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 2019  luglio 25 Giovedì calendario

In morte di Giampiero Pesenti

Quando, a metà degli anni Ottanta, ereditò dal padre Carlo la guida del gruppo di famiglia, nessuno poteva immaginare che di lì a pochi anni sarebbe diventato uno degli uomini più potenti dell’industria e della finanza italiana. Giampiero Pesenti, 88 anni, ingegnere, è morto ieri a Bergamo, la sua città.
Quadrato, silenzioso, tanto quanto il padre era stato spigoloso e irruente perfino nei rapporti con i grandi del capitalismo dell’epoca, Giampiero aveva cominciato a lavorare in Italcementi come impiegato, nel 1958. «Andava al lavoro in treno e non in auto – raccontano le biografie autorizzate – per non apparire sconveniente nei confronti dei colleghi». Alla morte del padre, nel 1984, Giampiero si ritrova al vertice di un gruppo grande, disordinato e indebitato. Mette in borsa carte e bilanci e bussa al portone di Mediobanca, il sancta sanctorum del capitalismo nazionale. Enrico Cuccia gli suggerisce una cura da cavallo: dismissioni, razionalizzazioni, focus sull’attività industriale storica. Cemento, cemento e ancora cemento. E, con la liquidità liberata, tanta finanza, perché «un grande gruppo industriale non può disinteressarsi della finanza». È l’inizio di un sodalizio duraturo che consegna all’imprenditore bergamasco le chiavi del salotto buono. Di più: anno dopo anno, quota dopo quota, Pesenti ne diventa uno dei cardini. Agnelli, Orlando, Pirelli e Pesenti. Banche, assicurazioni, industrie, giornali. Pesenti, con Italmobiliare, colleziona partecipazioni e posti nei rispettivi consigli: Mediobanca, Pirelli, Ras, Falck, Fiat, Montedison, Credito Italiano. Su mandato di Cuccia assume la presidenza di Gemina, la holding che controlla Rcs (e quindi ilCorriere della Sera ), e del patto di sindacato tra i grandi soci della casa editrice. Sale riunioni austere, grisaglie e gessati, auto blu allineate nei cortili. Il giorno del cda in quelle sale riunioni siedono molti dei grandi nomi del capitalismo italiano: pianeti e satelliti che ruotano intorno al sole di Cuccia. Ma in quelle stesse stanze ovattate si scaricano le tensioni sorde, le guerre di potere, gli effetti maligni dell’anacronistico arroccamento di Mediobanca a difesa di un modello – controllo familiare, incroci azionari e relazioni – che non regge più di fronte ai cambiamenti della storia. Pesenti, fin che può, tiene il timone: fedele (a Mediobanca), riservato (con Cuccia e Maranghi non può essere diversamente), gran mediatore, conservatore.
Ma la storia di Giampiero Pesenti è anche la storia di un grande industriale. Con un solo inciampo: l’arresto e la condanna in primo grado durante Tangentopoli per una vicenda di mazzette pagate dalla controllata Franco Tosi (in appello arriverà la prescrizione). Quell’Italcementi di metà anni Ottanta, un po’ caotica e coperta di debiti, si rimette nei binari e cresce fino a diventare uno dei gruppi più importanti del Paese. La mossa chiave nel ’92, con l’acquisto della Ciments Français, grande due volte Italcementi. Pesenti sorprende tutti e torna da Parigi con in tasca le firme su una delle acquisizioni all’estero più importanti nella storia dell’industria italiana: il gruppo bergamasco triplica in un amen il suo volume d’affari, il peso dell’Italia sul fatturato crolla dal 97 al 27,5%, i dipendenti superano 20 mila. Una vera multinazionale italiana, una delle pochissime. Giampiero Pesenti, insieme al figlio Carlo, la governerà fino al 2015, quando la famiglia cederà il controllo ai tedeschi di Heiderlberg per 1,6 miliardi, grosso modo la metà di plusvalenza. La cessione irrompe nel novero delle grandi aziende vendute allo straniero. Un’altra abdicazione dell’industria italiana, che Pesenti spiega così, con concretezza bergamasca: «Un imprenditore sa che l’importante è garantire lo sviluppo dell’azienda più che arroccarsi nella continuità del controllo».
Ai Pesenti resta la cassaforte Italmobiliare, gonfia di quattrini, che saranno spesi per acquisire quote di imprese industriali. Giampiero, da sempre poco incline alla mondanità, scompare o quasi dalla scena pubblica. All’inizio del 2015 perde la moglie, Franca Natta (figlia del Nobel per la chimica Giulio Natta), che aveva sposato all’inizio degli anni Sessanta. Gli resta da gestire l’ultimo contenzioso, il più spiacevole: due delle sue sorelle impugnano a distanza di anni il testamento della madre che assegnava a Giampiero una quota più alta nell’accomandita in cima alla piramide delle casseforti di famiglia. Giampiero tenta la mediazione, ma non c’è più tempo. «Solido. È un aggettivo che mi piace e che dimostra come siamo fatti – diceva – na parola che fa parte della nostra storia, ma anche così distintiva della gente bergamasca».