maggio, una Carmen che non faceva la sua abituale brutta fine per lanciare un messaggio anti-femminicidi. Il flauto magico è particolarmente preso di mira, in quanto il libretto di Schikaneder sarebbe «razzista e misogino». O almeno è l’opinione della regista olandese Lotte de Beer che l’ha fatto tout court riscrivere per salvare almeno la musica di Mozart.
Opera colonialista
Però è curioso. Aida sarà pure un’opera colonialista, e anzi inaugura la deplorevole tradizione italiana di associare alla conquista del posto al sole quella sessuale. Con risultati musicali molto più modesti, insistono sull’argomento le nostre canzonette coloniali, da Tripoli bel suol d’amore a Faccetta nera. Ma il messaggio di Verdi è, appunto, antirazzista, perché il bianco Radamès s’innamora della nera Aida e muore con lei. Razzista, semmai, fu quel censore ottocentesco che per una ripresa fiorentina dell’Otello (quello di Rossini, però), scrisse sul libretto che il moro sarebbe stato bianco, perché altrimenti sarebbe risultato incomprensibile che una leggiadra fanciulla, di buona famiglia e in tutti i sensi candida come Desdemona potesse innamorarsene. Per il resto, fra la signora Wilson e Verdi, scusate, proprio non c’è gara.