Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2019
L’eredità di Marchionne
A un anno dalla morte di Sergio Marchionne (Chieti 1952, Zurigo 2018), la sua eredità è costituita da tre elementi: la visione macroeconomica sulle tendenze dell’industria dell’auto, l’evoluzione dell’impresa fu Fiat poi rinominata Fca e la cultura nel senso di una idea di mondo.
Sulla visione, le cose non sono andate come lui aveva previsto. L’industria internazionale dell’auto sta sperimentando una riconfigurazione che il manager italo-canadese non aveva previsto.
Osservando l’arcipelago dell’industria del Novecento, dal vascello piccolo e senza particolari vele spiegate e senza troppi cannoni armati costruito nel cantiere della fusione fra la goletta chiamata Fiat e l’antico relitto di nome Chrysler, Marchionne aveva preventivato una serie di operazioni straordinarie che potessero alleviare la intensità della concorrenza riducendo il consumo di capitale ed evitando la duplicazione degli investimenti, con tutte le imprese del settore impegnate a sostenere – nell’innovazione, ma anche nei cicli produttivi – spese ingenti per fare tutte le stesse cose con l’unica garanzia di farsi finanziariamente molto male.
In sostanza, aveva puntato su un mutamento strutturale del sottostante strategico e azionario, patrimoniale e finanziario che permettesse alla intelaiatura classica dell’automotive industry di evitare che il valore aggiunto venisse tutto assorbito in parte minore dai componentisti e in parte maggiore dai fornitori di servizi tecnologici e finanziari, nella metamorfosi del fruitore dell’auto che da homo mechanicus si è ormai trasformato in homo digitalis e che da proprietario di un automezzo è diventato un suo temporaneo utilizzatore. In realtà, questo processo di fusione e di aggregazione non è avvenuto. Si è, piuttosto, assistito ad una riperimetrazione delle imprese: no alla finanza straordinaria sull’equity, sì alla focalizzazione sul core-business, sì alla compressione dei costi (il taglio dei posti di lavoro in Germania e in Michigan, Volkswagen e General Motors insegnano), sì all’assorbimento di parti del processo produttivo e ideativo del fare auto che prima erano state portate fuori e cedute ad altri. Quasi una forma di ritorno alla matrice novecentesca, con una alterazione rispetto a quella antica norma: le partnership, alcune estremamente intense. Partnership che non sono soltanto verticali – quelle con il Big Tech (in particolare sulla guida autonoma) – ma che sono soprattutto orizzontali, fra grandi gruppi che appunto rimangono separati e distinti. Per esempio, quella fra Ford e Volkswagen, che condividono tecnologie e capacità produttive, nel tentativo di affinare le prime e di adoperare il più possibile le seconde.
Sull’impresa, le cose sono andate come lui aveva previsto. I quattordici anni di Sergio Marchionne sono stati segnati dalla costruzione di un pensiero sulla realtà della Fiat prima, della Chrysler poi e infine della Fca che doveva, appunto, fare collimare un pensiero e una realtà che a lungo sono sembrati elementi disomogenei e inconciliabili: troppo debole la Fiat per la distruzione della sua fisiologia industriale e tecnologica operata fin dall’allontanamento nel 1988 di Vittorio Ghidella, quasi faustiano il progetto di fare rinascere la più piccola delle Big Three di Detroit dalle sue ceneri.
È vero che l’attuale Fca appare segnata da una disomogeneità interna al limite della disarticolazione, con una geografia economica caratterizzata da dinamiche industriali, commerciali e finanziarie differenti: l’Europa malridotta, il Sud America zoppicante e un Nord America che ha corso tantissimo e che adesso inizia a sembrare un poco in affanno. Quasi tre imprese distinte.
Ma è altrettanto vero che, senza l’arte combinatoria del demiurgo Marchionne, tutto questo non sarebbe successo. Anche se, naturalmente, l’impresa fondata da Marchionne – perché Marchionne non è stato un manager, Marchionne è stato un imprenditore – ha scontato una storica debolezza finanziaria (“siamo nati da due aziende povere”) e un ritardo tecnologico strutturale (la diffidenza, finanziaria e non tecnologica, verso l’elettrico) che si sarebbero risolti se nella estate del 2015 – a proposito di incompiutezza della visione macro – Fca si fosse aggregata e diluita, fusa ed emulsionata nella General Motors più grande, più capitalizzata e più tecnologica.
Sulla cultura – nel senso di una idea di mondo – le cose sono infine andate come lui aveva previsto. O, meglio, il mondo che lui rappresentava e incarnava ha fatto irruzione, tramite lui, nel nostro Paese: una irruzione non accettata né metabolizzata, tanto che sulla sua figura è caduto l’oblio. Il mondo che lui rappresentava era sostanzialmente un capitalismo tecnocratico e globalizzato di matrice nordamericana, che adoperava come metro di misura la realtà dritta delle cose sintetizzata nei bilanci e nei corsi dei mercati azionari e non la sua percezione e la sua rielaborazione interpretativa delle “élite” fra Roma, Milano e Torino, la misurazione secca dei risultati e non la loro trascoloritura nel bicchiere di acqua delle ritualità e delle intermediazioni che hanno segnato il modello articolato e complesso dell’Italia del Novecento. Anche il dialogo a distanza con il populismo che unisce Wall Street e Main Street del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nell’ultimo periodo di vita di Sergio Marchionne manager e imprenditore, ha rappresentato bene la sua capacità di adattarsi non ambiguamente al corso delle cose e di prendere frammenti in apparenza non ricomponibili della realtà facendone qualcosa di nuovo, quasi di logico anche nella sua contraddizione, senz’altro di vivo.