il Giornale, 24 luglio 2019
Intervista a Enrico Mentana
«I ricordi sono fragilissimi, delicatissimi: vanno custoditi gelosamente, come le tombe dei faraoni perché se gli fai prendere luce si sbriciolano». Non è un monaco tibetano a seguire questa filosofia di vita, ma uno degli uomini più pubblici del Paese, Enrico Mentana, tutte le sere in video alle otto a spiegare la politica e la cronaca agli spettatori de La7, e da (almeno) trent’anni incarnazione del grande giornalismo televisivo italiano. Entrare nell’intimità del Walter Cronkite italiano - e provare a raccontare un Chicco meno conosciuto - è impresa tosta. Ma un assedio garbato può scalfire (un po’) la sua difesa granitica. E allora si parla di famiglia, genitori, amore e giovani. Niente politica, per una volta...
Una domanda cui non risponderai mai: come e per chi è stata la tua prima cotta?
«Ma dai... sono un signore di 64 anni. I ricordi si perdono nella notte dei tempi. Comunque sono stato un adolescente come tutti gli altri, ho cominciato a guardare le ragazze sui banchi di scuola e la prima volta è stata al liceo. Ovviamente non saprete mai il nome».
Altra domanda da cancellare: cosa ti fa innamorare di una donna?
«Appunto cancelliamo. Figuriamoci se mi addentro in un tema così intimo. Dico solo che non sono un masochista, scelgo persone che mi fanno stare bene».
Riproviamo: cosa ti piace di più della tua compagna Francesca (Fagnani, la brillante intervistatrice di Belve sul canale Nove)?
«Dico solo una cosa: ho una compagna che si è fatta largo da sola, è indipendente, era una giornalista già affermata prima di mettersi con me. Di lei mi piace la tenacia e l’approccio alla professione, diverso dal mio anche perché è molto più giovane».
Azzardiamo: come sono adesso i rapporti con le madri dei tuoi figli?
«Avere dei figli è il miglior modo per avere rapporti con le loro madri. Punto».
Allora, proviamo a parlare dei tuoi figli, ne hai quattro: due nati negli anni 80/90 (Stefano e Alice) e due negli anni Duemila (Giulio e Vittoria). Spesso chi è impegnato come te, risponde di sopperire come padre alla quantità con la qualità...
«Infatti ho sempre pensato che ciascun padre tracci di sé un ritratto deformato. Come è un padre lo dice un figlio. Io cerco solo di far capire ai miei figli che ci sono valori irrinunciabili e che il rapporto tra un padre e un figlio deve essere il più disteso possibile».
Come fai a ritagliarti tempo per loro?
«Ho un vantaggio: non soffro di ansia. Cerco di fare quello che posso per stare con loro in tempi diversi. Nessuno di loro comunque è così piccolo da non capire il lavoro che faccio».
Che differenza hai trovato ad allevare i figli grandi e quelli piccoli in anni così diversi?
«Non c’è una grande differenza. Non esistono modalità novecentesche e degli anni Duemila per crescere i figli. Cambiano i tempi, quello che non cambia è l’affetto. Sono un padre che come tutti i padri che fanno un lavoro pubblico come il mio sa che i rapporti devono essere i più sinceri e più privati possibile. Infatti di loro non c’è quasi traccia sul web».
Tuo figlio maggiore Stefano lavora a TPI, un sito di informazione concorrente di Open, da te fondato e finanziato per permettere ad alcuni giovani di entrare nel giornalismo. Insomma, non hai certo pensato a un’azienda di famiglia...
«Ma figuriamoci, ciò che mi inorgoglisce è che Stefano ce l’ha fatta da solo. Il sito è stato fondato da lui che ne è vicedirettore e da Giulio Gambino che ne è direttore: sono stati compagni di classe dall’asilo al liceo, sempre in simbiosi, anche in questa avventura. Non hanno preso stipendi per anni: poi il sito è diventato una realtà forte e questo mi fa molto piacere».
Lo hai aiutato, gli hai dato consigli?
«No, no. Anzi è stato lui all’inizio di Open a dare consigli a me dal punto di vista tecnologico».
Ma di Open sei contento?
«Grazie al cielo sì, anche perché l’ho finanziato totalmente con i miei soldi. Non siamo certo in attivo visto che abbiamo cominciato da soli sette mesi, spero di iniziare il 2020 in pareggio. Ma, come è noto, non abbiamo avviato questa attività a scopo di lucro, ma per permettere a venti giornalisti di accedere al praticantato in un momento in cui questo sembra quasi impossibile. E spero di aver scelto persone che potranno fare bene questo mestiere».
Tu invece che figlio sei stato?
«E come potevo essere se non un figlio che ammirava suo padre (Franco, grande inviato della Gazzetta dello Sport). Lo vedevo come l’uomo che faceva il mestiere più bello del mondo: andava in giro a seguire il calcio e lo pagavano pure. Mi sembrava la più grossa delle fortune. Poi era un’altra epoca, in cui il giornalista raccontava cose che nessuno vedeva, le partite non avevano ancora la diretta. Alla mattina divoravo la Gazzetta».
E infatti hai deciso di seguire le sue orme.
«Certo, ma fin da quando avevo dieci anni ho sempre pensato di fare il giornalista televisivo, ero un malato di tv... infatti a 25 anni ero già al Tg1».
Ma da bambino e da ragazzo com’era la tua Milano, com’erano la Fiera e Lorenteggio, i quartieri dove sei cresciuto?
«Erano gli anni in cui la vita in periferia era molto divertente, molto forte. Ragazzi tra ragazzi, si giocava a pallone, si andava al liceo. Come tutti, del resto. Quello che è cambiato rispetto a quei tempi è che ora non c’è più l’obbligo del machismo, è crollata la cultura dominante del maschio, donne e uomini sono più liberi».
E lì, tra ragazzi, ti sarai creato le amicizie di una vita.
«Ecco una cosa che non ho mai raccontato: il mio miglior amico alle elementari e medie si chiamava Marco, abitava a 200 metri da me, facevamo tutto insieme, tanto che ho scelto di fare il Liceo Classico, al Manzoni, perché ci andava lui. Ma non è arrivato a vent’anni, per la droga. Nelle caselle della vita, lui è una tessera nera che manca, è l’amico che non c’è più».
Uno dei ricordi più brutti.
«Sì. Ma ovviamente i dolori più grandi sono la perdita dei propri genitori, ma non mi metto certo io ad autocommiserarmi visto le sciagure che raccontiamo ogni giorno».
Anche nella carriera hai avuto periodi difficili.
«In una professione come la mia i momenti brutti non esistono, ci sono situazioni in cui si fanno delle scelte, si prendono decisioni. Ma se uno ha avuto un’esistenza divertente e gratificante come la mia, tutto può fare tranne che lamentarsi. Ho lasciato il Tg5 dopo 12 anni, Matrix dopo 4, certo in maniera traumatica (in rottura con Mediaset, ndr) ma non ci sono paragoni con altre esistenze difficili».
E allora parliamo dei momenti più belli della vita.
«Ovviamente la nascita dei miei quattro figli, che sono figli dell’amore. Poi ci sono i figli professionali: il Tg5, Matrix, il nuovo Tg di La7, sono stati tutti momenti di emozioni forti. La prima edizione del Tg5 andò in onda due giorni prima che io compissi 37 anni...».
In tanti anni alla guida di Tg hai visto crescere tanti giornalisti: ma quando hai cominciato di colleghe ce ne erano pochine...
«Infatti. Quando nell’’80 entrai al Tg1 il ruolo delle donne era ancora marginale, poi quando è nato il Tg5 il rapporto era già cambiato: in redazione erano metà e metà. Ormai i telegiornali sono tutti condotti da donne».
Qual è la collega che ha lavorato con te che ammiri di più?
«Ho un debole professionale per Milena Gabanelli perché è una donna che ha saputo crescere e imporsi con la pura professionalità, trovando una strada propria e facendo tutto quello che si può fare, da solista a direttore d’orchestra: è la donna più completa del giornalismo di oggi».
Cos’è che ti fa arrabbiare di più?
«Quando qualcosa viene fatto con sciatteria. Non mi arrabbio con chi sbaglia ma quando qualcuno lo fa per negligenza mi irrito, perché rovina il lavoro degli altri. Però, in realtà, non sono uno che si arrabbia molto...».
A salvarti è l’ironia, la tua carta vincente anche in momenti di impasse in video, come ogni tanto accade a La7: la sede l’altro giorno ha pure preso fuoco.
«Infatti temevo non mi credessero. Ho pure precisato che non era uno scherzo... Comunque l’ironia è un modo per rendere più leggera la vita, anche nei momenti più difficili non bisogna prendersi troppo sul serio. La parte più importante dell’ironia è l’autoironia. A volte questo mio lato del carattere mi mette nei guai, venderei i gioielli di famiglia per una buona battuta. Ogni tanto qualcuno se la prende, ma per fortuna io me lo dimentico subito, magari il malcapitato però no...»
Urbano Cairo, il patron di La7, ha annunciato che nella prossima stagione farai altri programmi oltre al Tg e alle tue note maratone politiche...
«Vorrebbe che facessi anche il meteorologo... Se fosse per lui ogni settimana farei una maratona, un libro, una trasmissione. C’è un gioco, una sfida tra di noi a chi fa di più... vedremo».
Ma dopo tutte queste soddisfazioni, ce l’hai ancora un sogno?
«Vorrei essere uno splendido pensionato...».
Non ci crede nessuno...
«Sul serio, mi piacerebbe tra un po’ di tempo, non ora ovviamente, riuscire a spegnere i motori... Mi piace pensare che un giorno avrò il coraggio di farlo».