Corriere della Sera, 23 luglio 2019
Dante secondo il traduttore francese René de Ceccatty
Potrebbe sembrare assurdo, pericoloso e inutile. Sono i tre aggettivi che usa René de Ceccatty per descrivere i rischi del suo proposito, realizzato un paio d’anni fa, di tradurre in francese la Divina commedia. «Il traduttore – scrive de Ceccatty nella prefazione alla traduzione apparsa da Seuil – somiglia a un musicista, a un pianista che non viene scoraggiato dalle innumerevoli interpretazioni del Clavicembalo ben temperato o dei concerti di Brahms da parte dei grandi maestri...».
Ora, dopo aver scalato montagne come Pasolini, Leopardi e il Poema sacro, de Ceccatty si appresta a proporre una nuova traduzione anche della Vita nuova e del Convivio: «Dante – dice —, rappresenta molto più di un ricordo scolastico, ha un’importanza per la lingua italiana ma anche per l’identità europea. Ecco perché sarebbe auspicabile un Dantedì che si estenda anche oltre i confini italiani, perché Dante ha un respiro ampio, incarna l’intera cultura latina e la cultura cattolica ma in una prospettiva critica: dunque è utile riflettere sulla sua opera ma anche sul ruolo che ha avuto nella storia politica. Abbiamo bisogno di gente come lui, gente che non rifiuta il legame con la cultura cristiana e che nel contempo manifesta un distacco rispetto alla Chiesa temporale sottolineando la distanza tra i Papi e il Vangelo».
Una giornata dantesca non può che essere, secondo de Ceccatty, una giornata necessaria e paradossale: «Bisogna ricordare che celebrando Dante celebriamo un personaggio dell’esilio in un momento in cui l’Italia e l’Europa rifiutano gli esiliati. Dante è un paradosso, non può essere un eroe interamente positivo, continua a porre interrogativi: non possiamo ignorare che il fondatore della lingua italiana era un esiliato».
Lo spirito della traduzione dantesca di de Ceccatty non è accademico, non è filologico e non è esegetico: «Volevo proporre una Divina commedia che il lettore francese potesse leggere senza note, favorendo una lettura fluente, senza intoppi e ostacoli». Anche il Dantedì, a suo modo, non prevede note esplicative in calce, predilige la leggibilità e la chiarezza coinvolgente: «Io propongo di leggere Dante per piacere, pur rischiando a volte di falsare il senso e di irritare gli specialisti. Se il poeta allude a un personaggio mitico di Roma o a una città senza farne il nome, io sciolgo le allusioni e gli indizi, e preferisco inserire il nome nel testo a beneficio della comprensibilità...». Dunque, una traduzione decisamente interpretativa, con un bel carico di responsabilità e di coraggio. Una sfida alla tradizione critica dantesca, spesso cavillosa e conflittuale. Con che risultati? Sul piano editoriale piuttosto eccezionali, se è vero che l’edizione, in un solo volume (e senza italiano a fronte), è stata ristampata quattro volte per un totale di 8.000 copie.
In prefazione de Ceccatty offre comunque tutti i ragguagli delle sue scelte. Anche quelle metriche, avendo deciso di rinunciare alle rime e di rendere l’endecasillabo con l’«octosyllabe», optando per una scansione più breve: «À mi-parcours de notre vie/ Je me trouvais dans un bois sombre: / C’est que j’avais perdu ma route», ma si sa che la lingua italiana, disponendo di parole piane e sdrucciole, è più lunga della francese. «L’effetto è di una maggiore leggerezza, – spiega de Ceccatty – che contrasta con la pesantezza dell’alessandrino [12 sillabe] usato solitamente dai traduttori francesi».
Una pietra di confronto inevitabile è la traduzione libera di Jacqueline Risset, rimpianta studiosa e poetessa, secondo cui tradurre Dante è sempre un’operazione rischiosa, ma tradurlo in francese lo è ancora di più, essendo il francese una lingua «casta e timorata»: e infatti la Risset, diversamente da de Ceccatty, ha cercato di restituire all’orecchio francese le stesse difficoltà che incontra il lettore italiano, con tutti i dubbi, le ambiguità e i luoghi oscuri dell’originale. Dice de Ceccatty: «Per il lettore italiano, che ha le sue frasi dantesche sacre, potrebbe suonare come un sacrilegio, ma per il pubblico francese non si pongono certi problemi, dunque si può privilegiare il discorso narrativo cercando di rispettare l’atmosfera poetica». È una scelta radicale consapevole del fatto che nel mercato francese attualmente circolano cinque o sei diverse traduzioni della Commedia. E consapevole anche del fatto che la letteratura francese non ha figure equivalenti a quella dantesca: «I grandi poeti nostri sono ottocenteschi – ricorda de Ceccatty – i francesi delle origini non hanno voluto assegnare alla poesia lo stesso ruolo che vi assegna Dante». Semmai, secondo de Ceccatty, un paragone possibile sarebbe con Montaigne, almeno per la cultura filosofica, ma senza esagerare visto che Montaigne è uomo del Cinquecento e non è un poeta ma un prosatore. «Dante ha fatto tutto, ha letto tutto, persino i filosofi arabi in traduzione, e la sua opera è una specie di crogiuolo di tutta la conoscenza tra Due e Trecento».
Nella prefazione, de Ceccatty fa il nome di Marcel Proust: «Anche lui, come Dante, è un genio della rappresentazione concreta di idee astratte, e come Proust anche Dante partendo dalla sua esperienza privata, sentimentale e politica, familiare e intellettuale, ha costruito il personaggio di un narratore che riflette su se stesso, sulla memoria e sul tempo». Chissà quanti studiosi in Italia concorderebbero con la linea poetica tracciata da de Ceccatty: Dante-Leopardi-Pasolini accomunati dall’ambizione di «descrivere il proprio mondo contemporaneo e intervenire con le armi della poesia (…) attaccando un’Italia violentata, che ha perduto la nobiltà, gli ideali, la dignità». Quanto alle difficoltà di traduzione, rispetto a Leopardi non c’è paragone possibile: «Mentre Leopardi, pur essendo anche la sua poesia molto ricca sul piano filosofico, è più sentimentale, diretto e umano, Dante è più nascosto e complesso: per Leopardi si trattava di trovare un’equivalente eleganza in lingua francese, Dante pone invece in primo luogo problemi di comprensione».
Il Dantedì in Francia? «Certo, sarebbe importante. Non dimentichiamo che nel nostro lessico c’è l’aggettivo “dantesque”, che significa inestricabile, mostruoso, straordinario, infernale, perché Dante da noi è passato attraverso le immagini di Delacroix e di Doré. E il Dante del Paradiso purtroppo quasi non esiste».