Corriere della Sera, 23 luglio 2019
La cella del Chapo
Maggio 2016. Con una mossa inattesa le autorità federali messicane trasferiscono El Chapo dalla prigione dell’Altiplano a quella di Ciudad Juárez. Molti pensano che lo spostamento sia in vista della futura estradizione. Speculazione sbagliata. Il cambio di carcere è legato al timore di una nuova fuga del padrino, sempre attraverso un tunnel. Per giorni i guardiani sentono strani rumori mentre il detenuto eccellente tira spesso l’acqua del wc. Piccoli diversivi per nascondere lo scavo di un’altra galleria, non diverso da quella usata per farlo scappare nel luglio del 2015.
I particolari sono emersi dopo il processo a New York contro il padrino. Giudizio conclusosi con la condanna all’ergastolo, reso più duro da altri 30 supplementari. Da scontare a Supermax, penitenziario nel Colorado, luogo da dove non è mai evaso nessuno. Perché è difficile sbucare fuori da quella che assomiglia ad una «segreta» medievale: infatti qui hanno rinchiuso il peggio del peggio. Unabomber, il terrorista ceceno responsabile della strage di Boston, la spia russa Hansenn e molti altri macchiatisi di reati gravi.
Joaquín Guzmán, 62 anni, sapeva che questa sarebbe stata la sua destinazione finale, ma non sapeva quando. Dopo la lettura della sentenza il bandito messicano è stato portato in un luogo sconosciuto. Neppure il suo avvocato è stato informato. Alle 3.37 del giorno seguente è stata notata la partenza di un volo inusuale dall’aeroporto di La Guardia, un jet impiegato per i viaggi dei prigionieri. Alle 7.15 circa il velivolo è atterrato a Pueblo, in Colorado, a circa 40 miglia dalla prigione. Ed è qui che nella tarda mattinata, protetto da una scorta robusta, è arrivato l’ospite. Lo attendeva la cella regolamentare, 2 metri per 4, dotata di un piccolo water e lavandino, una branda in cemento. L’unico pertugio è una finestrella di 10 centimetri attraverso la quale si vede uno spicchio di cielo. Il re dei trafficanti passerà qui 23 ore al giorno, sempre qui dentro consumerà i suoi pasti. Isolamento totale. Per motivi di sicurezza e per sua tutela.
Il contadino diventato gangster deve stare attento. Lo vogliono morto coloro che temono possa decidere di collaborare. Lo vogliono morto i suoi ex complici. Lo vogliono vivo, invece, i magistrati statunitensi convinti (ma non troppo) di riuscire a mettere le mani sulle sue risorse, 12,7 miliardi di dollari.
Poco prima di incamminarsi verso il cubicolo Guzmán ha protestato:«Mi mandano in un luogo dove non sarà possibile neppure sentire il mio nome. Non c’è giustizia». Un appello condiviso persino dal presidente messicano López Obrador che ha parlato di atto disumano. Poi ricordandosi dei 17 mila omicidi nei soli primi sei mesi del 2019 ha dedicato un pensiero alle vittime delle gang che imperversano nel Paese.
Dopo la caduta di Guzmán la lotta è diventata ancora più feroce. Il cartello de El Chapo si sarebbe spaccato con il co-fondatore El Mayo Zambada in guerra con i Los Chapitos, i figli del boss. Faida che ha favorito in parte le ambizioni di El Mencho, l’uomo alla testa del cartello di Jalisco, che ha esteso il suo potere a danno degli avversari. Sotto le cupole mafiose, ormai frantumate, dozzine di formazioni armate. In Baja California sono tornati a colpire i «tagliatori di orecchie», narcos che spargono il terrore tra gli spacciatori infliggendo mutilazioni. Sangue, contrabbando, morti anche senza El Chapo.