ItaliaOggi, 23 luglio 2019
Ho cercato di spiegare a uno straniero la politica italiana. Ma non ce l’ho fatta
Un mio amico americano, che da tempo lavora in una grande istituzione pubblica statunitense a costruire analisi e scenari per l’Estremo Oriente, di rientro dal Far East ha fatto scalo a Milano per una cena con me. Non ci ha messo molto a chiedermi delle informazioni di prima mano sulla politica italiana, un paese che lui non monitorizza professionalmente ma del quale resta interessato. Va detto, per liberarsi subito dalle interessate e in fondo anche mortificanti narrazioni capitoline, che ai problemi italiani lo statunitense medio non è per niente interessato.Molti americani (com’è stato documentato da specifiche inchieste) non sanno nemmeno dove sia l’Italia. E i più informati ritengono che essa confini con la Turchia (del resto è inutile fare gli schizzinosi: chi, in Italia, sa con quali stati confina il Nebraska?).
Solo in Italia però si poteva raccontare (come lo si è fatto per anni, in modo imperterrito) che gli Usa seguivano con attenzione «l’Ullivo», non a caso subito amplificato dalle nostre gazzette, (che troppo spesso non posseggono il senso dell’umorismo) come «Ulivo internazionale». Non era, per costoro (la maggioranza degli opinionisti italiani di allora), un ripiego nel difficile cammino verso una democrazia compiuta ma una formula politica innovativa, anzi rivoluzionaria, destinata a modificare in maniera drastica e risolutiva il modo di fare politica nel mondo e quindi destinata anche ad essere imitata dovunque e, ovviamente, in primis dagli Stati Uniti che venivano descritti come impegnati febbrilmente a scrutare la creatività politica italiana per riuscire a cogliere il momento esatto (the window) per poterla adottare.
La bufala veniva mediaticamente corroborata dalla sontuosa ospitalità, a spese di un grande comune italiano, di esponenti totalmente marginali della famiglia Kennedy che, osannati dai media italiani, facevano ripetuti viaggi di piacere che, per la loro irrilevanza, negli Usa non venivano ricordati, nei media a stelle e strisce, nemmeno con una breve al piede di pagina 42.
Ma al top della classe dirigente Usa, l’Italia resta un paese molto importante. Non per l’Ullivo internazionale un tempo, o per il governo gialloverde adesso, ma per il semplice fatto che l’Italia è una portaerei lunga 1.200 chilometri che è ancorata nel bel mezzo del Mediterraneo. Un mare, questo, che è un quadrante geografico e geopolitico che resta fra i più roventi del mondo, accanto a quello dell’Asia Pacifico (che rovente non lo è ancora, ma lo sta diventando).
Questi top della classe dirigente Usa vorrebbe quindi capire che cosa bolle in pentola nello Stivale. Purtroppo per loro (ma anche per noi, a ben vedere) la politica italiana resta, per tutti, un bel punto interrogativo.
In Italia infatti i due partiti alleati al governo non solo sono diversi ma hanno anche ideologie ed elettorati di riferimento completamente opposti. Altrove, uno di questi due partiti farebbe parte della maggioranza e l’altro dell’opposizione. Essi infatti sono separati, non da motivi di comprensibile concorrenza fra di loro, ma da giudizi di valore basilari, fondanti, ab imis. Ideologici, appunto. E perciò insuperabili, a prescindere.
La Lega, ad esempio, ritiene che, per far progredire il paese e realizzare un welfare più robusto, bisogna liberare gli spiriti imprenditoriali che, creando nuova ricchezza, aumentano l’occupazione ed incrementano, a parità di tutte le altre condizioni, il gettito tributario che può, a sua volta, essere utilizzato anche per aumentare le attività sociali.
Il M5s invece, essendo il partito della decrescita, è sostanzialmente nemico dell’attività economica privata e quindi ostile, ad esempio, alla realizzazione delle grandi opere pubbliche. È un partito inoltre che, alle privatizzazioni, preferisce le pubblicizzazioni e, per estendere il welfare, ritiene di potere utilizzare, per far fronte alle spese correnti, anche i soldi che non ha, ricorrendo ad un ulteriore debito pubblico anche in presenza di uno dei più alti debiti pubblici nel mondo.
La prima domanda dell’amico Usa è: come fanno a stare assieme (e soprattutto a lavorare assieme) due forze che sono cosi radicalmente antagoniste? La risposta sarebbe facile ma sarebbe anche fuorviante. Lega e M5s, avrei potuto limitarmi a dire, stanno insieme ma non lavorano assieme. Non a caso, per riuscire a fare il loro governo, non hanno redatto un programma comune (come capita in tutte le grandi democrazie) ma hanno dovuto stilare un contratto, come se dovessero, non governare un paese, ma acquistare un’azienda.
L’amico americano mi ha allora chiesto: perché i partiti all’opposizione non fanno saltare questo periclitante castello di carte che, non reggendosi su niente, è anche molto instabile? La mia risposta (per lui incomprensibile, però) è che in Italia l’opposizione c’è ma, in pratica, è come se non ci fosse. In che senso? Perché l’opposizione, oltre ad essere stata elettoralmente ridotta ai minimi termini, è priva di idee ed incapace di elaborare credibili programmi alternativi. Più che proposte, esprime delle proteste. E queste ultime non riescono nemmeno a diventare manifestazioni ma si esprimono quasi sempre solo con degli imbarazzanti borborigmi destinati soprattutto ai Tg della sera che la sinistra controlla anche adesso che è all’opposizione. E li controlla, o con i direttori, o, a fronte di nuovi direttori, con delle redazioni politicamente molto inquadrate a favore della sinistra perché sono state formate così nel corso di molti decenni.
L’amico americano, sempre più stupito, mi ha detto, a questo punto, che non ha capito chi è, in Italia, il capo del governo. Ho dovuto rispondere che non lo so nemmeno io. La legge, certo, prevede che il governo sia formato da un premier (che ne è il capo e che, di solito, è designato dal partito più votato) e da dei ministri. Ma da noi il premier è stato sì designato da M5s e dalla Lega ma viene affiancato (segregato?) dai segretari dei due partiti che, di fatto, si spartiscono il potere e, quando su qualche cosa di rilevante o per loro strategico, raggiungono un’intesa, la girano per l’esecuzione al premier formale ma in effetti a loro subordinato.
Reso audace dell’Amarone («niente male, questo vino», mi dice, «lo ordinerò con Amazon appena rientrerò a casa») l’amico americano mi dice: il governo, sia pure nella estemporanea triade di vertice che mi hai spigato, ha almeno, nel suo complesso, la pienezza del comando dell’esecutivo? Ho dovuto rispondere che nell’esecutivo detto impropriamente gialloverde, operano due ministri chiave (Economia ed Esteri) che obbediscono ad altri poteri e non possono essere licenziati perché, per allontanarli dai loro posti (se non lo fanno loro con le dimissioni volontarie) si deve fare una crisi dalla quale l’esecutivo potrebbe anche non più rientrare.
A complicare le cosa c’è anche il fatto che, nel giro di un anno, l’M5s ha dimezzato i suoi voti mentre la Lega li ha raddoppiati. Quindi il comando dovrebbe passare al partito, la Lega, al quale oggi viene attribuito il 37% dei voti e non ai M5s che è fermo al 17%. Ma la rappresentanza in parlamento (in termini di seggi) è stata calcolata (e non può che essere così) ai tempi in cui il M5s valeva il doppio anche se oggi si sa che vale la metà.
A questo punto l’amico americano, con la scusa del fuso orario e dell’Amarone («Molto buono, però») ha detto, scusandosi, che avrebbe voluto andare a letto. Visto che la situazione italiana è disperata, ma non seria, e soprattutto inspiegabile, l’ho preso subito in parola: «Buon rientro, caro John!». E l’ho abbracciato calorosamente, avendo capito, dopo questa amichevole chiacchierata, che lui temeva di non aver capito bene.