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 2019  luglio 24 Mercoledì calendario

Intervista a Antonio Latella

Antonio Latella è nato a Castellammare di Stabia (Campania).
Il rischio, quando si parla di teatro con un direttore artistico, è cadere nella complessità inutile o nella geremiade arcinota. Non è il caso del regista Antonio Latella, classe 1967, gigante della scena internazionale che quando infrange regole o pretende attenzione lo fa con la costanza della goccia che scava la roccia: costruisce programmi solidi che guidano al teatro senza retorica o «claustrofilia». D’altra parte ha condiviso il suo avvenire dietro le spalle con i più grandi nomi del Novecento teatrale, da Vittorio Gassman a Ronconi, Castri e Patroni Griffi: sarà per questo che da tre anni dirige la Biennale Teatro di Venezia con ottimi risultati e non se la tira neanche un po’.
Di che parla la Biennale Teatro quest’anno?
«Di drammaturgie. Al plurale perché nel XXI secolo le drammaturgie coprono ormai diverse modalità di racconto, non si tratta più solo di scrivere per il teatro. Il drammaturgo sceglie attori, autori, sinergie tra regista attori e autore: quindi crea la linea della casa, sceglie il tema. Il primo anno è stato dedicato alla regia, il secondo all’attore/performer, ora si chiude il ciclo. In questi tre anni per la Biennale mi sono comportato da studioso: ho cercato di condividere il mio percorso sullo stato del teatro con gli spettatori, per aprire una discussione».
Sembra una gran fatica.
«Il teatro è pur sempre intrattenimento: quel che possiamo aggiungere qui è dare a chi viene non solo spettacolarizzazione, ma domande e confronto».
Che tipo di pubblico viene a vedere un Festival?
«Un pubblico trasversale, che magari non va durante l’anno alle stagioni teatrali, ma sceglie un festival perché è potente, diverso: il movimento quindi è incredibile».
E che cosa vedranno di imperdibile in questa edizione?
«Un bel gruppo di italiani, in particolare i registi sotto i trenta, che non solo scegliamo con Biennale College, ma che produciamo e a cui facciamo tutoraggio e lancio, quindi regalandogli anni di gavetta. Così all’estero finalmente si accorgono che stiamo tirando fuori dei giovanissimi. Poi segnalo Pino Carbone, napoletano che ha un lavoro ventennale alle spalle ed è un vero artigiano del teatro. Poi Alessandro Serra: lo seguo da prima che diventasse il caso teatrale. Lo considero – uso una parola pericolosa un fondamentalista del teatro: controlla tutto quello che fa. Per anni ha fatto spettacoli senza parole, perché il silenzio è il culmine del processo creativo. Quando ha iniziato a parlare se ne sono accorti tutti: non so se questo sia un pregio rispetto alla critica italiana, perché fino a quando faceva spettacoli in silenzio nessuno lo considerava».
E poi Lucia Calamaro, ormai ovunque.
«Non posso far finta che non sia in questo momento la regista e autrice italiana più seguita e molto amata in Francia. Con il suo mondo, che scardina le nevrosi umane, sta creando una differenza a livello di scrittura scenica. Infine segnalo Susie Dee, regista australiana che viene in Europa per la prima volta, e Patricia Cornelius: uno dei sodalizi più importanti del teatro in lingua inglese. Una Biennale di contenuto, insomma: che però non vuol dire noia, la prima cosa che uno di solito associa al contenuto».
Lei parla spesso di giovani: come portarli verso il teatro, da fare o da vedere?
«Il problema è soprattutto del teatro istituzionale, che spesso vive per occuparsi di creare abbonamenti. I giovani ormai ragionano con pochissime parole, spesso primitive, in una dialettica diminuita, ridotta alle immagini mandate su Whatsapp, in un racconto immediato ora e adesso, in cui non importa ieri, non importa domani. Vanno velocissimi: quando parli con loro devi fargli recuperare un rapporto col tempo. Eppure, nonostante lo schifo che c’è in giro, ci sono giovani che vengono a teatro e che vogliono fare teatro: disposti a chiudersi in una stanza buia, sedersi attorno a un tavolo e mettersi in bocca parole che non sono le loro ma che hanno accompagnato secoli, e capire come dirle. Questo tipo di giovane è il nuovo eroe: mi commuove».
Insomma, il teatro resiste?
«Da uomo di teatro penso che il teatro sia imbattibile. È un supermercato: in quello vero ci vai per prosciutto e carta igienica, qui per nutrire la tua anima. È un rito nel Dna dell’uomo, una delle forme di spettacolo vivo che non morirà mai. Ed è un buon momento per il teatro, sì».
Che cosa manca al teatro italiano?
«I direttori artistici bravi. Qual è il loro compito? Non può essere solo la programmazione e basta: bisogna mettersi in discussione, creare la lingua che parla al pubblico. Invece siamo ancora a un teatro fatto sugli scambi: io ti do questo, tu mi dai quell’altro. E poi in Italia il teatro resta comunque il fanalino di coda, rispetto a Paesi dove si fanno investimenti enormi. Tutta la Mitteleuropa, Germania, Olanda e anche Belgio e Francia, finisce col dettare le regole, perché lì la cultura è un’industria e produce lavoro. È difficile essere competitivi con Paesi dove si investono tanti soldi».
Sente ancora l’urgenza di andare in scena con il suo teatro?
«La cosa che più mi sta a cuore è capire se ha ancora senso per me, andare in scena. È una domanda che dovrebbe accompagnare sempre tutti noi: molti miei colleghi hanno paura di pensarci, ma se non hai più la forza meglio non aprirlo, il sipario, piuttosto che dire che il teatro è morto».