Il Messaggero, 23 luglio 2019
Intervista a Paolo Conte
Il baffo è tirato a lucido, la faccia è una milonga: sorniona, malinconica, irresistibile. È quella faccia un po’ così che ha Paolo Conte davanti a un caffè come piace a lui, così corto che nemmeno a Napoli, con tanto zucchero che nemmeno il mosto. Siamo nella campagna astigiana – Conte è appena rientrato da Perugia, dove si è esibito a Umbria Jazz – dove l’estate è tutta ventagli e silenzi e d’inverno abbiamo il sole in piazza rare volte e il resto è pioggia che ci bagna. Qualcuno può pensare che siano questi i posti dove capire davvero l’uomo geniale che ha cambiato faccia alla nostra canzone. Lui non è d’accordo: «Mi piace pensare che si possa apprezzare un artista senza interrogarsi sulla provenienza. Non mi sono mai sentito un cantore della provincia. L’Italia è tutta provincia».
Lei però ha scritto canzoni etniche, soprattutto agli inizi.
«Sì, sulla mia gente, come Genova per noi. È il mio brano più piemontese. È sulla timidezza, sul pudore, sulla difficoltà di mostrare i sentimenti. Quello di Genova, per noi, non è un mare qualunque: è il mare. Mi ricordo quando si falciava il fieno. Ti sembrava quasi di sentire l’odore di Genova, portato dal vento e dall’immaginazione».
Lei non ha il cellulare e non ama la tecnologia.
«Mi piace usare carta e penna, mi dà più gusto. Colleziono penne stilografiche e matite automatiche».
Il pianoforte, che invece le dà gusto, è maschio, ma lei lo accarezza come fosse una donna. Gli strumenti hanno sesso?
«La viola è femmina, così come il sax contralto. Il sax baritono è ermafrodito, tutti gli altri strumenti sono maschi».
A proposito di strumenti, lei ama il kazoo, che è quasi infantile, anche se per suonarlo bene bisogna essere maestri. È questo il senso dell’arte: diventare adulti rimanendo bambini?
«Sì, arrangiarsi anche solo con un pettine avvolto nella carta velina».
Che cos’è una canzone?
«Qualcosa che non cambia il mondo. È presuntuoso pensarlo. Può segnare un’epoca o sigillare un amore. Può mandare odori e profumi, anche gusti. Quando sentiamo certe canzoni veniamo catapultati in un altro mondo. Fa bene».
Le donne impazziscono per lei, eppure non le piace la sua faccia. Lei è strano, sa?
«Forse è la mia controfigura a fare queste conquiste».
Cinquant’anni di Azzurro. Avrebbe mai immaginato che tra l’oleandro e il baobab la sua vita sarebbe cambiata?
«Certamente sapevo, intuivo, che quella canzone era vincente. Non immaginavo che sarebbe arrivata così lontano e che tutti l’avrebbero fatta loro. Ho passato anni a chiedermi se mai avrei comprato il disco di uno come me».
Lei è felice?
«La vita ha tante stagioni, la vecchiaia non è detto che non contenga la felicità».
È vero che una volta a Roma, De Gregori le è venuto incontro chiedendole scusa prima ancora di salutarla?
«Io e mia moglie, nel sole, stavamo attraversando piazza del Popolo, quando da una via laterale vediamo venirci incontro, sbracciandosi, la figura alta di Francesco. Voleva scusarsi per aver eseguito in stile rock Un gelato al limon, nel disco Banana Republic, con Lucio Dalla. Continuava a ripetere: Mi perdonerai? Mi perdonerai?. L’ho tranquillizzato. Gli ho detto che per me era un onore. Peccato che da tantissimo tempo io e Francesco non ci vediamo, lo stimo molto».
Una volta ho visto una sua foto in spiaggia. Lei era in canottiera, elegantissimo. Come fa a essere sempre impeccabile e che cos’è l’eleganza?
«Una piccola forma d’arte. Da giovane ero raffinatamente elegante, ormai vesto casual».
Che cosa le piace?
«Le parole con la zeta. E America. Contiene qualcosa che al solo pronunciarla diventa poesia, ha qualcosa di leggendario e arcano».
Cosa non le piace?
«Non amo tanto raccontarmi in posti diversi da una canzone. In passato l’ho fatto, mi sono aperto. Il fatto è che ci sono artisti che vogliono essere compresi. Io penso alla bellezza di non essere capito nemmeno da me. Non sono per niente sicuro di voler sapere chi sono».
Che cosa la diverte e cosa la annoia?
«L’umorismo di alta qualità contro quello, più abbondante, di bassa lega».
Preoccupato per le sorti dell’Italia?
«Patriotticamente parlando direi che la nostra nazione si meriterebbe di più».
A chi comprerebbe un gelato al limon, oggi, a parte sua moglie Egle?
«A una bambina africana».
Se potesse rivedere per un’ora una persona del suo passato, chi sceglierebbe e cosa farebbe?
«Vorrei rivedere mio padre. Lo abbraccerei forte, poi gli chiederei di offrirmi un caffè al bar e lo starei a guardare mentre mette sul bancone cento lire. Poi lo abbraccerei ancora e comincerei a parlare, a spiegargli».
E se le dicessero che ha la possibilità di duettare con un gigante del jazz di un tempo?
«Mi nasconderei sotto il piano».
I momenti dell’artista sono tre: composizione, incisione e rappresentazione dal vivo. Ce n’è uno a cui è più legato?
«La composizione, senza dubbio. Procura una gioia inarrivabile, quasi fisica».
Che cosa sarebbe Paolo Conte senza il jazz?
«Ho amato il jazz alla follia, ma, criticamente, affermo che un certo jazz, soprattutto mainstream, ha esercitato, e continua a farlo, una pessima influenza sulle altre musiche. Il jazz è un denudatore della sostanza musicale».
Quando ha deciso di darsi alla musica?
«Un giorno, ero a una lezione di Diritto, all’Università. Cominciai ad avvertire un senso di insoddisfazione, quasi di noia. Presi un foglio e cominciai a buttare giù musica».
Ultima domanda: dove stiamo andando, musicalmente?
«A fondo».