ItaliaOggi, 23 luglio 2019
Fu un tenore che inventò l’Arena. Intervista a Giovanni Zenatello
Credo che l’imprenditore alberghiero Giovanni Zenatello, 63 anni, laureato in giurisprudenza, sposato, una figlia, coltivi un sogno impossibile ma necessario. Questo: la sera della prima in Arena, al momento del gong, un annunciatore sale sul palco e, rivolgendosi alle autorità in platea e al pubblico sulle gradinate, pronuncia un saluto, sempre lo stesso, che qui provo a formulare: «Signore e signori, se stasera possiamo assistere all’incomparabile spettacolo che sta per iniziare, lo dobbiamo a una persona: il veronese Giovanni Zenatello».Si sarebbe dovuto fare così fin dal 10 agosto 1913, da quando il tenore Zenatello mise in scena a proprie spese l’Aida, inaugurando la tradizione della stagione lirica estiva, oggi ribattezzata Arena opera festival. «Si tratterebbe di un tributo di riconoscenza verso un uomo che da più di un secolo regala alla città un indotto di circa 500 milioni di euro l’anno, di sicuro non meno di 400», spiega il pronipote. Il calcolo non è suo: lo ha fatto l’Università di Verona.
Zenatello ha ereditato dal padre Onofrio, detto Nene, l’hotel Accademia di via Scala. Il cantante omonimo, che egli chiama zio Giovanni, era fratello di suo nonno, anche lui di nome Onofrio. Un personaggio quasi mitologico nei racconti di famiglia. L’impronta artistica si è tramandata, sia pure su versanti diversi, in Elisabetta e Paolo, i fratelli dell’albergatore, entrambi residenti a Milano. La prima si occupa di moda; il secondo è un regista eclettico che si è fatto da solo, lavorando per il cinema con Dario Argento e per Rai e Mediaset con Maurizio Costanzo, Raimondo Vianello, Sandra Mondaini o in programmi storici come Drive in.
L’altra figura onnipresente nei discorsi di casa, durante l’infanzia dell’albergatore, era quella della Maria, senza ulteriori specificazioni, una prosperosa signorina di origine greca che il tenore Zenatello, dall’America, aveva mandato a vivere all’Accademia, presso i parenti veronesi. «Entrò qui dentro solo con le scarpe di tela e una gonnellina, non aveva altro», rievoca il proprietario dell’hotel. Quella ragazza di 23 anni esibì una lettera recante l’intestazione «Zenatello – 50 Central park west – New York City – Trafalgar 7-1992». Vale la pena di leggerla: «Questo scritto serve a confermare che la Signorina Maria Callas è scritturata per il Festival di Verona, finanziato dalla città di Verona, per cantare quattro recite dell’opera La Gioconda durante il periodo che trascorre fra il 27 Luglio ed il 17 Agosto 1947. Il compenso della Signorina Callas sarà di 40.000 lire per rappresentazione», 816 euro di oggi, ma va tenuto conto che all’epoca un operaio generico guadagnava poco più di un quarto di quella somma. In un mese, anziché in una sera. E i parlamentari, fin da allora ben remunerati, si accontentavano di 15.000 lire in meno, sempre al mese.
La lettera proseguiva: «La signorina Callas sarà pagata la sera di ogni sua rappresentazione prima che incominci la recita. È anche sottinteso che in caso d’inadempienza anche parziale al presente contratto la parte inadempiente pagherà all’altra a titolo di penale una somma pari all’importo complessivo della paga fissata per tutta la durata del contratto». La firma in calce all’atto dovrebbe far riflettere gli attuali organizzatori del festival estivo: «A nome dell’Ente autonomo per gli spettacoli lirici dell’Arena di Verona, Giovanni Zenatello». Subito sopra, l’autografo di Maria Callas. In basso la data: «New York 23 Maggio 1947».
Il suo antenato scritturò la Callas per «La Gioconda».
Sì. La cantante debuttò nell’opera di Amilcare Ponchielli il 2 agosto. Visse per molti mesi nella camera 360, decorata con affreschi, una delle poche risparmiate dai bombardamenti in questo edificio del 1400 che prende il nome dall’Accademia Filotima. Rimase qui fino alle nozze con Giovanni Battista Meneghini.
Perché il suo prozio era finito negli Stati Uniti?
Storia lunga. Giovanni Zenatello era nato nel 1876, terzo di otto fratelli. I genitori avevano un forno. Il ragazzino girava per la città con le ceste di pane sulle spalle, canticchiando gli inni liturgici che aveva udito alla messa domenicale. A 16 anni la sua voce si fece baritonale. Lo chiamavano Ugola d’oro. Decise di dedicarsi alla sua passione. Il padre fu irremovibile: «Scegli. O canti per vivere o vivi per cantare». Optò per la prima strada.
Come si scoprì tenore?
Quando i si e i do di petto assunsero una potenza straordinaria. A 21 anni ottenne un’audizione dal baritono Gottardo Aldighieri, che soggiornava spesso con la moglie Maria Spezia, soprano, a Colognola ai Colli. A portarlo nella villa di campagna fu il maestro Ferruccio Cusinati, che poi diventerà il primo direttore del coro dell’Arena. A quel punto la famiglia si decise a mandarlo a Milano in cerca di gloria.
E la trovò?
Arrivatovi con la valigia di cartone nel novembre 1899, trovò soprattutto un gran freddo. Essendo sprovvisto di cappotto, impegnò buona parte dei soldi per comprarsi un pastrano giallo di seconda mano. In breve fu soprannominato il «cantante canarino». Incontrò la gloria al Comunale di Brescia, una sera che era seduto in platea Arturo Toscanini. Il grande direttore d’orchestra lo convocò alla Scala per un’audizione e lo ingaggiò per la Dannazione di Faust.
Era nato il tenore drammatico.
L’esordio alla Scala nel 1902 gli dischiuse una sfolgorante carriera, che lo portò prima al Covent Garden di Londra e poi al Metropolitan di New York per sostituire Enrico Caruso, affetto da una laringite. Gli Usa divennero la sua prima casa. Aprì una scuola di canto in Central park. Scoprì il soprano Lily Pons, che ebbe come ospite per le vacanze nella propria villa di Quinto di Valpantena, poi trasformata dallo psichiatra Cherubino Trabucchi nella casa di cura Santa Chiara. E aprì le porte del Metropolitan a Nino Martini e a Nicola Rossi Lemeni, i suoi migliori allievi veronesi.
Come arrivò a Maria Callas?
Attraverso l’avvocato Bagarozy, uno stravagante personaggio che aveva sposato una cantante. La Callas accompagnava al pianoforte la consorte del legale. Lo zio Giovanni le chiese: «Sai anche cantare?». La giovane intonò Casta diva. A mia zia Nina Zenatello Consolaro, che era lì presente, venne la pelle d’oca. Alla fine lui la abbracciò con le lacrime agli occhi e la scritturò per l’Arena.
Aveva questo potere?
Certo, ricopriva l’incarico di sovrintendente. Si può dire che il festival lirico fosse roba sua, avendolo creato dal nulla con i propri soldi nel 1913.
Che accadde di preciso quella sera di giugno in cui Giovanni Zenatello scoprì che l’anfiteatro romano si prestava per l’opera?
Era seduto in un caffè in piazza Bra con il mezzosoprano spagnolo Maria Gay, che rimase sua compagna per tutta la vita, con i maestri Tullio Serafin e Ferruccio Cusinati e un loro amico, Ottone Rovato. Il mio prozio alzò gli occhi verso l’Arena ed esclamò: «Ecco il gran teatro che cerco da tanto tempo. Basterebbe soltanto che avesse una buona acustica. Perché non andiamo subito a provare le voci?». Detto fatto. Lui si mise sotto il palco reale, Serafin e Cusinati dal lato opposto. Cominciò a cantare Celeste Aida. I due direttori applaudirono. Meno di due mesi dopo, mise in scena la prima opera a suo rischio e pericolo, fornendo gli ingenti capitali per il cast e per le scenografie di Ettore Fagiuoli, e anche le voci, la sua e quella di Maria Gay. In quel 1913 ricorreva il centenario della nascita di Giuseppe Verdi e la scelta non poteva che cadere su Aida.
Chi glielo fece fare di buttarsi in un’avventura tanto incerta? Era ricco, famoso, viveva negli Usa...
Aggiunga che era amico dei banchieri Rothschild e frequentava Clark Gable, Humphrey Bogart e molti altri divi di Hollywood, persino Stanlio e Ollio. Durante una tournée in Messico, il guerrigliero Pancho Villa, grande appassionato di lirica, tese un agguato fra Puebla e Guadalayara al treno su cui viaggiava lo zio Giovanni con la sua compagnia. Voleva rapirlo e costringerlo a cantare per lui.
Che senso aveva rischiare di perdere tutto con la lirica a Verona?
Zia Nina mi diceva che il sogno della sua vita era di offrire in Arena a 20.000 figli del popolo, operai, contadini, analfabeti, le rappresentazioni riservate ai ricchi. Voleva restituire alla città natale un po’ della propria fortuna. E lo fece, anche in modo sconsiderato.
Perché dice questo?
Perché diede fondo alle sue sostanze pur di creare la stagione lirica in Arena. Silvano Zavetti, presidente degli ex consiglieri comunali, ha recuperato il verbale di una visita dello zio Giovanni a Palazzo Barbieri, nel corso della quale informò gli amministratori civici che aveva finito i soldi. Una volta diede al sindaco un assegno affinché si fondasse una scuola di canto per i bambini poveri. Rivalutato a valori odierni, corrispondeva a 800.000 euro.
Morì a New York nel 1949.
D’infarto, sei anni dopo aver perso Maria Gay. Con mia sorella volevamo visitare la sua casa in Central park, all’ultimo piano, dove c’è ancora la scuola di canto. I custodi non ci hanno fatto entrare.
Che ingrati.
Mah, sa, a Verona mia zia Nina fino alla morte fu costretta a comprarsi il biglietto per assistere alle opere in Arena...
Con il nipote nel consiglio d’amministrazione dell’Ente lirico?
Già, ho avuto l’onore di collaborare con i sovrintendenti Gianfranco De Bosio e Renzo Giacchieri. Con il primo trasformammo la biglietteria da manuale in elettronica, supportati da Unicredit: fu come abbattere il Muro di Berlino. Diventammo il teatro con il box office più moderno d’Europa, un merito del compianto amico Corrado Ferraro. Con il secondo l’Ente lirico passò dalla gestione pubblica a quella privata e nacque la Fondazione Arena. Un processo anche questo molto tribolato.
Fu il suo prozio a chiedere di essere sepolto nella città natale?
Sì. La salma venne subito traslata da New York a Verona e per i funerali si radunò in piazza Bra una folla imponente.
Ma non lo seppellirono nel famedio degli Ingenio claris, accanto a veronesi benemeriti come Michele Sanmicheli, Abramo Massalongo, Angelo Messedaglia, Aleardo Aleardi, Emilio Salgari, Berto Barbarani.
Avevo lanciato l’idea di dedicargli almeno un busto nei paraggi dell’Arena. Caduta nel vuoto.
Sono andato a controllare: la tomba è abbandonata.
Confesso di non essere appassionato di cimiteri. Mio fratello porta ogni tanto i fiori freschi, però mi dice che vengono rubati regolarmente.
Lei sa cantare?
No, zero assoluto.
Le piace l’opera?
Ni. Non sono un melomane come mio padre, ma seguo la stagione lirica regolarmente, anche se ci capisco poco. Ho visto Il Trovatore con Anna Netrebko. Da brividi. Lo zio Giovanni diceva: «L’Arena è l’unico teatro al mondo dove la musica si ascolta anche con gli occhi». In questo caso, Franco Zeffirelli ha dimostrato quanto sia vero.
Ha mai pensato che sarebbe stato più conveniente cantare anziché gestire un hotel?
(Ride). Sì, avendo la voce. La stagione alberghiera è soddisfacente. Ma c’è la piaga della concorrenza sleale.
Si riferisce ai bed and breakfast e alle piattaforme tipo Airbnb?
No, agli affitti turistici. Stiamo parlando di proprietari che offrono le case per una o due notti, anziché per uno o due anni. A Verona ci sono più di 4.000 appartamenti utilizzati in questo modo. Tra Roma e Venezia oltre 60.000. In tutta Italia arrivano a 390.000. Chi li controlla? Denunciano in questura i nominativi dei clienti? Stanno stravolgendo l’aspetto urbanistico del centro, dove ormai è impossibile trovare una casa a pigione per abitarci stabilmente. A New York, Parigi, Madrid, Berlino i sindaci sono corsi ai ripari con provvedimenti drastici. Qui non si muove foglia. Anche se la nostra polizia municipale è un esempio nazionale nella lotta all’abusivismo nel settore ricettivo extralberghiero.
Che cosa non piace di Verona ai suoi clienti?
La carenza di bagni pubblici e di segnaletica multilingue.
È favorevole o contrario alle auto nel centro storico?
Meglio lasciarle transitare, sino a quando i nostri amministratori non si decideranno a costruire quel benedetto traforo sotto le Torricelle. Non dimentichi che nella città antica ci sono uffici comunali, scuole, banche, studi professionali. Come si fa a renderli irraggiungibili con l’auto? Chiudere al traffico il centro significherebbe aggravare l’inquinamento nelle periferie. Noi che abitiamo qui siamo forse i più belli di tutti per scaricare i sacrifici sul resto della popolazione?
Parla quasi da sindaco.
Per carità! Mi hanno offerto due volte un assessorato: ho sempre rifiutato. In passato ho trascurato famiglia e affari per ricoprire cariche in Confcommercio, Confindustria, Fiera, Ente lirico, Fondazione Arena, Associazione albergatori. Mio padre mi ha insegnato che i più fortunati devono dare una mano alla comunità, non alla politica.