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 2019  luglio 26 Venerdì calendario

I 99 anni di Franca Valeri

È la noia il sentimento del tempo presente: non l’ha detto Moravia, l’ha scritto Valeri, Franca Valeri, 99 anni mercoledì prossimo. Quasi un secolo, portato benissimo, non fosse altro che è Il secolo della noia, come il titolo del suo ultimo, muriatico pamphlet licenziato da Einaudi.
Attrice e autrice, dal multiforme ingegno e dalla penna irresistibilmente crudele, Valeri si sente “un pezzo unico” – senza spocchia –, una donna “vissuta molto prima dell’attualità”, “allegrissima” al lago e che “lavora per essere felice”: ciononostante, “una che si annoia più di lei è difficile trovarla”.
Per scrivere della noia, e pensarla e leggerla, ci vuole talento: il talento di ammazzarla, la noia. E Valeri ne ha almeno un altro: il piglio icastico dell’aforista in un “Paese che ha dato un calcio alla tradizione, non capendo che era l’unico modo per essere moderni”. Quanto al tedio, che “fodera il fondo delle nostre giornate”, è un sentimento eroico, sì, ma solo “se ti afferra sulla tomba di un eroe o se lo vivi dietro un vetro in attesa di un amante ritardatario”.
La delusione del secolo è scoccata alla mezzanotte del “più normale capodanno, quasi a tradimento: io non ricordo neanche dove sono andata a cena”. Benvenuti nel Duemila e nel secolo XXI, “disadorno” oltre che noioso, anestetizzato e narcisista: “Credersi al centro dell’universo tocca chiunque è consolidato dalla televisione, da internet e dai social network… Vedo troppa gente convinta di conoscersi, mentre è evidentemente l’ultimo scopo della loro vita”. Per l’artista il mondo è inquinato da “questo sistema di familiarità nell’aria”: la più ficcante definizione della modernità che il sociologo definì, molto più prosaicamente, liquida.
“Credo che nessuno si sia mai sentito nel secolo giusto. Paolo Uccello avrebbe preferito farsi conoscere su internet: è molto più difficile avere un pubblico che non aspettare il lento cammino della storia dell’arte”: è troppo smaliziata e intelligente Valeri per attaccare la contemporaneità tout court, la virtualità, il sovraffollamento, le dittature e le galere dell’oggi. E infatti non attacca, insinua: Bugiarda no, reticente, come si definì lei stessa nell’autobiografia del 2010.
Di noia non si muore, ma ci si ammala: la pandemia si è diffusa “quando abbiamo smesso di telefonare coi gettoni”, quando la vita si è fatta facile, più svaghi ma meno godimento e zero fatica, eppure “il mondo era più bello quando ce n’era molta”. Forse la noia è solo il “prezzo” dei moderni privilegi, un anestetico che ha sedato con il dolore anche il “grande svago” che il dolore porta con sé. Persino l’amore è fuori moda, privato di qualsiasi fatalità, così come l’odio: “Non abbiamo più niente che ci sorprende”, o è solo pigrizia, perciò ben ci sta il grigiore.
In questo delizioso zibaldino di pensieri, l’attrice – forse per deformazione professionale – si ritrova spesso a chiacchierare con altri personaggi: l’Arte, la Scienza e il Teatro, “quel signore che mi ha accompagnato quasi tutta la vita” e che oggi, manco a dirlo, è di una noia mortale, soprattutto quando scimmiotta la realtà. Morti Puccini e Picasso, “diciamo che di grandi motivi di emozione non ne abbiamo avuti molti”: gli antichi maestri non sono quasi mai di conforto, semmai lo sono i cani, la cui “rigorosità” è bestiale, invidiabile, irraggiungibile.
Le relazioni, animali o umane, paiono l’unico rifugio all’uggia: l’amicizia, gli ingenui pettegolezzi, le favole sugli antenati, le cui “disperazioni erano così diverse”, così interessanti, così poco barbose. Certo, pure un marito o una moglie potrebbero essere un valido repellente al tedio; a patto, però, di scegliere quello giusto: “Meglio un idiota che un noioso, perché la noia è proprio uno stato di vita da evitare, se possibile. Ma non è possibile”.