Corriere della Sera, 25 luglio 2019
Con la guardia costiera libica. Reportage
Dalla distanza di due miglia il gommone nero è un puntino che appare e scompare tra le onde. Una barca di pescatori? Occorre avvicinarsi per capire che è carico di migranti. Ne conteremo 38, di cui circa la metà giovani egiziani dell’area di Fayum. Non si muove, ha il fuoribordo in panne. Li vediamo sbracciarsi, chiedere aiuto. Hanno capito benissimo che siamo della Guardia Costiera libica venuta a portarli indietro. Se potessero cercherebbero di scappare. «Ma non hanno scelta. Sono loro stessi a implorare assistenza, stanno rischiando di morire», esclama il comandante, il 39enne Mustafà Abu Zeid, che dal 2016 ha trascorso lunghi periodi di addestramento con la Marina italiana. È lui alla guida della Ras Ijder, una delle tre motovedette donate dal governo di Roma a quello di Tripoli (è prevista la consegna di un’altra decina) con l’obbiettivo di contrastare le migrazioni illegali verso l’Italia.
Accadeva l’altroieri, le due del pomeriggio, una quindicina di miglia al largo di Tripoli, circa tre miglia oltre il limite delle acque territoriali libiche. Una giornata di mare calmo, poco vento. Verso le dieci della mattina il comando libico ci dà il lasciapassare per l’imbarco. Un loro informatore presso gli scafisti ha segnalato dal porto di Sabratha che un gommone è partito in piena notte alla volta dell’Italia. Prima di imbarcarci incontriamo nel molo vicino i marinai e meccanici italiani che dalla nave di supporto «Caprera» ci confermano che le imbarcazione dei guardacoste libici sono «efficienti nelle loro missioni».
Salpiamo a mezzogiorno. Velocità 18 nodi. «Sul radar non riesco ancora a vedere i gommoni dei migranti. Sono troppo piccoli. Ma un nostro drone li segnalava sulla rotta di fronte a noi verso Nord. Potremo raggiungerli entro un’ora. Non ci sono navi di organizzazioni umanitarie qui attorno, la Ocean Viking è oltre 100 miglia da qui. Però sappiamo che si stanno avvicinando alla Libia e ciò incrementa le partenze dei migranti», osserva Mustafà, indicando sul radar di bordo le coordinate del nostro rapido procedere. Ammette di aver avuto parecchi attriti con le Ong in passato. Se la prende in particolare con Sea Watch e Lifeline. «Non rispettano i nostri comandi. Sappiamo che sono in contatto con gli scafisti via web», accusa. Lui comunque non nasconde che ha l’ordine di fermare i migranti, in ogni modo. «Se non obbediscono al nostro alt, io faccio mettere il nostro gommone in mare e ordino ai miei uomini di bloccare il loro motore. A quel punto non hanno scelta, devono salire da noi se vogliono salvarsi», spiega.
Un’ora e mezza dopo i migranti galleggiano impotenti proprio di fronte alla nostra prua. Occhiate spaventate, molti non sanno nuotare, alcune taniche di benzina di quelle che hanno a bordo si sono rovesciate e loro sguazzano in un immondo liquame nero tra bottiglie d’acqua dolce, cibo e vestiti. Sono rassegnati. Il mare che doveva essere la loro via di salvezza per un futuro in Europa è adesso una trappola. C’è un attimo di confusione quando devono salire a bordo. «Siamo partiti alle dieci di sera con ottanta litri di benzina per il nostro Yamaha da 40 cavalli made in Cina. Ma già quattro ore dopo avevamo perso l’elica. Siamo rimasti alla mercé delle onde per dodici ore mentre il vento ci spingeva verso Est. Comunque sapevo bene che la benzina non sarebbe bastata per raggiungere le coste italiane e neppure maltesi. Speravamo di essere raccolti da una nave delle Ong», spiega Mohammad Kondù, un ventenne della Costa d’Avorio, che ammette di essere stato il timoniere. Si copre il volto. Alla vista della barca libica ha gettato in acqua il telefono satellitare che gli serviva per determinare la rotta col Gps ed eventualmente parlare con gli scafisti.
I ragazzi egiziani si aiutano tra loro, sono arabi, musulmani, dicono di «odiare la dittatura del presidente Al Sisi» e raccolgono le simpatie dei libici. Gli altri africani paiono invece più spaventati. L’unica donna è una ventenne nigeriana al settimo mese. Resta sdraiata sul ponte, spossata. Due giovani della Guinea dicono di essere «ottimi muratori», pronti a fare «qualsiasi lavoro».
Alle quindici attracchiamo. Li attendono i miliziani libici assieme al personale locale dell’Onu. «Dove ci portate?», chiedono. Una rapida visita medica, quindi il futuro incerto in un campo di detenzione.