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 2019  luglio 26 Venerdì calendario

In Italia il diritto di asilo solo per l’8%

Al 30 giugno 2019 nel sistema di accoglienza/protezione italiano si trovavano in tutto 108 mila 924 stranieri, 26.209 dei quali titolari di protezione internazionale e quindi autorizzati a rimanere in Italia pur essendovi entrati illegalmente. Altri 118 erano in uno degli hotspot in cui gli immigrati illegali appena arrivati vengono condotti per essere identificati e registrati. Infine 82.597 immigrati erano distribuiti nei Cara e nei Cas, i centri di accoglienza per immigrati che hanno chiesto lo status di rifugiato. È su di loro, dicono gli esponenti delle organizzazioni non governative e delle cooperative, che sta per abbattersi la scure dei tagli previsti dalla legge sicurezza e immigrazione, tagli che riducono la spesa giornaliera per immigrato da 35 euro a un importo che varia tra 21,35 a 26,25 euro a seconda del tipo di struttura.
«È un provvedimento», commentava Simone Andreotti, presidente In Migrazione, intervistato dal mensile Vita all’indomani della conversione in legge del decreto sicurezza, «che appare esclusivamente e ossessivamente incentrato sul tagliare i famosi 35 euro», senza minimamente tener conto delle «conseguenze umane» delle nuove disposizioni. Con esse, sostengono le cooperative che hanno in carico i richiedenti asilo, «spariscono definitivamente tutti i servizi per l’integrazione dei richiedenti asilo». Vengono meno l’insegnamento della lingua italiana, i corsi di formazione professionale e inoltre le attività per «la positiva gestione del tempo libero: attività di volontariato, di socializzazione con la comunità ospitante, attività sportive».
Perché mai dovrebbero venire meno per mancanza di fondi delle attività di volontariato è la prima obiezione che viene in mente, ma è del tutto marginale rispetto alla questione fondamentale, vale a dire lo status delle persone alle quali «si negano i servizi per l’integrazione e per il tempo libero». Si tratta di persone che giustificano il loro ingresso illegale in Italia sostenendo di essere profughi. Hanno quindi presentato una richiesta di asilo che, secondo quanto prevede la Convenzione di Ginevra per i rifugiati, dà loro diritto di rimanere in Italia finché la richiesta non viene esaminata. Se approvata, ottengono lo status giuridico di rifugiato, se respinta, perdono il diritto di risiedere in Italia.
Altrove nel mondo chi fugge dal proprio paese (i rifugiati sono attualmente circa 20 milioni) lo fa per salvarsi la vita, se no resterebbe a casa sua: i Rohingya vanno in Bangladesh, i nigeriani del nord est in Camerun, i burundesi in Tanzania... Varcano in qualche modo le frontiere, chiedono asilo, è ovvio che lo ottengano, vivono sotto mandato dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che si chiama Unhcr, per tutto il tempo necessario, rientrano in patria appena possibile. Non per questo vengono loro offerti corsi per imparare la lingua del paese ospite e attività formative e ludiche per tenerli occupati e farli svagare. Loro se possono si danno da fare per procurarsi mezzi di sussistenza oltre a quelli essenziali offerti dall’Unhcr e vivere meglio.
Ma in Italia è diverso. In Italia di profughi ne vengono pochi. Chiedere asilo è per molti un mero espediente per non essere respinti, per poter restare in Italia in attesa del giudizio definitivo che può arrivare dopo molti mesi perché, nel caso di un primo parere contrario, il richiedente può appellarsi contando sull’assistenza legale gratuita a cui ha diritto grazie all’istituto del gratuito patrocinio. Nel 2015 su 71.117 richieste di asilo esaminate, è stato concesso lo status giuridico di rifugiato a 3.555 persone, pari al 5%; la stessa percentuale nel 2016; l’8% nel 2017 e il 7% nel 2018. Aggiungendo l’altra forma di protezione internazionale, quella sussidiaria, concessa a persone che pur non possedendo i requisiti per il conferimento dello status di rifugiato non vengono respinte perché si teme che, se tornassero nel paese di origine, rischierebbero di subire gravi danni, la percentuale sale: al 19% nel 2015 e 2016, al 16% nel 2017, al 12% nel 2018. Nel 2019 nei primi due mesi dell’anno lo status di rifugiato è stato attribuito rispettivamente al 9% e al 10% dei richiedenti, la protezione sussidiaria al 6% in entrambi i mesi.
Questi essendo i dati, dovrebbe essere facile capire che non è una «esclusiva e ossessiva» volontà di tagliare le spese a muovere il governo italiano e neanche la volontà di tornare «a un approccio assistenzialista tutto incentrato su vitto, alloggio e fornitura di beni», ma il fatto che non c’è motivo di insegnare l’italiano e di organizzare corsi professionali per preparare l’integrazione dei circa 70 mila richiedenti asilo, su 82 mila, che quasi sicuramente non otterranno il diritto di vivere in Italia. Né è giusto, nell’interesse dei cittadini italiani, spendere per rendere piacevole il tempo libero e favorire la socializzazione di persone la maggior parte delle quali hanno mentito sulla loro condizione approfittando dell’istituto dell’asilo come espediente non solo per restare in Italia, ma anche per essere assistiti per un lungo periodo di tempo.
Solo chi ottiene protezione internazionale passa dai Centri di accoglienza al sistema di protezione Sprar. È allora che qualche iniziativa che ne favorisca l’inserimento, e auspicabilmente l’integrazione, nella vita italiana ha senso organizzarla.
Conosciamo i dati relativi agli anni trascorsi che dimostrano una percentuale sostanzialmente costante di richieste di asilo approvate. Quest’anno la percentuale potrebbe diminuire. Al 18 luglio gli arrivi registrati erano 3.186. Le prime dieci nazionalità dichiarate allo sbarco sono Tunisia, Pakistan, Costa d’Avorio, Algeria, Iraq, Bangladesh, Sudan, Guinea Conakry, Iran e Camerun. Considerando questi paesi d’origine, non sono molte le richieste che hanno qualche probabilità di essere accettate.
Per inciso, concludendo, le cooperative che avversano la nuova normativa protestano che eliminare corsi, insegnamenti, attività sportive e del tempo libero condanna i richiedenti asilo a restare in ozio, a «passare i giorni bighellonando, arrangiandosi alla meglio». Questo non è esatto. Per legge infatti 60 giorni dopo aver presentato richiesta di asilo l’immigrato ha diritto a lavorare.
Anna Bono, Docente di Storia e istituzioni dell’Africa all’Università di Torino