la Repubblica, 24 luglio 2019
Le lettere dei prigionieri italiani nella Grande Guerra
Come dire di aver fame senza poter usare la parola “fame” fu un gravoso rovello per i prigionieri italiani nelle carceri austriache durante la Prima guerra mondiale. Tanto gravoso quanto gravoso era il fatto in sé – una tragedia nella tragedia della guerra, che da sola si stima abbia ucciso centomila persone. A distanza di un secolo si può leggere quel gravoso rovello con occhi più disincantati e quasi apprezzare l’ingegno perifrastico, inventivo dei tanti prigionieri che, nelle lettere ai familiari, adottavano le più fantasiose formule utili ad aggirare l’occhiuta censura che l’esercito imperiale impiegava per evitare che si diffondesse la fama di un regime carcerario spietato e mortificante. Raccolse questa vasta produzione di perifrasi, la riordinò seguendo categorie linguistiche e retoriche assai raffinate, non un censore qualsiasi, ma Leo Spitzer, allora giovane studioso di linguistica, laureato sulla lingua di Rabelais, allievo di Wilhelm Meyer-L?bke, il paladino del metodo storico-grammaticale. Spitzer, nato positivista, sarebbe poi diventato un’autorità assoluta nel campo della filologia romanza e della critica stilistica. Ma, fra l’ottobre e il novembre del 1915, è addetto all’ufficio della censura postale dell’esercito austriaco. Da questa esperienza Spitzer, che conosce benissimo l’italiano, e diversi dialetti della penisola, ricava ben tre studi, la Lingua italiana del dialogo, Lettere di prigionieri di guerra italiani e questo Perifrasi del concetto di fame (il Saggiatore), curato da Claudia Caffi, che scrive anche una corposa introduzione (un’altra sul dramma della fame è firmata dallo storico Antonio Gibelli). Spitzer divide il suo impegno fra i doveri di suddito militare dell’Impero, che svolge in maniera impeccabile, e l’acribìa del filologo alle prese con un materiale che sente lievitare fra le mani e che si presta a un’indagine sui meccanismi che regolano il «farsi della lingua», scrive Caffi, sui criteri psicologici e di stile che presiedono all’invenzione della perifrasi, di un’espressione che indica la fame senza nominarla. Il volume, corposissimo, è formato dai testi dei prigionieri, dei quali Spitzer mantiene la grafia originaria: italiani che vivono in Italia, in prevalenza veneti, friulani e anche italiani sudditi dell’Austria. La gran parte di essi possiedono scarsa dimestichezza con la lingua italiana e con la lingua scritta, in particolare. Lo studioso (e il lettore d’oggi) s’imbatte in procedimenti grafici, per esempio una f seguita da un lungo spazio, oppure in una serie abbreviata: soff. l. f.. Ecco poi l’anagramma “mefa”, la personificazione “la signora Mefa”, lo “zio Magno”, la “Signora Bruttavecchia”. Frequenti sono espressioni proverbiali, dal “fianco batte” a “stringere la cinghia”. Come pure curiose contrazioni lessicali che diventano esclamazioni dialettali: “christochefamdelader”, “sepatislafam”. Spitzer ricopia e commenta. È colpito dalla variegata ricchezza espressiva di persone spesso senza istruzione, eppure in grado di articolare formule linguistiche complesse, fantasiose, persino geniali. Sono creazioni lessicali orientate a prendersi gioco della censura, senza poter immaginare chi fosse addetto a quel compito, eppure speranzose di giungere al destinatario, la famiglia lontana, che non deve faticare troppo per comprenderle. E per alleviare la sofferenza. E qui s’apre un’altra questione. Accanto al rilievo linguistico, la stupefacente mole di materiale ci mette a contatto con italiani appartenenti alle classi più deboli, mandati a combattere, finiti nelle mani del nemico e alle prese con il bisogno primario di sopravvivere. Al quale bisogno rispondono tirando fuori un’energia espressiva, sagacemente popolare, che va oltre gli attrezzi culturali di cui solitamente dispongono.