il Giornale, 26 luglio 2019
Parla Raffaele Cutolo, cieco e sepolto vivo
«Seppi da uno dei componenti della banda della Magliana, un tale Nicolino Selis, il covo dove era nascosto Aldo Moro, e lo feci sapere ad Antonio Gava che però mi mandò a dire: don Rafè, fatevi i fatti vostri». Così parlò don Raffaele, ovvero Raffaele Cutolo, il boss della Nuova camorra organizzata, sepolto dal 1979 in una cella di massima sicurezza, piegato dagli anni e dall’isolamento, ma ancora con la voglia un po’ guappa di dire la sua. Non potrebbe, perchè ha il divieto di incontro con chiunque tranne gli stretti familiari. Ma un cronista del Mattino riesce ad arrivare faccia a faccia con lui, separato dal vetro blindato della sala colloqui del carcere di Parma. Ne nasce una intervista-scoop che suscita le ire del ministero, che annuncia una inchiesta interna per capire come il giornalista sia arrivato a incontrare Cutolo e a raccontare il vecchio camorrista: «il respiro affaticato, il volto smagrito, i capelli lunghi la barba incolta».
Il carcere lo ha piegato, anche perché vive in isolamento totale: anche all’aria dovrebbe andarci da solo, «ma che ci vado a fare?». Così resta nel suo loculo: «Aspettiamo la morte. Le giornate sono sempre uguali. Leggo poco perché da un occhio non ci vedo più e dall’altro la visione è ombrata. Qualche sera mi cucino la pasta e fagioli. E poi guardo qualche programma in televisione: l’altro giorno ho visto quello di Massimo Ranieri, Sogno o son desto». Può fumare i toscani. L’altra grande passione, le canzoni di Sergio Bruni, a Parma non gliele hanno fatte portare. É lo stesso carcere dove era rinchiuso Totò Riina, fin quando venne portato a morire in ospedale: «Riina era uno spietato, lo incontrai due volte durante la latitanza e una volta gli buttai la pistola addosso».
Il 15 maggio Cutolo ha compiuto i quarant’anni di carcere ininterrotto. Sono stati, almeno all’inizio, anni di carcere un po’ strani, in cui l boss detenuto poteva scegliersi la prigione, la cella, i compagni-camerieri; ed alla sua porta bussavano politici, poliziotti, spie. Al giornalista, il boss ricorda la processione che veniva a chiedergli di intercedere per la liberazione di Ciro Cirillo, l’assessore campano rapito dalla Br: don Raffaele intervenne, le Br accolsero la mediazione, Cirillo – a differenza di Moro – tornò a casa.
Lo Stato, racconta Cutolo, alla porta della sua cella è tornato a bussare più di recente: «Fino a due anni fa sono venuti per convincermi a parlare. Quando stavo nel carcere di Carinola mi proposero di andare in una villetta con mia moglie per fare l’amore con lei, ma io non ho voluto: non volevo far arrestare qualcuno per poter stare con Immacolata, non l’avrei mai accettato. Il pentimento è davanti a Dio». Non mi pento, manda a dire Cutolo: ed è forse un segnale per tranquillizzare quelli fuori, quelli che ancora oggi – più a Roma che ad Ottaviano – potrebbero avere dei problemi se quest’uomo aprisse la sacca dei suoi segreti.
«Io ho fatto tanto male ed è giusto che resti qui dentro», manda a dire Cutolo. A dicembre ha compiuto 77 anni, due terzi della sua vita l’ha passata dietro le sbarre. I morti che pesano sulla sua coscienza sono innumerevoli: di alcuni dice «me li sogno di notte», di altri delitti dà una spiegazione cruda, prosaica. Il vicedirettore di Poggioreale, Giuseppe Salvia, lo fece ammazzare «perché mi faceva perquisire sempre, ogni volta che entravo e uscivo dalla cella, non ne potevo più. Mi spiace, ma che potevo fare?».
Il comunicato del ministero sull’intervista è duro: «L’intervista di Cutolo non è mai stata autorizzata, si sta procedendo alla ricostruzione della catena di responsabilità che ha portato a questo fatto increscioso e si prospettano provvedimenti esemplari». Certo, Cutolo avrebbe potuto rifiutare di rispondere: ma, come dice il suo legale Gaetano Aufiero, «uno che da venticinque anni non vede nessuno, se viene chiamato a colloquio da qualcuno non può che averne piacere....».