Corriere della Sera, 26 luglio 2019
Storie di Luigi Fantoma, cacciatore d’orsi
Quando ho letto nei giorni scorsi le vicende di M49, l’orso del Trentino – catturato e fuggito, ricatturato? Fuggito di nuovo? Ancora in fuga – non ho potuto fare a meno di ripensare alla storia di Luigi Fantoma, che di orsi nella sua vita ne ha catturati addirittura venti. Certo, nell’Ottocento chi catturava un orso guadagnava la taglia prevista per legge, insieme alla stima dagli altri cacciatori e alla riconoscenza dei valligiani, liberati da un pericolo per le greggi e le arnie. Ma la storia del Fantoma – detto anche Martanell, taglialegna e guida alpina, oltre che gran cacciatore – si distingue da quelle di molti altri cacciatori del suo tempo perché ne ha lasciato memoria in due manoscritti, uno più dettagliato, uno più sintetico, nei quali racconta la sua vita e, con dovizia di particolari, le sue cacce all’orso, tutte, una per una, con dovizia di dettagli.
Ci si chiederà come mai un personaggio, che certamente non aveva molta dimestichezza con carta e penna, si sia cimentato nello stendere la sua autobiografia. Il caso ha voluto che alla fine dell’estate del 1881 Vespasiano Bignami (pittore, critico d’arte e, diremmo oggi, animatore culturale tra i più vivaci nella Milano tra Otto e Novecento), durante una vacanza a Strembo (Trento), abbia conosciuto il Fantoma, l’abbia sentito raccontare qualcuna delle sue imprese e sia rimasto affascinato dal suo linguaggio «animato, pittoresco, scosceso». Da qui la decisione di invitare a Milano questo singolare personaggio per farlo conoscere agli «scapigliati» soci della Famiglia Artistica, che lo stesso Bignami aveva fondato nel 1873: così il «Re di Genova», come si autodefiniva e autoglorificava (e così era conosciuto nelle sue valli), venne a Milano nel febbraio del 1882: della sua figura, dritta e asciutta, avvolta in una gabbana orlata di pelo d’orso resta il ricordo in uno schizzo di Bignami pubblicato insieme a due articoletti in cronaca su «L’eco dello sport» e sulla «Gazzetta letteraria» nel settembre 1882.
Tanto colpì Bignami la vivacità del modo di raccontare e il linguaggio – una molto personale mescolanza di italiano e dialetto trentino, con qualche inserto di tedesco – che gli chiese di mettere per scritto i suoi ricordi per prolungare con la lettura di un testo il piacere dell’ascolto dalla viva voce. Fantoma aderì alla richiesta due volte: nel 1885 e, con un testo più breve, nel 1892. Credo che Bignami avesse intenzione di pubblicare la storia del Re di Genova, ma deve essersi scontrato con le difficoltà della trascrizione/traduzione dei manoscritti. Per fortuna li conservò tra le sue carte.
Quando io con Carlo Montalbetti e Costanza Mangione ci siamo impegnati a compilare l’indice del ricchissimo Fondo Bignami della Civica biblioteca d’arte del Castello Sforzesco li abbiamo ritrovati. E io, affascinata come Bignami dal linguaggio «animato, pittoresco, scosceso», mi sono intestardita a volerlo trascrivere. Non è stato facile, ma mi sono anche divertita, perché il Fantoma scrive le sue memorie senza spaziatura tra le parole, senza maiuscole e minuscole, né rispetto per le doppie consonanti, apostrofi, accenti, punteggiatura, capoversi ecc. o, meglio, usa tutte queste convenzioni quando e come gli pare. Un esempio: «… lorso mivide e preselafuga edaspeso sivoltavaadiettro io disperatta mente Noncredendomi difermare questo orso mabensi fugarlo percheavevaparavialchamozi litiroilCholpo etenevalamira un bracio soppra lorso e lorso feceunurlo ma io dise che a veva avutto pavura in vece erastatto colto dalla balla Nella panza basa…». Superata la difficoltà della decifrazione e trascrizione del testo, mi sono resa conto che il Fantoma riesce a toccare molte corde: innanzitutto quella drammatica quando racconta la rapida successione delle fasi di una caccia, con gli imprevisti e le fulminee decisioni da prendere, oppure quando ricorda di essere stato in pericolo di vita durante un’epica nevicata; ma anche quella di un lirico naturalismo quando descrive un placido tramonto estivo con gli animali all’abbeverata o una notte di luna nei boschi innevati. Costante nelle descrizioni delle sue avventure di caccia è l’attenzione per l’ambiente naturale e il profondo rispetto per gli animali che uccide: l’orso in particolare è sempre trattato come un avversario valente, temibile, ma onorevole. Si sente sempre la vivacità del linguaggio parlato; di più: la pratica del narratore abituato a parlare a un uditorio, di cui sa come tener desto l’interesse, creandone l’attesa e la sorpresa.
Si dirà che per rendere più facile la lettura delle storie del Fantoma basterebbe tradurle in italiano, ma si perderebbe la particolarità del suo linguaggio, lo si banalizzerebbe. Non è vero che è più icastico «aquanasente» al posto di sorgente? «Fango daqua» invece di pozza di fango? «Dispavurimento» invece di paura? «Il tempo dirottamente minaciava» invece di il tempo era sempre più brutto? «Disscappallatto» invece di senza cappello? E così via. Qualche sapientone liquiderebbe sbrigativamente questo linguaggio come infantile e grottesco, ma a me appare come lingua viva, perché parlata e, direi, vissuta fin dalla nascita.
Quando sono riuscita a pubblicarli, nel 2002, ho fatto solo qualche intervento minimale per aiutare il lettore. Il volume, Sulla pelle dell’orso, pubblicato da «Il Sommolago» di Arco (Trento), contiene anche le dotte pagine sulla caccia all’orso di Danilo Mussi, che ricostruisce puntualmente anche la vita del Fantoma, ed è onorato da una breve prefazione del «sergente» per antonomasia, Mario Rigoni Stern.