Stefano Lorenzetto "Chi non l’ha detto. Dizionario delle citazioni sbagliate" Marsilio, Venezia 2019, 24 luglio 2019
Le citazioni sbagliate
Si fa presto a dire. Ma chi l’ha detto? E siamo sicuri che l’abbia detto davvero? Non sarà invece che a dirlo al posto suo è stato un altro?
Questo è solo uno spicilegio. Trattasi di voce dotta, attestata nella lingua italiana fin dal 1499. Viene da spicilegium (spigolatura), composto di spica (spiga) e legium (da legere, raccogliere). Una raccolta di spigolature. Però controverse. Sì, perché si fa anche presto a fare d’ogni erba un fascio.
La selezione di detti e contraddetti non ha, né vuole avere, alcuna pretesa di esaustività. Prendetela come una collezione di insetti molesti, infilzati nel corso degli anni a mano a mano che mi volavano sulla scrivania. C’è voluta una pazienza da entomologo per trafiggerli con gli spilli e appuntarli sul panno della memoria, assai più sdrucciolevole del velluto.
Doveroso preambolo, che potrebbe suonare offensivo – non lo è – per chi lo ha appena comprato: in questo libro non v’è niente di sicuro. Perlomeno non al 100 per cento, o non sempre in maniera inoppugnabilmente dimostrabile. Non è colpa di nessuno. È la smisurata materia a presentarsi così. Infingarda. Magmatica. Cangiante. «La vita stessa è una citazione», diceva Jorge Luis Borges (l’avrà detto davvero?).
Perciò fa’ conto, caro lettore, di entrare in una selva oscura dove l’autore per primo ha rischiato di smarrire la diritta via. O in uno di quei labirinti degli specchi che un tempo andavano di moda nei luna park: da bambino ne uscivo sempre con dei gran bozzi sulla fronte, e temo che finirà così anche stavolta. Forse, tenendoci per mano, alla fine avremo almeno evitato di andare a sbattere contro pareti che riflettono le immagini di un’infinità di autori, uno più incerto dell’altro.
Nelle pagine che seguono – voglio essere leale fin dalla premessa – non c’è altro che questo: un onesto, scrupoloso, faticoso tentativo di ricostruire la genesi di alcuni aforismi, locuzioni, motti, proverbi, modi di dire, battute, paradossi, frasi celebri che nel tempo sono diventati autentici pur essendo falsi all’origine.
La loro inverosimiglianza consiste principalmente nel fatto che sono attribuiti ad autori sbagliati, i quali non hanno mai detto o scritto nulla di quanto viene riportato fra virgolette. Impossibile, in molti casi, risalire alle fonti, tanto sono remote o inafferrabili.
Le citazioni apocrife sono così numerose che ho deciso di attribuirne la paternità ai nomi più gettonati, cioè quasi sempre quelli sbagliati. Nell’indice finale sono pertanto elencati come «presunti autori». D’altronde bisognava pur seguire un ordine alfabetico per tentare di sistematizzare il lavoro compiuto. Ma in queste pagine troverete anche frasi esatte attribuite al personaggio esatto, che però le ha «rubate» a uno o più autori del passato o, quantomeno, ha tratto ispirazione da loro. Così come troverete autori indicati correttamente ai quali soprattutto politici e giornalisti fanno dire frasi sbagliate. È dunque indispensabile leggere sempre la spiegazione sottostante a ciascun nome e a ciascuna sentenza, onde evitare di cadere nei tranelli del citazionismo.
Alcuni autorevoli colleghi, che avevo informato di questo mio progetto, mi hanno scoraggiato: «Ma sei matto? Chi te lo fa fare? È un impegno titanico!» Avevano ragione, soprattutto sul primo punto. Solo una vena di follia può avermi spinto a questa impresa, per la quale – ne sono certo – dovrò scontare l’ignominia di aver commesso a mia volta molti sbagli nell’inane tentativo di correggere quelli altrui. Tuttavia «è men male l’agitarsi nel dubbio, che il riposar nell’errore», come scrisse Alessandro Manzoni in Storia della colonna infame, e questa citazione almeno è sicura (anche se nell’introduzione di un mio libro pubblicato dieci anni fa da Marsilio, Si ringrazia per le amorevoli cure prestate, disonorai don Lisander spostandogliela – vergogna! – nel Conte di Carmagnola).
Questo esercizio, autolesionistico per chi come me appartiene alla casta degli scribi, si è rivelato indispensabile dopo che Paolo Mieli, per due volte direttore del Corriere della Sera, intervenendo a un convegno organizzato dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana, minacciò – giustamente – di farci arrestare tutti. «Una citazione latina sbagliata in un discorso o riportata erroneamente in un articolo dovrà diventare un’onta perenne, un guaio peggiore di un avviso di garanzia», disse l’allora direttore editoriale del gruppo Rcs. Prima di ritrovarmi iscritto nel registro degli indagati, decisi che dovevo sorvegliarmi con molta più attenzione sia nel parlare sia nello scrivere.
Credo che la coazione a correggere di continuo me stesso e gli altri sia il portato di una forma innata di perfezionismo maniacale, di un rigorismo patologico certo non spiegabile con il diploma da maestro conseguito pur fra molte svogliatezze. Tuttora m’intigno a correggere svarioni e malvezzi stilistici dei miei colleghi. D’altronde, André Malraux in La condition humaine fa dire a Tchen: «On fait toujours la même chose», si fa sempre la stessa cosa, e se vale per un cinese, figurarsi per un veneto, capace sul lavoro di superare gli orientali nell’ossessiva ripetitività delle azioni.
Tagliato, a circa un anno dall’inizio di una nuova avventura editoriale, il traguardo delle 2.000 mail aventi per oggetto «Correzioni», spedite ai colleghi che ogni giorno deragliavano, una giornalista m’inviò un ritaglio ingiallito che conservava da un quarto di secolo, ricevuto dal suo caposervizio quando lavorava al quotidiano di Verona. Era impestato di severi commenti scritti a penna sul giornale già stampato, accanto ai titolini delle brevi stilati dalla poveretta. Riconobbi la grafia ed ebbi un sussulto: era la mia.
Sono giunto pertanto a un convincimento di serena quanto terrificante definitività: dover correggere gli altri, mentre a fatica si riesce a correggere sé stessi, è fra le esperienze più tragiche che possano capitare a un essere umano. Ecco, per esempio, quel «sé stessi» vuole l’accento sì o no? Non è indispensabile. Solo che, se metti l’accento, troverai sempre chi ti sbrana. Eppure, Aldo Gabrielli nel Dizionario linguistico moderno (Mondadori) intima: «Si scriva sempre sé pronome con l’accento». Ed esemplifica: «Scriveremo dunque: sé stessi, sé medesimi».
Richiamata questa buona regola, un collega dello staff di direzione s’inalberò: «Al liceo classico mi hanno insegnato che l’accento non va». Per mia fortuna, una settimana dopo, in materia si espresse la Cassazione, cioè il professor Luca Serianni, autore dell’imprescindibile Grammatica italiana (Utet). Il quale, nella lezione di congedo tenuta all’Università La Sapienza di Roma, ribadì «la propria unica, inderogabile pretesa sugli studenti: che scrivano “sé stesso” con l’accento», riferì La Repubblica.
L’elementare verità di recente è stata solennemente sancita sul Corriere della Sera (un’intera pagina) anche dal linguista Giuseppe Antonelli, con un lungo articolo dall’attacco folgorante, che spiegava tutto: «Se stessi qui a fare polemica, dovrei semplicemente invitare tutti a fare pace con sé stessi, o con sé stesse: perché quell’accento non ci sarebbe, se stesse lì per caso. C’è perché serve a distinguere il pronome personale (sé) dalla congiunzione ipotetica (se). E, come appare evidente già da queste prime righe, non è affatto vero che quando sé precede stesso o medesimo di quell’accento non ci sia bisogno. Ma appunto, l’intenzione non è qui quella di far polemica, quanto di capire insieme perché è bene mettere sempre l’accento su quel sé». Ciononostante, in via Solferino, come raccontava Antonelli, arrivano ogni settimana messaggi indignati dai lettori: «Nel numero di domenica scorsa per due volte è scritto “sé stesso”. Per favore, non dimenticate anche voi l’ortografia!»
Il tema nel quale ho deciso d’inabissarmi è, come si vede, assai più vasto di quanto non appaia a tutta prima. Esso riguarda il declino della cura nel lavoro, la deriva routinaria di giornali che si «autofanno» anziché «pensarsi» per i lettori, la fine delle mediazioni segnata dall’estinzione dei grandi maestri di redazione che un tempo rappresentavano un filtro ineluttabile per chiunque ambisse a scrivere, la decadenza complessiva di una professione sempre più irrilevante sul piano dei contenuti dopo esserlo già diventata sul piano dei numeri.
Ciò che vale per «sé stesso» è tanto più vero per le citazioni: se provi a indicare un autore diverso da quello sbagliato che viene accreditato dalla vulgata corrente, passi subito per sbadato o, peggio, per ignorante. Questo piccolo manuale ha appunto lo scopo di evitare l’inevitabile, perché tiene conto che, «vista in profondità, ogni questione controversa presenta tre lati: il tuo, il mio e quello giusto», secondo l’aforisma rabbinico dell’ebreo Pinchas Lapide, teologo e storico delle religioni, riportato in Bibbia tradotta Bibbia tradita.
Spesso neppure i giornalisti di solido mestiere rispettano le regole. Conservo una lettera che Piero Ottone, già direttore del Corriere della Sera, mi scrisse nel 1994. Gli avevo contestato l’uso pasticciato delle minuscole nella grafia delle testate che leggevo sulla Repubblica (un po’ su tutti i giornali, in molti si ostinano a scrivere il manifesto, anziché Il Manifesto, perché credono di doverne imitare il logo, che è tutto in minuscolo). Risposta: «Mi pare giusto permettere una certa latitudine». Pur di non darsi torto, Ottone aveva preferito, da velista accanito qual era, usare un sostantivo geografico, latitudine, nella sua accezione letteraria: «Estensione in larghezza».
Chi corregge passa per cattivo, oltre che per tedioso. Perciò alle mie osservazioni diramate ai colleghi posponevo talvolta una frase cautelativa: «Io tutti quelli che amo li rimprovero» (Apocalisse, 3, 19). Qualcuno mi ringraziava. Non ho mai avuto cuore di spiegargli che il versetto giovanneo finisce così: «E li castigo».
Ogni frase replicata all’infinito entra nell’uso, viene tramandata, si storicizza e diventa più vera dell’ipse dixit aristotelico, in realtà derivante da Pitagora. Anche i giornalisti colti e avveduti finiscono per piegarsi all’andazzo generale. Ricordando la figura di Massimo Valentini, signorile conduttore del Tg1 morto d’infarto sul posto di lavoro nel 1984, il simpaticissimo Vincenzo Mollica mi raccontò che, alla fine di ogni edizione delle 20, il collega bussava alla sua porta e lo salutava così: «Presidente, si cagorno!» «Non ho mai saputo che volesse dire», soggiunse con una risata.
Il fatto che Mollica non avesse sentito il bisogno di accertare l’origine di quel motto goliardico mi aveva molto stupito. La voglia di saperne di più aumentò quando sentii che Marco Presta e Antonello Dose, nel loro programma Il ruggito del coniglio su Radio 2, se ne uscivano quotidianamente per scherzo con espressioni simili, da «carcerorno» a «catturorno». Mi misi a cercare e scoprii che traeva origine dal verso di una canzonetta che circolava fra i genovesi ai tempi della rivolta di popolo contro gli austriaci, cominciata nel dicembre del 1746. Il titolo è Cansonetta alla Corcia conposta l’anno 1747 del asidio di Genova, edita a cura di Achille Neri in Poesie storiche genovesi: «Poi li cannoni portorno alle Contrade, / per impedire ai Tudeschi le strade: / i Tudeschi si ridevan, / perché i nostri non temevan, / li stimavan per coglioni, / ma si cagorno ne’ calzoni».
In realtà, nella vita di redazione oggi è praticamente impossibile disporre del tempo per studiare, verificare, approfondire. In quei porti di mare chiamati giornali si lavora ormai un tanto al chilo e sempre con il fiato del dio Crono sul collo.
Dice Mary-Kay Wilmers, che nel 2018 ha festeggiato gli 80 anni di vita e i 25 trascorsi alla guida della London Review of Books («la migliore rivista del mondo», secondo il Guardian): «Ai giornalisti d’oggi non viene sempre data l’opportunità di crescere: il tempo di concentrarsi su una storia, lo spazio per raccontarla bene. È più difficile emergere, scrivendo in fretta e in breve». Vangelo.
Il guaio aggiuntivo è che la sciatteria, anche quando appare conclamata, non viene praticamente più sanzionata. Nelle redazioni il potere di punire qualcuno finì già prima che morisse, nel 1976, Arrigo Benedetti, entrato nella storia del giornalismo patrio per aver fondato, diretto e portato al successo i settimanali Oggi, L’Europeo e L’Espresso. «Un cerbero», secondo la definizione datami da Sergio Saviane, che era stato una delle sue vittime predilette. «Gli portavi il pezzo, cominciava a leggere, poi incontrava l’avverbio finalmente, lanciava un urlo, “vada a fare il ferroviere!”, appallottolava i fogli e ci saltava sopra con entrambi i piedi», ricordava Saviane, ancora turbato a 40 anni di distanza da quell’inumano trattamento.
A Enrico Marussig, un redattore coltissimo che aveva usato l’avverbio mica, caro anche a Giovanni Boccaccio, Benedetti sibilò, livido d’ira: «Lei impari prima a esprimersi! Uno che usa la parola mica non deve fare il giornalista, ma il ciabattino». Infatti a me, figlio di calzolaio, scappa spesso di usarla.
Come mi ha raccontato Giampaolo Pansa, un tempo il terrore di sbagliare permeava le giornate dei cronisti sino a notte fonda. Alla Stampa, dove egli debuttò nel 1960, il leggendario direttore Giulio De Benedetti aveva istituito cinque filtri di sicurezza per evitare le cappellate. L’ultimo era affidato a due redattori in pensione che all’alba arrivavano di soppiatto in redazione e avevano il compito di rileggere il giornale da cima a fondo, sottolineando gli strafalcioni con la matita rossoblù. Dopodiché preparavano un rapporto dattiloscritto destinato soltanto al direttore, che nella riunione delle 13 distribuiva legnate a dritta e a manca.
Oggi gli articoli finiscono in pagina esattamente come sono usciti dal computer dei giornalisti, e posso assicurarvi che nel 90 per cento dei casi non è un bello spettacolo. Si deve soltanto ai titolisti, qualora abbiano tempo e voglia di farlo, se un servizio assume una forma più umana. Un indicatore infallibile dell’inesorabile disfacimento è dato dalla mole di «qual’è» e di «pò» che arrivano ogni mattina in edicola. Sul finire del 2018, nell’editoriale con cui un bravo direttore prese congedo dai suoi lettori, lessi per ben tre volte «un pò», con l’accento anziché con l’apostrofo. Ma Nino Nutrizio, sbrigativo fondatore della Notte, avrebbe forse chiuso un occhio o entrambi, su questo: per lui prima di tutto veniva la notizia. «Tanto», largheggiava, «un cretinetti laureato che poi in redazione corregge “il zucchero” con “lo zucchero” lo si trova sempre».
Alimento da anni una mia personale emeroteca che allinea innumerevoli reperti, ed è solo l’imbarazzo della scelta che mi fa aprire la cartellina più recente, in cui ho collezionato perle come «a indotto in errore» e «Matteo Renzi non centra un tubo», apparsi in due editoriali del direttore di un quotidiano milanese; «insegnamo ai bambini» e «noi non ci rassegnamo», senza la «i»; «a provocare la deflagrazione potrebbe essere stata l’esplosione», pensa te che inspiegabile fenomeno; «i mortai cadono all’ora di uscita», non oso pensare ai pericoli dell’entrata; «sul seno e sul linguine»; «il dato è tratto», ignoro se ancora sul Rubicone; «i due filoni Consip, quello napoletano e quello partenopeo»; «dopo aver tentato un misterioso tentativo di suicidio»; «un tour over»; «con grafia un po’ stentorea»; «lo ammetto spontaneamente prima che arrivi l’Inquisizione Rosa a estirparmi la confessione», anziché estorcermi; «raccolti 800 euro per le realtà colpite dallo scisma», parlando di terremoto.
I nonsense spesso trascolorano nell’umorismo macabro, specialità involontaria equamente ripartita fra giornalisti della tv («L’uomo ucciso quando era ancora vivo», sottotitolo del Tg2) e della carta stampata, che spazia da «Ad esequie avvenute, si è spento serenamente l’ingegner Alessandro Ponti» (necrologio sul Messaggero) a «Muore prima del funerale» (titolo sul Resto del Carlino), piuttosto inevitabile, si dirà: lo sventurato era l’arciprete di Brisighella, stroncato mentre si apprestava a celebrare una messa esequiale, non per sé stesso, suppongo.
Per una vita ho cercato di mettere in guardia i miei colleghi da frasi fatte e scorciatoie semantiche con questo diktat temperato dall’ironia: «L’espressione “nel mirino” è abolita: viene lasciata ai cacciatori; la caccia all’uomo non rientra fra le specialità venatorie; le vite non si spezzano né si piegano; il traffico non va mai in tilt; in autostrada non si è mai visto l’inferno; un’auto non è impazzita, neppure se ha travolto 10 persone; la villetta degli orrori è stata venduta; la bufera è solo di neve, mai mediatica o politica; il braccio di ferro è diventato di pastafrolla; una tragedia, come la morte, non è mai annunciata».
In seguito l’ho dovuto integrare mediante la soppressione dei seguenti aggettivi e sostantivi: rigoroso (il riserbo), cauto (l’ottimismo), contundente (il corpo), pozza (di sangue), acuminato (il coltello), fitte (le due ali di folla ai funerali), brillante (l’operazione), futili (i motivi), ridente (la località), stringente (l’interrogatorio), rocambolesca (l’evasione), viscido (l’asfalto reso tale dalla pioggia), scherzo (di pessimo gusto), battuta (a vasto raggio), conflitto (a fuoco), morsa (del gelo), vigenti (le leggi).
Questa la situazione che è sotto gli occhi di tutti, almeno in Italia, con l’aggravante che trattasi di lettori ormai arcistufi di sorbirsi le trasandatezze dei giornalisti.
Non so quale sia la situazione all’estero, perché la mia competenza in fatto di lingue straniere è assai limitata per non dire inesistente, bastandomi la fatica quotidiana di tradurre nella mia testa dal veneto all’italiano. So che Rudolf Augstein, che fondò Der Spiegel e per un trentennio ebbe Tiziano Terzani tra le sue firme, s’era dotato di un ufficio di giornalisti che avevano l’unico compito di rivedere le bucce ai loro colleghi. Mi pareva d’aver letto tanti anni fa che ci lavorassero 27 redattori. Apprendo invece dalla Columbia Journalism Review che le persone impegnate nella revisione degli articoli e nella correzione delle bozze sono ben 80. Che dipenda da questo se Der Spiegel resta il settimanale più diffuso in Germania?
Eppure, nonostante questi ferrei controlli, la rivista tedesca non è riuscita a evitare che uno dei suoi reporter più prestigiosi, Claas Relotius, celebre per le sue inchieste, vincitore di molti premi, eletto giornalista dell’anno dalla Cnn, citato da Forbes come cronista eclettico, abbia rifilato ai lettori ben 41 articoli giudicati inverosimili. Esemplare il verdetto con cui Der Spiegel, alla vigilia del Natale 2018, ha licenziato in tronco Relotius: «Ha talento per la scrittura, ma non è un giornalista». Lui si è scusato, spiegando d’aver lavorato di fantasia «per paura di fallire».
Chi scrive per mestiere dovrebbe darsi come undicesimo comandamento quello che sentii declamare dall’attore Scott Eastwood, figlio di Clint, in uno spot della nuova Bmw Serie 5: «Mi ripeto spesso le parole di mio padre: “Ogni cosa tu decida di fare, falla al meglio”».
Fare del proprio meglio usando la saggezza d’altri non dovrebbe essere poi così difficile. Ma è proprio sul fronte delle citazioni erronee o improbabili, tema al cuore di questo libro, che va decisamente di male in peggio.
Ciò dipende, oltre che dalla negligenza, anche da una certa latitudine, per dirla con Piero Ottone, da sempre concessa alle grandi firme. È il caso di quella più grande di tutte: Indro Montanelli. Le sue innocenti invenzioni sono diventate storia. Com’era giusto che fosse, giacché qualsiasi imbecille può dire la verità, ma per mentire bene servono grandi doti, ammaestrava Samuel Butler, che nell’Ottocento tradusse in inglese l’Iliade e l’Odissea.
La più celebre di queste cronache creative riguarda la presunta intervista del gigante di Fucecchio con Adolf Hitler, ricostruita da Michele Brambilla nel saggio Sempre meglio che lavorare. Il mestiere del giornalista (Piemme). Montanelli sostenne fino alla morte che il 1° settembre 1939, quando le truppe tedesche occuparono la Polonia, egli si trovava proprio lì, sul confine, davanti alla colonna di panzer giunti dalla Germania. «Diceva», scrive Brambilla, «che i soldati tedeschi lo avevano visto, gli avevano puntato contro un mitra e lo avevano messo contro un albero, interrogandolo con i metodi con cui erano soliti interrogare, e facendo presagire il peggio. Ma a un certo punto, raccontava Montanelli, dalla torretta di uno di quei carri armati spuntò una testa, senza elmetto ma con due baffetti inconfondibili. Era Hitler».
Il dittatore chiese ai soldati chi fosse quell’uomo messo lì contro un albero, e si sentì rispondere che era un giornalista italiano. «A quel punto scese dal carro armato e mi venne incontro», narrava Montanelli. «Mi chiese per quale giornale lavorassi e cominciò a sbraitare per spiegarmi per quali motivi si era risoluto a invadere la Polonia. Invano cercai di interromperlo per porgli delle domande: non me ne lasciava né il tempo né il modo. Alla fine, dopo aver detto, anzi urlato, ciò che voleva farmi sapere, girò i tacchi e se ne andò. Andai subito alla ricerca di un telefono e chiamai Borelli, il direttore del Corriere, per dirgli che avevo lo scoop degli scoop: la prima intervista a Hitler. Borelli era entusiasta. “Scrivi quanto vuoi”, mi disse, “ma sappi una cosa: debbo avvertire il Minculpop, è materia troppo delicata”. Alla sera mandai il pezzo. Ma poco dopo Borelli mi telefonò gelandomi: “grande intervista, ma il Minculpop ha posto il veto. Mi dispiace, ma sono costretto a cestinare”».
«Raccontava questo episodio, Montanelli, fissandoti con quegli occhi», annota Brambilla. «E siccome sembrava impossibile che ti prendesse in giro, ti veniva il sospetto che, dopo tanti anni, di aver realizzato quell’intervista avesse finito per crederci pure lui».
Montanelli si giustificava tirando in ballo una citazione di André Prévot, personaggio su cui non si trova una sola riga né sulla Treccani né sull’Encyclopædia Britannica (dovrebbe trattarsi di un batteriologo francese deceduto nel 1982, stando all’Enciclopedia Larousse): «Le parole storiche sono quelle che i grandi personaggi hanno pronunciato dopo la loro morte». Poi, per autoassolversi, il Grande Vecchio celiava: «Ogni tanto, se mi viene un bell’aforisma, lo metto in conto a Montesquieu o La Rochefoucauld: non si sono mai lamentati».
Mario Cervi, che di Montanelli fu il più affezionato amico e collaboratore, non seppe mai indicarmi con precisione l’origine di un aneddoto irresistibile, con citazione incorporata, riguardante Palmiro Togliatti, ferito alla testa il 14 luglio 1948 dai colpi di pistola sparati dallo studente Antonio Pallante e prontamente operato dal grande chirurgo Pietro Valdoni, che salvò la vita al segretario del Pci. È narrato nel loro saggio L’Italia del Novecento (Rizzoli), alle pagine 350 e 351: «Il leader comunista completò il periodo di ripresa e di riposo sul lago d’Orta, prima nella villa Rothschild, poi in albergo. In settembre era pronto a nuovi cimenti politici. Si dice che Valdoni gli avesse fatto recapitare una parcella molto salata per le sue prestazioni. Quando la ricevette, Togliatti accompagnò il pagamento con queste parole: “Eccole il saldo, ma è denaro rubato”. Valdoni rispose: “Grazie per l’assegno. La provenienza non mi interessa”». Se non è vera, è inventata bene.
Nell’inverno del 1995, approdato a Milano come vicedirettore di Vittorio Feltri al Giornale, abitai per un paio di mesi nel residence Maria Theresia di via Bocchetto, non lontano dalla redazione di via Gaetano Negri, in attesa che l’editore mi mettesse a disposizione un appartamento. In quel periodo viveva lì anche Indro Montanelli, fino all’anno prima direttore del quotidiano che aveva fondato nel 1974. Qualche mattina, scendendo le scale, mi capitava d’incontrarlo. Ora, se io andassi in giro a raccontare che il Grande Vecchio un giorno mi apostrofò con questa frase: «Ognuno ha il direttore che si merita», offensiva sia per il suo successore sia per me, chi potrebbe smentirmi? Nessuno. Ripetuta di bocca in bocca, la battuta finirebbe di sicuro per diventare vera, nonostante Montanelli stimasse Feltri (la mattina che Il Giornale uscì con la firma del direttore bergamasco, 20 gennaio 1994, gli telefonò per fargli gli auguri e si congratulò per l’editoriale: «Mi è molto piaciuto. Mi spiace soltanto di non averlo scritto io»). Posso ben testimoniarlo, avendo partecipato nel 1996 a un loro cordialissimo incontro nel ristorante Santini, a quel tempo ubicato in corso Venezia.
Ecco, il principio delle citazioni prive di riscontri è esattamente questo: basta che siano congegnate a tavolino in modo da sembrare credibili e diventano vere.
Ho tentato invano di rintracciare Tommaso Debenedetti, che delle citazioni inventate è il pontefice massimo, tanto da riuscire a spacciarle per anni ai giornali sotto forma d’interviste. Per contattarlo, mi sono rivolto al padre Antonio, ultraottantenne, stimato scrittore, critico letterario e poeta che firma dal 1963 sul Corriere della Sera. Un uomo mite e di acuto ingegno. Ero quasi riuscito a convincerlo a mettermi in contatto con il figlio, ma poi devono essere prevalsi l’amore paterno e il decoro professionale, e non se n’è fatto nulla.
Debenedetti junior è nato nel 1969. Sposato, due figli, insegnava italiano e storia in una scuola pubblica di Roma. Non risulta iscritto all’Ordine dei giornalisti, né come professionista né come pubblicista. Non risultava iscritto neppure all’epoca dello scandalo internazionale di cui fu protagonista. E già questo sarebbe dovuto suonare sospetto ai direttori delle testate – L’Indipendente, Libero, Il Giorno, La Nazione, Il Resto del Carlino, Il Mattino, Il Piccolo – che pubblicavano i suoi articoli. Infatti è diventato famoso per essersi inventato di sana pianta decine d’interviste, che egli sosteneva di aver raccolto dalla viva voce di celebri scrittori, come Philip Roth, John Grisham, Nagib Mahfuz, Gore Vidal, Wilbur Smith, o personaggi del calibro di Michail Gorbaciov.
Fu smascherato proprio a seguito dell’immaginario colloquio con Roth, fatto passare, in una risposta, come uno degli intellettuali statunitensi delusi dal presidente Barack Obama. Accadde quando Paola Zanuttini, inviata del Venerdì di Repubblica, chiese conto all’autore del Lamento di Portnoy e di Pastorale americana dell’articolo di un free-lance, Tommaso Debenedetti appunto, pubblicato da Libero nel novembre 2009.
«Ma io non ho mai detto una cosa del genere. È grottesco. Scandaloso. È tutto il contrario di quello che penso. Considero Obama fantastico», insorse Roth, che, arrabbiatissimo, cominciò a fare ricerche sul Web, incappando così in un’intervista a Grisham pubblicata su Giorno, Nazione e Resto del Carlino e firmata dal medesimo cronista, anche questa critica nei confronti di Obama. Possibile? Roth telefonò a Grisham. «Più scioccato che arrabbiato», il maestro del legal thriller definì «un brutto pezzo di fiction» quelle dichiarazioni mai rilasciate e decise d’intentare causa.
Maciullato da un’inchiesta del New Yorker (la reporter Judith Thurman scoprì che s’era inventato interviste anche con Nadine Gordimer, Toni Morrison, Günter Grass, Herta Müller, Jean-Marie Gustave Le Clézio, José Saramago, Amos Oz, Abraham Yehoshua), l’8 maggio 2010 il falsario accettò di confessarsi con Malcom Pagani. Ecco alcuni brani del dialogo uscito sul Fatto Quotidiano: «Anche se avessi inventato tutto di sana pianta, dovrei comunque essere ritenuto qualcosa di diverso da un manigoldo. Un genio. Suona meglio. Non c’è stato in dieci anni di collaborazione un solo caporedattore che mi abbia chiesto non dico la verifica poliziesca, nastro alla mano, del colloquio ma semplicemente l’ubicazione dell’intervistato. E allora una domanda la faccio anche io. Perché per dieci anni fior di giornali hanno creduto che potessero avere da un collaboratore esterno, ogni settimana, un Nobel sulle loro pagine?»
Il mese successivo, il figlio di Antonio Debenedetti nonché nipote di Giacomo Debenedetti, uno dei più importanti critici letterari del xx secolo, cercò di uscire dall’angolo a modo suo, facendosi intervistare da Miguel Mora, dello spagnolo El País. È stato uno scherzo, organizzato «per dimostrare che in Italia fare informazione culturale seria è impossibile, perché è tutto falso», questa fu la tesi del reporter improvvisato.
Al quotidiano madrileno svelò d’averne combinate più di Carlo in Francia, venendo pagato in media 30 euro ad articolo. «Era appassionante. Passavo la mattina a fare il professore e il pomeriggio a parlare con gente come Arthur Miller, Roth, Gorbaciov o il Papa. Gli facevo raccontare la loro vita e i pezzi venivano sempre pubblicati: a volte con richiamo in prima pagina, e questo soddisfaceva la mia vanità». Fece dire a John Le Carré che, se fosse stato italiano, avrebbe votato per Silvio Berlusconi (il maestro delle storie di spionaggio s’infuriò e smentì sul Guardian). Si divertì ad affibbiare i nomi dei suoi gatti, Dada e Kiko, ai mici della scrittrice giapponese Banana Yoshimoto. Arrivò addirittura a «intervistare» Joseph Ratzinger poco prima del conclave da cui sarebbe uscito pontefice e L’Indipendente ripubblicò il falso scoop dopo che Benedetto xvi salì al soglio di Pietro.
Sul País il nostro si dichiarò orgoglioso delle sue imprese al punto da autoproclamarsi «il campione italiano della menzogna per aver inventato un genere nuovo di informazione». Non solo: annunciò che avrebbe replicato l’impostura su Internet («dove spero di poter pubblicare nuovi falsi»).
Fu di parola. Nel 2011 Debenedetti creò su Facebook finti profili di Mario Vargas Llosa, Umberto Eco, Abraham Yehoshua e Almudena Grandes, «per dimostrare la vulnerabilità del social network».
Non potendo propinare ai giornali altre interviste, il Fregoli del giornalismo si buttò sulle mail. Il 6 aprile 2011 si finse Umberto Eco per criticare la guerra in Libia nella pagina delle lettere dell’Herald Tribune, versione internazionale del New York Times, che dieci giorni dopo fu costretto a chiedere scusa con un’imbarazzata rettifica: «Questa missiva era una bufala e non avrebbe dovuto essere pubblicata. Ci impegniamo a verificare l’autenticità di ogni lettera che pubblichiamo. In questo caso, tuttavia, non siamo riusciti a contattare Mr. Eco per la conferma. Abbiamo espresso il nostro rammarico con lui e ci scusiamo con i nostri lettori».
Poi Debenedetti si travestì da Paco Ignacio Taibo ii, lo scrittore marxista ispano-messicano, per lodare papa Benedetto xvi sull’Avvenire. La testimonianza fasulla fu sparata in prima pagina. L’indomani il foglio dei vescovi dovette smentirla con un contrito corsivo collocato nella medesima posizione, firmato dal direttore Marco Tarquinio.
Debenedetti prese a impazzare anche su Twitter. Il primo a farne le spese fu il giallista svedese Henning Mankell, costretto a sconfessare le frasi spacciate come sue su un account farlocco.
Dopo un periodo di quiete, nell’agosto 2018 il bufalaro tornò ad abbindolare la stampa mondiale. Dal solito account Twitter fittizio, intestato a Myrsini Zorba, ministra greca della Cultura, annunciò la morte del regista Costa-Gavras, avvenuta a Parigi. Il «defunto» fu costretto a smentire in tv la notizia diffusa dall’Associated press e da vari media internazionali.
A marzo 2019 il padre, Antonio Debenedetti, ha confidato le sue pene di genitore ad Antonio Gnoli, l’intervistatore principe della Repubblica, attribuendo le disavventure del figlio a «una forma di dissipazione intellettuale, una provocazione nata da una psicologia complicata». «Come hai vissuto quella storia?», gli ha chiesto Gnoli. «Ne ho sofferto, soprattutto per lui. Dopo l’accaduto lo pregai di andare da Mario Trevi, uno psicologo junghiano. Ma si rifiutò. Poi è scomparso. Oggi vive in Israele, con sua moglie e due figli in una sorta di esilio volontario. È stato male e si sta curando. Non lo vedo da cinque anni. Ogni tanto mi scrive delle mail parlandomi di Pasqualina, la mia prima moglie cui era molto legato. Come spesso accade ai ribelli, e lui lo è, sta facendo i conti con quello cui ha rinunciato. Non lo perdono ma lo ammiro. In quella dissipazione e nel fatto che ne sta pagando le conseguenze, c’è la mia ammirazione. Ma chi sono io per perdonare?»
Per quanto paradossale e romanzesca possa sembrare la vicenda, situazioni come quelle che hanno travolto Tommaso Debenedetti e i giornali che gli diedero credito sono tutt’altro che infrequenti. Ne racconto qui di seguito una esemplare, della quale fui testimone nel 2002.
La Padania pubblica un editoriale di Ibrahim Rugova, presidente del Kosovo. Il leader politico nega d’averlo mai scritto.
L’agenzia Ansa riceve un fax, intestato «Presidenza Lega democratica del Kosovo – Consiglio di amministrazione», contenente dichiarazioni attribuite a Rugova, nelle quali si stabilisce un nesso tra l’Uck, l’Esercito di liberazione del Kosovo, e Osama Bin Laden. Sul fax viene citato come contatto un fantomatico «Ufficio stampa del presidente Rugova – Delegati per l’Italia» e appare un numero di telefono che corrisponde al cellulare di Gino Zannoni, residente a Grottammare, località di villeggiatura sul mar Adriatico, in provincia di Ascoli Piceno.
L’agenzia Qik emette un comunicato in cui nega che Rugova abbia mai avuto una rappresentanza politica in Italia.
La Padania a questo punto pubblica un secondo editoriale di Rugova, intitolato «Arsenali dell’Uck, un serbatoio per altri attentati di Bin Laden» e preceduto da un distico in cui si afferma che l’autore «esprime il suo “totale sdegno per la falsa smentita” delle sue dichiarazioni “riportata dall’agenzia Ansa”». Lo stesso giorno sul Piccolo compare un’intervista a Rugova firmata dal giornalista Mauro Manzin, in cui l’uomo politico conferma la presenza in Kosovo di migliaia di mujaheddin seguaci di Bin Laden.
La Repubblica esce con la notizia che Rugova è ricoverato in clinica a Parigi dopo un collasso che lo ha colto nel corso di uno sciopero della fame contro il terrorismo.
Ma era accaduto davvero tutto questo? O era accaduto solo in parte? O non era accaduto per niente? Per saperlo, bisognava porsi un’altra domanda, quella definitiva, che riassume tutte le altre, la stessa che Pilato rivolse a Gesù nel pretorio: «Che cos’è la verità?»
Gino e Pietro Zannoni da Grottammare, il fenomenale duo al centro dell’affaire Rugova (e di molti altri casi), sembravano invece saperlo benissimo, che cosa fosse la verità: «Una forma d’arte». Poi guardavi al settimo piano di via Crucioli, proprio in fronte all’Adriatico, dove aveva sede il loro domestico atelier, e scorgevi sul balcone un’insegna luminosa al neon: «Telegrafi shqiptar», schipetari, cioè albanesi. Che significava? «Un’opera d’arte».
Gino e Pietro Zannoni, a quel tempo 63 e 30 anni, padre e figlio, primario di psichiatria in pensione il primo e operaio il secondo, non usavano tele e pennelli. Gli bastava la carta di giornale. In alternativa, s’accontentavano dell’etere. Infatti era capitato che una delle loro bufale – la morte di Ratko Mladič, il «boia di Srebrenica» – venisse riportata dal Tg1 nell’edizione di maggior ascolto. «Ma noi non siamo bufalari», si offesero. Già, loro erano artisti. E qualche volta, in un impeto di creatività, gli scappava d’inventare le notizie. E di spedire fax fasulli. E di spacciarsi per cronisti albanesi o bulgari.
Mi accolsero gongolanti: «Ci siamo fatti l’Ansa dentro casa e lei è il primo, fra tutti i suoi colleghi, che ha avuto il puntiglio di venirla a vedere. Questo dimostra tante cose». Per esempio che i giornalisti tendono a non verificare le notizie. Era lì, in quel buco nero, che s’infilava svelto il duo Zannoni, spacciando panzane fradicie e notizie verosimili, «perché la verosimiglianza è già la verità», e la verità è un’opera d’arte, né più né meno dei quadri e dei mobili settecenteschi della casa dove si svolse il nostro incontro. Al termine del quale non sapevo più chi fossi. Ma in compenso una verità l’avevo trovata ed era questa: oggidì chiunque può penetrare nel Tempio dell’Informazione con una pistola ad acqua e compiervi una strage.
Si erano attrezzati con telefono, fax e tre computer. Avevano stabilito un contatto con un’agenzia, che non vollero nominare. Le notizie battute da loro finivano direttamente nella rete dei giornali abbonati a questa agenzia.
Il figlio specificò: «Le prime volte telefonavo ai giornali o alle agenzie qualificandomi come giornalista free-lance e offrendo una notizia. E quelli me la prendevano. I giornalisti sono in buona fede, poveracci. È il regime che li condiziona. Fare uno scoop prescindendo dalle fonti ufficiali per loro è un esercizio impossibile».
A Natale del 1996 gli Zannoni erano arrivati a beffare persino il Papa. «Sapevamo che Madre Teresa di Calcutta versava in cattive condizioni di salute. Così producemmo per Tirana News un messaggio natalizio che s’intonava perfettamente alla sua grande figura, ricco di belle parole: pace, amore, fratellanza. Giuseppe De Carli, vaticanista del Tg1, ne diede lettura durante la diretta da piazza San Pietro per la benedizione Urbi et orbi. Non si lamentò neppure Madre Teresa. Figurarsi se poteva dispiacersi Giovanni Paolo ii».
Purtroppo la situazione è completamente sfuggita di mano agli amanuensi dal giorno in cui Bill Gates e Steve Jobs hanno messo a disposizione di una sterminata platea la più micidiale delle armi di distrazione di massa: il copia e incolla, cioè la funzione in assoluto più utilizzata da chi svolge il mio mestiere sulla tastiera di un computer.
Si stenta a crederlo, ma vi fu un tempo, nemmeno tanto remoto, in cui esisteva solo la carta. Poi arrivò l’era del Pdf, portable document format, un tipo di file sviluppato da Adobe a partire dal 1993, che ci mostra testi e immagini come se fossero stampati. «Ti spedisco un Pdf per mail», ci capita di ripetere più volte al giorno. È come se fosse sempre esistito.
Prima del 2000 i giornali e i libri non si producevano in Pdf, perché le edicole digitali e i lettori per ebook erano di là da venire. Oltre alle raccolte cartacee rilegate, le testate più ricche potevano permettersi, a fine anno, un microfilm delle pagine, per uso interno.
«Attore con guardaroba», c’era scritto sul biglietto da visita di Cesco Baseggio. Significava che l’indimenticabile interprete goldoniano era in grado di calarsi in qualsiasi personaggio teatrale senza bisogno del sarto. La stessa cosa si sarebbe potuta dire in passato per i giornalisti con archivio. Quelli previdenti se lo costruivano giorno dopo giorno. Si alzavano fra le 5 e le 6 del mattino e cominciavano a ritagliare dai quotidiani gli articoli di loro interesse, riponendoli in cartelline e raccoglitori suddivisi per argomento. «Ero da pochi mesi praticante alla Stampa quando il direttore Giulio De Benedetti mi spedì a Roma per conoscere Vittorio Gorresio», mi ha raccontato Giampaolo Pansa. «Il principe dei notisti politici mi disse: “Devi farti un archivio. Quando sarai vecchio, avrai scoperto da tempo che copiare dagli altri è infame, ma che rubare in casa propria è molto comodo”».
L’archeologo della cellulosa che ha battuto tutti è senz’altro Filippo Ceccarelli, firma della Repubblica, tanto che nel 2015 ha donato alla Camera il suo archivio, fatto di 1.483 dossier racchiusi in 334 faldoni. Abbraccia un arco di tempo che va dalla metà degli anni Settanta al 31 dicembre 2014 e che è stato via via rimpinguato dai lasciti di alcuni amici, fra cui Barbara Palombelli, Stefano Brusadelli e Pino Buongiorno.
Nel mio piccolo, posso dire d’aver contribuito con una donazione involontaria alla fama di un collega. Più di vent’anni fa mi chiese di spedirgli l’intera raccolta di ritagli che avevo messo insieme sugli imprenditori del Nordest. Era alta una spanna e ne ricavò un best seller. Mai restituita.
Nell’era di Google, gli articoli su carta restano i più preziosi, perché contengono informazioni alle quali in pochissimi hanno accesso. Ingialliscono, ma non invecchiano mai, a parte quelli tratti dal Corriere della Sera e dalla Stampa, due testate che li hanno resi inutili mettendo online tutte le loro edizioni fin dalla fondazione.
Oggi impera Wikipedia. In passato era materialmente impossibile fare il mio mestiere se non disponevi di una biblioteca e di ritagli stampa. Il resto dipendeva dalla fantasia individuale.
Lo capirono gli inviati speciali Mino Monicelli e Alfredo Todisco quel giorno dell’agosto 1954 quando furono spediti dai loro giornali a Borgo Valsugana, dov’era morto Alcide De Gasperi. Li raggiunse trafelato un cronista del Gazzettino, camicia bianca e farfallino, che commentò: «Tutto tranquillo, tutto regolare. Nessun dramma. Me par che l’unica cosa xé de focalisar el servizio su la salma». Di fronte al loro stupore, precisò: «Ero alla Mostra del cinema di Venezia. I me ga catapultà qua par el funeral. El giornalismo xé le montagne russe de l’inteleto».
Per tornare alle cose serie, bisogna essere stati ammessi almeno una volta nella vita nei caveau blindati dell’Archivio segreto vaticano per apprezzare quale valore assuma un pezzo di carta nella storia dell’umanità. Che emozione quando l’allora segretario generale Luca Carboni mi mostrò il documento in assoluto più antico di quello sterminato giacimento: una pergamena datata 13 maggio dell’807 dopo Cristo, attestante una donazione fatta dal vescovo della mia città, Ratoldo, e dal conte Hucpaldo alla chiesa di San Pietro in Castello, dove quasi quattro secoli dopo avrebbe celebrato messa papa Urbano III, che per 21 dei 22 mesi del suo breve pontificato mantenne la residenza a Verona.
Si è colti dalla sindrome di Stendhal, là sotto, mentre ci si aggira fra 85 chilometri lineari di scaffalature sulle quali sono allineati 1.200 anni di storia, dalle bolle di condanna e scomunica di Martin Lutero agli intrallazzi di Enrico VIII per ripudiare la moglie Caterina d’Aragona e convolare a nuove nozze con Anna Bolena, che costarono la testa al cancelliere Thomas More e sfociarono nello scisma anglicano; dagli incartamenti del processo contro Galileo Galilei alla lettera con cui Michelangelo Buonarroti, estromesso dalla Fabbrica di San Pietro a seguito della morte del suo mecenate Paolo iii, informa l’amico vescovo di Cesena che «decta fabrica» è da «circa tre mesi senza provigione nessuna» e lo prega: «Per amor di santo Pietro mi consigli quello che ò a fare»; fino alla missiva autografa di suor Bernadette Soubirous a Pio IX, che trascrive le parole pronunciate dalla Madonna nella sedicesima apparizione di Lourdes: «Je suis l’Immaculée Conception».
Oggidì neppure ai minutanti in servizio presso la segreteria di Stato vaticana verrebbe mai in mente di attingere all’Archivio segreto di Sua Santità. Molto più comodo fare surf online, evidenziare, tasto destro del mouse, copia, oppure Ctrl+C, e incolla. È così che si propaga l’errore. È così che persino a quel sant’uomo di Benedetto XVI, che ha consumato l’intera vita sui libri, sono riusciti a far pronunciare svarioni da quarta ginnasio (vedere alla voce «Ubi amor ibi oculus»).
Sarebbe meglio affidarsi a suor Caterina Cangià. Un computer dal volto umano. Al posto del processore ha l’anima. Salesiana, è nata ad Alessandria d’Egitto. Ha vissuto in 13 Paesi. Parla e scrive correntemente in cinque lingue: si esprime in italiano, pensa in francese, scrive in inglese, traduce in spagnolo e ricorda in arabo, perché le è rimasto nel cuore il Libano, dove ha insegnato dal 1969 al 1981.
La incontrai a Roma, al Nuovo Salario, in un seminterrato chiamato La Bottega d’Europa, frequentato da ragazzini, programmatori di computer, artisti. Sulla porta del suo ufficio, qualcuno aveva incollato la scritta «Brain», cervello. Dentro, soltanto luce artificiale, come l’intelligenza.
La rete televisiva Cnn l’ha ribattezzata Sister Net. L’hanno chiamata anche Suor Informatica, Sorella Rete, Sorella Computer, Missionaria del pc. Mi disse: «Bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi. Internet è un sottobosco di roba morta e foglie secche. Un po’ di alfabetizzazione ci vuole».
Molto tempo dopo, nel dicembre 2018, ho riletto questa stessa preoccupazione nell’appello, apparso sul Corriere della Sera, lanciato da Nuccio Ordine, letterato e docente universitario che ha insegnato a Yale e alla Sorbona: «Perché acquistare libri quando nel Web, gratuitamente, c’è tutto ciò di cui abbiamo bisogno? Non è facile rispondere a questa domanda. Proviamo, però, a immaginare un giovane allievo che voglia studiare in Rete Giordano Bruno (ma l’esempio potrebbe valere per qualsiasi altro autore): come farà a distinguere le decine di siti in cui abbondano le sciocchezze (talvolta demenziali) da quelli che, al contrario, contengono informazioni corrette? La navigazione sicura richiederebbe una certificazione di affidabilità che, oggi, solo portali come quello della Treccani o di altri istituti dello stesso tenore possono fornire. La cosa migliore, per chi vuole imparare, è sempre quella di ricorrere a un buon libro (ne esistono anche di pessimi, ma il filtro scientifico di una seria casa editrice è comunque una garanzia)». Appello che si concludeva con una constatazione drammatica: «Dalla letteratura alla scienza (come testimonia il tanto discusso caso dei vaccini!), insomma, il Web è pieno di sciocchezze e false attribuzioni che, in alcuni casi, possono rivelarsi pericolose per il futuro della cultura e della democrazia. Internet è una miniera d’oro per chi sa, non per chi non sa!»
Quando ancora non esisteva la Rete, anche per Thomas Mann la cultura non consisteva nel sapere tutto bensì nel sapere dove e come cercare ciò che non si sapeva o non si ricordava.
Dovremmo diffidare, tutti, delle cose dette e ripetute. Proprio il fatto che siano largamente diffuse è il primo campanello d’allarme per indurci a evitare di propalarle e a controllarne l’origine.
Pino Aprile, l’autore del best seller Terroni, ha pubblicato qualche anno fa un libro intitolato Elogio dell’errore, in cui dimostra che l’intera creazione è frutto di un equivoco. Tre esempi. Cristoforo Colombo credeva di essere sbarcato nelle Indie e invece era approdato in America. Louis Pasteur nel 1879, lasciando aperte per sbaglio tre provette, trovò la cura per il colera dei polli, premessa ai futuri vaccini. Alexander Fleming nel 1929 si accorse che dove cresceva la muffa non attecchivano i batteri, fenomeno a onor del vero già descritto nel 1896 dal medico molisano Vincenzo Tiberio, che aveva notato gli effetti di questa proliferazione in un pozzo vicino alla sua casa di Arzano, descrivendoli in uno studio pubblicato dall’Università di Napoli: fu scoperta così la penicillina, il primo antibiotico.
Tuttavia, c’è poco da fare: all’origine di ogni errore, di ogni abbaglio, di ogni notizia taroccata, di ogni citazione sbagliata c’è quasi sempre la trasandatezza di chi sarebbe pagato per compiere le necessarie verifiche.
Lo scrittore inglese Tim Parks, che ha abitato per lungo tempo a 4 chilometri in linea d’aria da casa mia, sostiene, dall’alto della sua esperienza di traduttore in inglese delle opere di Giacomo Leopardi, Alberto Moravia e Cesare Pavese, che pure nell’editoria libraria quasi tutti gli equivoci sono imputabili alla sciatteria di chi per mestiere dovrebbe padroneggiare l’italiano. Con esiti tragicomici quando si passa alla versione in lingua straniera: «In una recente edizione inglese del Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani, peraltro pubblicata da un editore serissimo, appare un “sedicente profugo” che in inglese diventa “un profugo di sedici anni”. E di un altro personaggio, ebreo, che “a convertirsi non ci pensava affatto”, si dice che “si era convertito senza pensarci”». Di stravolgimenti simili, assicura Parks, «ce ne sono a dozzine».
Le citazioni sbagliate hanno contribuito in misura considerevole al degrado della scrittura giornalistica, anche perché esse rappresentano l’eccipiente più usato nella fabbrica del pensiero, un esaltatore di sapidità simile al glutammato di sodio, un servo di cucina indispensabile quanto il prezzemolo, un ingrediente paragonabile agli «aromi naturali» (qualcuno sa come si ottengano?) dell’industria alimentare. «Odio le citazioni, dimmi quello che sai», esortava già nell’Ottocento – giusto per restare in argomento – il filosofo, saggista e poeta Ralph Waldo Emerson, che contò molto nella cultura dell’America. Non poteva sapere che dopo un secolo e mezzo avrebbe trovato un erede in Franco Califano.
Il Califfo non sapeva chi fossero Henri Bergson («Un francese?») e John Locke («Mi considero più un pensatore che un grande lettore»), eppure la New York University gli aveva conferito la laurea ad honorem in filosofia. «La cosa è partita dalla mia canzone Tutto il resto è noia», si giustificò. «Saggezza tanta, cultura zero. La mia è la filosofia del pratico, me la so’ fatta vivendo. Non come tanti filosofi del cazzo che ostentano la loro cultura fatta di citazioni. Come disse Schopenhauer, come disse Goethe... No, tu me devi di’ come dici tu!»
In tema di citazioni, sbagliare in proprio è perdonabile, ma sbagliare per conto terzi è delittuoso.
In Italia abbiamo certificazioni di qualità per qualsiasi prodotto commestibile: la Dop (denominazione di origine protetta), la Doc (denominazione di origine controllata), la Docg (denominazione di origine controllata e garantita). Ma per le parole, che sono il nutrimento dello spirito, ci manca una Docg di categoria superiore: la dichiarazione di origine citazione garantita.
Per questo mi sono accinto a compilare il presente vademecum, incompleto ma spero divertente. Adesso posso solo sperare che il pubblico ministero Paolo Mieli non mi recapiti troppi avvisi di garanzia. E a te, caro lettore, chiedo anticipatamente scusa. Correggimi, se puoi, e ne avrai in cambio la mia imperitura gratitudine.