la Repubblica, 23 luglio 2019
L’audiolibro? È nato nell’antica Roma
La cultura comune, quella in cui tutti bene o male ci riconosciamo, è fitta di pregiudizi, inutile nasconderselo. Fra cui anche il seguente: che con l’avvento della scrittura la voce, l’oralità, sia stata per sempre scacciata dai territori della poesia e della letteratura. Quasi che quei “venti caratteruzzi”, come li chiamava Galilei, avessero esercitato un tale strapotere da aver ammutolito le bocche di poeti, letterati e scrittori, e soprattutto quelle dei loro “lettori”. Ieri su Repubblica Luigi Manconi ha mostrato, al contrario, quanto la lettura ad alta voce possa risultare perfino superiore a quella silenziosa per ricchezza, espressività e sfumature. Non posso che confermare quanto è stato brillantemente esposto, non solo per essere anch’io un consumatore di audiolibri (curiosamente, proprio molti di quelli che Manconi cita), ma soprattutto perché esiste una cultura, anzi un mondo, che è lì per dimostrare quanto la voce, la parola parlata, non sia affatto un’ancella, o una schiava ammutolita, della letteratura, ma una sua compagna fedele: anzi un’attrice a pieno titolo del processo poetico, tanto che senza di lei la poesia non esisterebbe nemmeno. Il mondo che sto evocando è quello della Roma antica.
Il poeta o lo scrittore alle prese con la composizione di versi o prosa, noi moderni non riusciamo a pensarli se non chiusi in una stanza, seduti a una scrivania, con davanti una risma di fogli o la tastiera di un computer. Chi desideri arricchire ulteriormente il quadro potrà aggiungere tazze vuote, portacenere colmi di cicche qualora l’autore si ostini ancora a fumare, o pipe da oppio se al centro della tela sta Samuel Taylor Coleridge. Se c’è una cosa, però, che non potremmo aggiungere alla “scena primaria” della composizione letteraria moderna, sono proprio delle voci. A Roma però le cose non funzionavano nello stesso modo.
Prima che la commedia Andria andasse in scena, i magistrati preposti agli spettacoli teatrali ordinarono al poeta Terenzio di sottomettere l’opera al giudizio di Cecilio Stazio, autore più anziano e assai rispettato. Un moderno aspirante sceneggiatore avrebbe inviato all’affermato autore di script un testo da “leggere”, aspettando poi con ansia una telefonata che lo convocasse a Hollywood. Terenzio invece si recò a casa di Cecilio, durante la cena, e gli “recitò” il testo della commedia, riportandone un giudizio più che lusinghiero. Naturalmente si potrebbe pensare che l’opportunità di presentare oralmente quest’opera fosse stata motivata dal fatto che si trattava di teatro. Ma prendiamo il caso di Virgilio. Il poeta Giulio Montano, contemporaneo del nostro, soleva dire che «se avesse potuto rubare qualcosa a Virgilio, gli avrebbe sottratto la voce, il volto e la recitazione: i suoi versi infatti suonavano bene se a recitarli era lui, ma senza di lui erano vuoti e muti». Con tutto quello che ci sarebbe stato da rubare ai meravigliosi versi di Virgilio – come peraltro hanno fatto tutti, Dante compreso – Montano badava invece alla “voce” del poeta! Ciò può suonare sconcertante per noi, che Virgilio lo immaginiamo con in mano una carta e una penna, e lo sguardo rivolto verso il cielo, come nella celebre miniatura di Simone Martini; ma diventa molto meno sconcertante se ci si ricorda dei due giorni in cui, senza interruzione, Virgilio recitò tutte le Georgiche alla presenza di Augusto, dandosi il cambio con Mecenate quando la sua voce si indeboliva; o ci si rammenta della volta in cui il poeta lesse il sesto libro dell’ Eneide al cospetto di Augusto e Ottavia, provocandone la commozione. Non possiamo far altro che rassegnarci: per noi la poesia di Virgilio si presenta, unicamente e inevitabilmente, come una filza di versi, disposti su un foglio di carta, da leggere silenziosamente; per i contemporanei del poeta, però, quegli stessi versi si esplicavano pienamente solo allorché si facevano anche suono, voce, come diceva Giulio Montano. Che anzi, la pratica di “recitare” in pubblico le proprie opere non fu per Virgilio un semplice mezzo per renderle note, come si potrebbe pensare, ma faceva parte della composizione stessa: se è vero, come dice un suo biografo, che il poeta «recitava soprattutto le parti su cui era ancora in dubbio, per saggiare il giudizio dei presenti»; e anzi una volta «completò due versi ancora incompiuti mentre recitava, improvvisando».
Con questo siamo giunti a una pratica tipica della cultura romana in materia di poesia e letteratura, quella delle cosiddette recitationes. Si trattava di pubbliche occasioni in cui un autore recitava, o faceva recitare da parte di un lettore, la propria opera: per poi procedere alla sua rielaborazione dopo averne discusso con i presenti, dai quali ci si attendeva un intervento “attivo”. La poesia prendeva vita insomma all’interno di un milieu colto in cui si recitavano o si facevano recitare le proprie composizioni non solo per farle conoscere, ma per ricevere giudizi e commenti da parte del pubblico. A questo proposito il poeta Marziale ci mette anzi di fronte a un paradosso molto parlante riguardo al ruolo che gli ascoltatori esercitavano nella creazione della poesia: «se c’è qualcosa che mi piace nelle mie composizioni» diceva infatti «me l’ha dettato chi ascoltava». I ruoli si sono invertiti, a “dettare” versi non è il poeta, ma il pubblico che lo ascolta. Il fatto è che, come ci dice ancora Marziale in un’altra poesia, per comporre poesia si ha bisogno delle “orecchie” della Città: per questo il poeta, esiliato in provincia, continuava a rimpiangerle.