il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2019
Gli sputi veneziani alla Salomè di Carmelo Bene
Dire di Carmelo Bene, di quel che lo riguarda, e dunque dello scibile, è ostico. Per un giornalista, di più: “I giornalisti sono impermeabili a tutto. Arrivano sul cadavere caldo, sulla partita, a teatro, sul villaggio terremotato, e hanno già il pezzo incorporato. Il mondo frana sotto i loro piedi, s’inabissa davanti ai loro taccuini, e tutto quanto per loro è intercambiabile letame da tradurre in un preconfezionato compulsare di cavolate sulla tastiera. Cinici? No, frigidi”.
Diremo, comunque, del suo penultimo lungometraggio di finzione, Salomè, presentato nel 1972 alla trentatreesima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Annata superba, zeppa di grandi nomi: Charlie Chaplin e Billy Wilder Leoni d’Oro alla carriera; Stanley Kubrick, Nagisa Oshima, Rainer Werner Fassbinder, Jean-Luc Godard, Marguerite Duras, tra gli altri, in selezione. E grandi scandali: dopo l’uscita negli Stati Uniti e nel Regno Unito, Arancia meccanica approda al Lido, perpetuando polemiche e strali per l’iper-violenza, anche a sfondo sessuale, di Alex (Malcom McDowell) e i suoi Drughi. Bene non è da meno, ed è pure recidivo: l’eco di Nostra Signora dei Turchi, premio speciale della giuria alla ventinovesima Mostra, quella del ’68 diretta da Luigi Chiarini e vastamente contestata, non s’era ancora dissipata. In quel suo primo film, il carnefice si convertiva con dispendio di clownerie: il martirio, di un cristiano di Otranto, poteva attendere, lo scandalo no. Bene è l’uomo ovunque, il suo “benaltrismo”, quello vero, impazza fuori dal Palazzo del Cinema: offre cene nel proverbiale miglior ristorante e fa il vento; schiaffeggia critici stroncatori (Carlo Mazzarella) all’Hotel Excelsior; deride studenti; difende Gabriele D’Annunzio nel confronto con Pier Paolo Pasolini; beve, beve ancora, s’ubriaca; si rifiuta di interloquire con i giornalisti italiani; preferirebbe un altro premio, quello munifico alla “qualità”: il suo, non bastasse, lo fa cadere. Il pubblico s’incazza, Bene si bea del caos e contesta i contestatori: “La contestazione io la faccio dalla culla. Qui ci vorrebbe una barbarie, fortune che non capitano più”. L’esperienza/esperimento di Nostra Signora dei Turchi, insomma, è ancora oscenamente dispotico quando Bene – nel frattempo in Mostra con Don Giovanni nel ’70 – riapproda in Laguna con Salomè e, dalla sua opera teatrale già ispirata a Oscar Wilde, fotografa “l’impossibilità del martirio in un mondo presente, non più barbaro, ma esclusivamente stupido”. Che è esattamente quel che Venezia ha in serbo per lui.
Bene firma soggetto, sceneggiatura, regia, coordinamento musicale, produce e interpreta, al fianco di Lydia Mancinelli, Alfiero Vincenti, Donyale Luna, Veruschka, Piero Vida. Salomè, dice, è “una specie di Salambô multirazziale, tecnologicamente avanti di almeno trent’anni. La scommessa del colore. Della luce. Salomè non colora più gli oggetti, li illumina. Anticipai di vent’anni la tecnica dei videoclip”.
Ha ragione, non millanta, però fa la ruota: “Ho sufficiente autocritica per riconoscere al mio cinema l’importanza che merita, universalmente riconosciuta come la più indiscussa rivoluzione copernicana del Novecento cinematografico e teatrale”. Il suo quarto lungometraggio nutrirà di lì a breve immagini e immaginario di Mtv e strappandoci la pelle/pellicola di dosso – il corpo lo offre Erode nel finale – istruirà il contemporaneo homo videns. Ma c’è chi non capisce, anzi, eccepisce. Di fronte a quella tabula rasa solarizzata, ornata di rose fluorescenti, luci sibilline e pop art diffusa – con la collaborazione dello scenografo Gino Marotta Bene s’era servito dello scotch-light a uso rifrangente e consumo straniante – lo spettatore autoctono elude l’opera e punta il genio dietro la macchina da presa: “Ma chi xeo quel mona?”. Nel 1998 il Nostro scrisse, a quattro mani con Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, senza trascurare l’excursus cinematografico, e quindi l’indignazione deflagrata in Mostra per Salomè: “Alla prima al Palazzo del Cinema, stipato da più di tremila bestiacce, accadde l’inverosimile. I veneziani in frac mi sputavano addosso, li benedicevo e loro s’incazzavano ancora di più. Evitai il linciaggio grazie alla barriera umana dei celerini, per una volta dalla mia parte”. Il martirio poteva attendere, non la santificazione di Carmelo: il Cristo vampiro, la Salomè nera Donyale Luna, tutto era destinato a sublimarsi nel Bene comune. Gli sputi sopra sono per lui, ancora oggi.