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 2019  luglio 25 Giovedì calendario

I 100 anni di Primo Levi

In un’«antologia personale» che curò nel 1981, Primo Levi incomincia da Giobbe, «il giusto oppresso dell’ingiustizia». Perché questa scelta? Perché Giobbe «degradato ad animale da esperimento» è immerso in una «contesa diseguale». Dio «creatore di meraviglie e di mostri lo schiaccia sotto la sua oppressione». Quei mostri Levi li ha sentiti sopra di sé, come la più buia ed enigmatica forza scaturita dalla ragionevolezza della storia per colpire senza altra volontà se non quella dell’annientamento. 
Nell’occasione del centenario della sua nascita, il 31 luglio, di un autore decisivo per la nostra letteratura, ma anche per la nostra coscienza civile, proviamo a ripartire proprio da Se questo è un uomo ormai entrato nel novero delle pochissime letture essenziali del nostro Novecento: Torniamo alle pagine più amate come quelle della morte della piccola Emilia. L’occhio è ossessivamente puntato sull’universo concentrazionale del Lager, nel suo tremendo azzeramento temporale in cui carnefici e vittime sprofondano, in una maledizione che sovrasta come una condanna biblica. «Ancora una volta recepiamo il nostro cervello mettersi in moto al di fuori del nostro volere: picchia e ronza incapace di riposo, fabbrica fantasmi e segni terribili». Levi racconta l’orrore e le sue infinite devastazioni senza effetti patetici, vuole capire senza indulgenze le regole, i codici di comportamento di quello spazio angusto in cui ogni atrocità è permessa. Sia per decifrare la terribile Ragione che, a un certo punto della Storia, ha incarnato il principio stesso della cancellazione, con le sue tecniche omicide.

GLI OFFESI
Sia per cogliere ai suoi margini, ferita e travolta ma con una rinnovata volontà di sopravvivenza, una Ragione diversa: quella degli offesi e dei reietti, talora volontariamente stretti in una morsa senza scampo nel rapporto con i carnefici, ma talora orgogliosamente sopravvissuti sfruttando «mancanza e povertà, come paradossali punti di forza». Per molti prigionieri di Auschwitz il lavoro, il «lavoro ben fatto», fu l’unico appiglio per sopravvivere e per preservare un nucleo di dignità. Per Levi l’elemento salvifico fu anche la curiosità, l’attitudine a osservare e registrare da chimico, da entomologo, da scrittore «il mondo e le persone che avevo intorno». «Il mio modello (o se preferisci il mio stile)», dirà lo scrittore a Philip Roth, «è quello dei report settimanali comunemente usati nelle fabbriche: deve essere preciso, conciso, e scritto in un linguaggio a ognuno nella gerarchia industriale comprensibile». Lo stesso Roth, nella sua intervista parlando di La tregua, il seguito di Se questo è un uomo, esprime la propria meraviglia e ammirazione: parla di «esuberanza», «riconciliazione con la vita che ha luogo in un mondo che a volte ti appare come un Caos primigenio»: «Tu sembri», scrive Roth, «una persona che ha bisogno, prima di tutto di forti radici nella sua professione, nei suoi antenati, nella sua regione, nella sua lingua, eppure quando ti sei trovato tanto solo e sradicato quanto può esserlo un uomo, hai considerato quella condizione un dono».
Una tregua che per Levi ha significati il ritorno alla normalità e a una sua immagine di scrittore proteso in più direzioni in una compiutezza del disegno che rende sempre più centrale e decisiva la sua statura narrativa e non lo mostra più come un autore identificato nella sua materia fin quasi a esserne sommerso. Storie naturali, ad esempio, lo mostra nelle divagazioni del fantastico, alle prese con strane macchine e strani eventi a prefigurare un’immagine del futuro su cui fortemente si proietta una certa malinconia, «un sapore d’antico». Si mostra più forte e quasi vincolante la natura scientifica dell’autore nella forma di distanza dalla materia trattata con apologhi, contes philosophiques. 

LA MATURITÀ
Altre tappe di questa maturità di scrittore sono Il sistema periodico e, soprattutto, La chiave a stella, il suo libro sicuramente più sperimentale: la meditazione è sul lavoro e sulle sue profonde trasformazioni viste dal punto di vista del chimico, con forti valenze autobiografiche e con l’innovazione di un parlato post-dalettale urbano che rende il romanzo singolarmente vivo. Poi Levi tornò ad approfondire i temi della condizione ebraica nel suo romanzo più romanesco, Se non ora, quando e nei saggi I sommersi e i salvati; estrema impietosa interrogazione sulla memoria, sulla necessità d testimoniare opposta al «sentimento di rassegnazione», di inerte accettazione del Male.
Scriveva anche poesie Primo Levi, insoliti taglienti versi in cui gli capitava di esprimere una certa ansia cosmogonica. Come se lo scienziato si fosse fermato di fronte al mistero: «L’universo ci assedia cieco, violento e strano». Non a caso forse, dal quel primo Giobbe il cammino si conclude con l’enigma dei buchi neri, con l’irriscattabile miseria e solitudine dell’esistenza umana. «Il dolore si legge in Vizio di forma – non si può togliere, non si deve, perché è il nostro guardiano». Sopravvive però la speranza dello scienziato, dell’uomo di Ragione che si affida alle sue affilate licenze poetiche: perché la «mente umana non dovrebbe saper debellare la paura, il bisogno e il dolore?».
Nel gesto violento ed estremo con cui Levi pose fine ai suoi giorni, forse quei fantasmi e quei segni terribili sono riaffiorati alla memoria, il dolore davvero gli è apparso intollerabile. Ma quella sua tormentata fede di scrittore e di uomo di scienza, che ha provato a descrivere l’orrore e non si è fermato dinnanzi al suo cupo segreto, resta un segnale forte e incancellabile che arriva fino ai nostri tempi così diversamente tormentati, in cui a Giobbe sono comunque riservati altri infiniti esperimenti.