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 2019  luglio 25 Giovedì calendario

Cronaca della seduta imbarazzante in Senato

Mentre il premier Giuseppe Conte cercava di dire qualcosa di sensato sulle gite russe di Matteo Salvini e dei suoi stravaganti accompagnatori (l’ex bagnino di tendenza nazista Gianluca Savoini e lo stratega internazionale persuaso della presenza fra di noi dei marziani Claudio D’Amico), l’aula del Senato era attraversata da un fragore tipo motorino senza marmitta. Era Ignazio La Russa che gridava "Taaaaav… Taaaav" (lo abbiamo decrittato intorno al dodicesimo "Tav") e in piedi indicava i banchi dei cinque stelle vuoti. E infatti due terzi dei senatori grillini (o ex grillini, o post grillini, chissà) s’era dato alla macchia dopo aver ricevuto alle 16,23 – sette minuti prima che Conte si accomodasse al microfono – un sms di conferma della latitanza dell’imputato, il ministro dell’Interno, contro il quale bisognava dunque sceneggiare una teatrale protesta. Purtroppo per gli abili comunicatori, la comunicazione non è riuscita. Tutti avevamo capito che ce l’avessero con Conte, compreso Conte, tanto che alla fine della seduta il capogruppo a cinque stelle, Stefano Patuanelli, s’è lanciato lungo i corridoi di Palazzo Madama all’inseguimento del suo premier: è tutto un equivoco, tutto un equivoco!
In effetti è stato abbastanza surreale, perché alla fine di Salvini s’è parlato quasi di sfuggita. Lo stesso Conte, che da quando vanta il gradimento del cinquantaquattro per cento degli italiani ha imparato a darsi un tono, e ieri lo diffondeva sotto forma di sguardi con cui incenerire i piddini che lo contestavano, e che tuttavia non sembravano inceneriti, lo stesso Conte, dicevamo, di Salvini s’è occupato qui e là. Anche perché la sua crescente autorevolezza non è bastata per ottenere dal Viminale i dettagli che gli servivano per spiegare come e a che titolo il nostro Savoini stia sempre in mezzo quando Salvini incontra Putin. Io le ho chieste le carte, ha detto il presidente, ma non me le hanno date. Un colpo all’autorevolezza, si direbbe, ma Conte ha garantito che vigila e vigilerà sulla fedeltà atlantica di ogni partito del suo governo. 
Al che Pierferfinando Casini, che in questa assemblea di giostrai rimedia sempre la figura di un Bismarck, gli ha fatto notare che sulla fedeltà atlantica dei partiti di governo non si dovrebbe vigilare, la si darebbe per acquisita. Lo stesso Casini, però, era costretto a girarsi e indicare con gesto ampio i banchi deserti alle sue spalle: una rilevantissima questione politica, ha detto. Ma come, ha continuato, lei chiede rispetto quando sono i suoi a negarglielo, mollandola qui da solo e per ordini venuti dall’alto? (Qui immaginate la voce di La Russa direttamente dalle piste del Mugello: Taaav… Taaav). 
Cioè, eravamo collegialmente convinti che, costernati per l’assenso all’Alta velocità Torino-Lione concesso il giorno prima dal premier, i cinque stelle avessero avviato un golpe. E però non tutto tornava. Per esempio: perché i senatori avevano piantato lì il loro premier quando una delegazione di colleghi deputati gremiva le tribune per tributargli una fitta serie di standing ovation? Mah. Finché non è stato il turno di Patuanelli. Prima non era successo un granché. Niente, perlomeno, che ambisca ad entrare nella storia del pensiero contemporaneo. Il leghista Massimiliano Romeo, per dire, aveva risposto alle geremiadi del Pd attingendo alle sue più squisite doti analitiche e oratorie: e allora i rubli del Pci? E allora Mitrokhin? E allora Bibbiano? E allora Mafia capitale? Figuriamoci quale successo potesse riscuotere il sacrosanto invito di Stefania Craxi, come quello del padre Bettino ventisette anni fa, e con citazione che ai più dev’essere sembrato austroungarico ("senza infingimenti, ipocrisie, ingiustizie, processi sommari e grida spagnolesche"), di interrogarsi sulla natura del finanziamento alla politica. Un concetto un po’ troppo composito per un consesso che non è nemmeno in grado di spiegarsi a gesti, come s’è visto dal gesto cinquestellato di abbandonare l’aula. Finché, appunto, non è toccato al capogruppo Patuanelli.
E qui è imposta un’ultima divagazione. L’ottimo Patuanelli ha cercato di chiuderla dicendo che l’intera questione russa era figlia di un po’ di superficialità, ma chi oggi come oggi, diceva, non è un po’ superficiale? A chi non è mai capitato di andare a una cena con Putin portandosi dietro il primo che passa? Ma questa brillante soluzione politica Patuanelli l’aveva sciorinata dopo aver provato, con qualche inciampo, a esprimere il suo imbarazzo – termine testuale – per il malinteso in cui sciaguratamente era stato indotto il capo del governo e con lui l’aula intera. Loro, in realtà, erano scontenti dell’indelicatezza dell’alleato Salvini: abbiate pazienza, e non se ne parli più. Con spirito funebre, ce ne siamo tutti andati verso il tramonto.