Corriere della Sera, 24 luglio 2019
Storie vere degli ammutinati del Bounty
Hollywood fa sempre terminare i film storici nel momento esatto in cui la storia ha inizio. Perciò se avete stampate nella mente le immagini di Marlon Brando abbracciato a una bella polinesiana (diventerà sua moglie) sulla spiaggia di un’isola paradisiaca, cancellatela. Quando l’attore simbolo del cinema ribelle sbarcò a Tetiaroa con la troupe di Mutiny on the Bounty, nel 1960, erano trascorsi circa 170 anni dall’arrivo dei celebri ammutinati su un’altra isoletta al margine orientale delle Tuamotu: Pitcairn. E la macchina dei sogni delle major americane aveva deciso di raccontare in Technicolor la storia del favoleggiato (ma storico) ammutinamento del tenente Fletcher Christian (Brando) contro il capitano Blight (Trevor Howard) con un finale tutto suo: la morte di Fletcher sulla spiaggia, tra le braccia della sua amata, dopo aver inutilmente tentato di domare l’incendio doloso della nave, finendo completamente ustionato.
Nella realtà, dopo essere fuggiti da Tahiti, il tenente e i suoi 8 marinai ammutinati, avevano trovato rifugio insieme a 12 donne e 6 uomini originari delle isole, a Pitcairn, distante 15 giorni di navigazione da Tahiti. L’incendio del Bounty era stato deciso per evitare che la Royal Navy potesse individuare i fuggitivi. E Fletcher non era morto nel tentativo di domare le fiamme. Sbarcato a Pitcairn nel gennaio 1790, morì tre anni dopo: ucciso da quattro dei polinesiani unitisi alla spedizione, ribellatisi ai bianchi che li avevano poi ridotti in schiavitù. La storia della sua avventura conclusasi nel sangue – quella vera, che Hollywood non ha mai svelato – la racconta uno scrittore e commediografo francese, Sébastien Laurier, nel saggio romanzato La Bounty a Pitcairn. Che fine hanno fatto gli ammutinati? (edizioni Nutrimenti).
Scrive Laurier che come Fletcher, quasi vent’anni dopo – quando la prima nave (una baleniera americana) trovò i superstiti, credendoli membri di una idilliaca società sperduta dove regnavano pace e armonia – risultavano morti 14 dei 15 uomini in origine parte della piccola comunità. Quel che il capitano della nave giunta a Pitcairn nel 1808 non sapeva e non poteva neppure immaginare è che erano tutti (eccetto uno, stroncato da infarto) morti assassinati. Una carneficina consumatasi nel giro di soli sei anni. Una strage determinata dall’imbarbarimento del piccolo gruppo originario sbarcato a Pitcairn, dal razzismo di alcuni marinai bianchi che cancellarono il sogno democratico e egualitario di Christian, dalla rabbia dei tahitiani di stirpe nobile prima arruolati e poi trattati come esseri inferiori, dalla lotta per la «spartizione» delle donne.
Se l’arrivo degli europei sul finire del XVIII secolo fu un vero choc culturale per i polinesiani, la vera storia degli ammutinati del Bounty potrà scioccare il lettore contemporaneo, giacché incarna tutti i difetti e i lati oscuri della nostra società. Razzisti e xenofobi come gli inglesi del Settecento? A ben guardare, nell’Europa che respinge barconi e immigrati non siamo molto lontani dall’egoismo e dalla prepotenza dei compagni di Fletcher. E se anche la Polinesia di circa 250 anni fa non era l’Eden a lungo dipinto dagli esploratori come dal cinema hollywoodiano, occorre ricordare che l’avventura del Bounty a Pitcairn – prima dell’autocancellazione dei suoi protagonisti – portò morte e disperazione in altre isole. Soltanto trent’anni dopo il passaggio degli ammutinati nell’atollo di Tubuai – scrive Laurier – la popolazione si era ridotta da 3 mila a 900 indigeni: una conseguenza delle malattie veneree e del vaiolo portati dai marinai di Sua Maestà.