Corriere della Sera, 26 luglio 2019
Usa, il razzismo «immobiliare»
Da San Francisco a Seattle, da Austin a San José, le città americane che crescono in quanto poli d’attrazione dell’alta tecnologia vivono crisi immobiliari che accentuano drammaticamente gli effetti delle diseguaglianze economiche. I disagi dei dipendenti a basso reddito, spesso incapaci di trovare un alloggio a prezzi ragionevoli non troppo lontano dal luogo di lavoro, sono legati all’enorme disparità retributiva tra «lavoratori della conoscenza» – il personale delle società hi-tech – e gli addetti a tutti gli altri servizi e alle attività commerciali; pesa, però, anche a una sorta di «razzismo immobiliare» diffuso nelle parti più ricche di queste comunità. I parcheggi vicini alle sedi delle grandi aziende, di notte popolati da automobili nelle quali dorme il personale che di giorno fornirà a queste società servizi di ristorazione, trasporto, sicurezza e altro ancora, sono diventati il simbolo dell’altra faccia del successo tecnologico dei giganti digitali: il fallimento sociale.
La promessa dei leader della Silicon Valley di dar vita a una Internet economy democratica e vantaggiosa anche per i più deboli della comunità, è rimasta sulla carta. Colpa della crescente polarizzazione nella distribuzione dei redditi, ma anche di piani regolatori che destinano gran parte degli spazi urbani ad abitazioni monofamiliari con giardino: quelle destinate ai benestanti (bianchi più qualche ingegnere asiatico). Tutti i tentativi di modificare questi zoning plan per fare spazio a edilizia popolare, condomini a maggiore densità abitativa e a costo più basso, si sono infranti contro l’opposizione delle comunità locali. Tutte le città tecnologiche votano democratico, ma quando politici sensibili alle istanze anche di neri e ispanici provano a cambiare le regole, sbattono contro un muro: coalizioni di cittadini benestanti che si attivano denunciando il rischio di un cambiamento della natura della loro comunità.