22 luglio 2019
Appunti su Boris Johnson
Boris Johnson (Alexander Boris de Pfeffel Johnson), nato a New York il 19 giugno 1964 (55 anni); cittadino britannico (già detentore di doppia cittadinanza britannica e statunitense, cui ha rinunciato nel 2016 per ragioni fiscali). Politico (Partito conservatore). Parlamentare del Regno Unito (dal 7 maggio 2015; già dal 2001 al 2008). Già segretario di Stato per gli Affari esteri e del Commonwealth (2016-2018). Già sindaco di Londra (2008-2016). Giornalista. Già direttore del settimanale The Spectator (2008-2015). «Le mie possibilità di diventare primo ministro sono all’incirca pari a quelle di trovare Elvis su Marte o che io mi reincarni in un’oliva» (Boris Johnson nel 2004) • «Il suo bisnonno era il turco Ali Kemal, poeta e politico liberale filo-occidentale assassinato quando era ministro degli Interni. Sposò Winifred, mezza svizzera e mezza inglese, che diede il suo cognome ai figli. Uno era Stanley, padre di Boris, ricercatore universitario, giornalista, intellettuale, politico diventato eurodeputato nel 1979. La mamma, Charlotte, era figlia del Lord liberale Fawcett, una famiglia con antenati ebrei lituani e nobili francesi. Oggi i Johnson contano 17 nazionalità diverse» (Giuseppe De Bellis). «Sua nonna discendeva per via illegittima da re Giorgio II, per cui il nostro Boris è imparentato con buona parte delle famiglie reali d’Europa (oltre che essere lontano cugino di David Cameron). […] Lui stesso si è definito “un melting pot umano”, con bisnonni cristiani, ebrei e musulmani. Il risultato finale: un mix tutto britannico di cosmopolitismo ed elitismo» (Luigi Ippolito). «Nasce a New York il 19 giugno del 1964 da genitori inglesi, Stanley Johnson e Charlotte Fawcett, allora rispettivamente ventitré e ventidue anni di età, oltreoceano per una borsa di studio vinta da Stanley, poeta e scrittore in erba e all’epoca fresco di laurea ad Oxford. Quel “Boris”, secondo nome con cui poi è diventato celebre (non in famiglia, dove per genitori e fratelli è sempre stato ed è tutt’ora semplicemente “Al”), è un omaggio di mamma e papà a Boris Litwin, un facoltoso russo di stanza in Messico, padre di una compagna di scuola di Stanley, il quale regalò a lui e alla giovane moglie un biglietto aereo di prima classe per tornare a New York, avendo i due deciso di avventurarsi in un viaggio a Città del Messico in autobus mentre Charlotte era all’ottavo mese inoltrato di gravidanza. “Non puoi tornare in autobus nelle tue condizioni”, disse Litwin. “Grazie – rispose Charlotte –. Qualsiasi cosa succederà, il mio bambino lo chiamerò Boris”. […] Pochi giorni dopo, Boris fu. Segue un’infanzia in Inghilterra, vissuta fra Oxford – dove i suoi tornano prima che Boris compia un anno per permettere a Charlotte di laurearsi – e Londra, presso la casa dei nonni materni, ramo della famiglia noto per le spiccate doti d’intelletto e l’impegno politico marcatamente liberal. Il nonno materno, l’avvocato di fama internazionale e membro della Commissione Europea per i diritti umani Sir James Fawcett, verrà ricordato in un obituary sul Times di Londra come “an intellectual colossus”» (Federico Sarica). «Fino agli otto anni era praticamente sordo, […] e ha dovuto subire otto interventi» (Nicholas Farrell). «Studioso e persino ordinato, soltanto negli anni di Eton e Oxford Alex diventa Boris, inizia a giocare a rugby, ad appassionarsi al latino e alla storia, a trasformarsi in un seduttore, di donne e di amici e poi di elettori, costruendo la sua fama di monello che dice sempre quel che pensa» (Paola Peduzzi). «È proprio a Eton, […] il prestigioso e austero collegio maschile […] dove da sempre […] si forma in età adolescenziale buona parte della classe dirigente inglese, […] che Johnson e Cameron incrociano per la prima volta i loro destini: David, di due anni più giovane, studente modello; […] Boris dapprima defilato (e ricordato dai vecchi colleghi più per la chioma che per la carriera scolastica e le medaglie al merito) poi sempre più in vista, a causa della sua poliedricità e delle sue doti performative – adorava recitare i classici, di cui si innamorò proprio a Eton, grazie al suo mentore di allora, il professor Hammond. È sullo storico giornale studentesco di Eton, The Chronicle, che sia Cameron che Johnson firmano i loro primi articoli. […] Dicevamo degli anni di Eton, cui seguono quelli al Balliol College, […] e da lì l’ingresso nelle redazioni: il Times, il Daily Telegraph e poi il settimanale The Spectator, di cui diventa direttore nel ’99» (Sarica). «Licenziato dal Times per essersi inventato una citazione, Johnson era passato al Telegraph e si era conquistato una reputazione di euroscettico come corrispondente da Bruxelles, criticando incessantemente la Ue» (Nicol Degli Innocenti). «Johnson letteralmente inventò un genere: la messa in ridicolo, tramite resoconti sarcastici, esagerati, spesso non accurati o addirittura falsi, delle istituzioni europee» (Sabrina Provenzani). «Rischiò l’espulsione dal Belgio quando maltrattò un poliziotto che gli fece un verbale e gli intimò: “La Loi c’est moi”. Lui rispose con un pezzo intitolato: “È vero ciò che dicono dei belgi”. L’incidente diplomatico che seguì fu il primo di una lunga serie. Il giovane Johnson dimostrò rapidamente un’immensa capacità di scrittura, frutto di un talento naturale consolidato con gli studi a Eton. Colpiva per il fervore thatcheriano e la conoscenza dei classici. Nelle pause del lavoro ingaggiava insoliti duelli letterari con l’allora corrispondente del Times, Michael Binyon. Il gioco consisteva nel recitare il primo verso d’una poesia pescata in secoli di repertorio britannico e vedere se l’altro sapeva andare avanti. Boris la prendeva seriamente. Aveva spesso con sé una raccolta dei poeti suoi connazionali con cui esercitava la portentosa memoria. Ostentava dimestichezza col latino e passione per l’Antica Roma oltre che per l’Italia. […] Vestiva abiti di marca perlomeno scuciti. Camminava a testa bassa. Era celebre per il senso dell’umorismo tagliente. […] In sala stampa era temuto e ammirato. Poneva lunghe domande, taglienti e salaci. Dimostrò di avere un’anima quando, durante un servizio nel quartiere a luci rosse di Anversa, esitò a lungo prima di entrare a intervistare una giovane prostituta dell’Est europeo. Irritò tutti, ma non litigò con nessuno. Era un europeo antieuropeo» (Marco Zatterin). «Margaret Thatcher lo elegge a suo giornalista preferito. Ma i suoi articoli al vetriolo contro la Commissione Delors contribuiscono a esacerbare quella spaccatura fra i conservatori britannici che dura ancora oggi. […] È tutto il suo modo di stare al mondo che è quanto meno disinvolto: celebre il ritardo con cui mandava i pezzi ai giornali, costringendo le redazioni a lunghe serate per metterli in pagina. Per non parlare delle multe accumulate quando provava automobili per conto della rivista Gq. E le cose non migliorano quando diventa direttore dello Spectator, dove lo ricordano per le assenze, le riunioni mancate e il lavoro lasciato fino all’ultimo momento» (Ippolito). Eletto nel 2001 alla Camera dei Comuni tra le file dei conservatori, Johnson fece ben presto parlare di sé per alcune sue controverse prese di posizione. «L’onorevole Johnson è riuscito a insultare intere cittadinanze e Stati, dall’Inghilterra all’Oceania. Cominciò con Liverpool, sostenendo, mentre la gente nel 2004 era in lutto per l’assassinio del concittadino Ken Bigley ostaggio in Iraq, che i suoi abitanti “sguazzano nel vittimismo”; poi passò a Portsmouth, glorioso porto nel Sud, definendola “culla di drogati, obesi, falliti e deputati laburisti”. Non ha trascurato escursioni internazionali, definendo cannibali gli abitanti di Papua Nuova Guinea. Ha trovato modo di mettersi nei panni di un parlamentare della città santa iraniana di Qom, suggerendo che avrebbe “senz’altro ritenuto suo dovere patriottico dotare la nazione di armi nucleari”. Quella volta non fu il regime di Teheran a protestare chiedendo le sue dimissioni, ma i suoi colleghi di Westminster. Boris ha resistito, chiedendo scusa quando era proprio necessario ma mantenendo il punto: al governo di Papua ha ricordato che storicamente il fenomeno dell’antropofagismo era tutt’altro che estraneo al Paese. Ma, oltre alla lingua, ci sono i fatti. Di lui si ricorda lo scoop dell’intervista a Silvio Berlusconi. Con la complicità di qualche bottiglia di vino fresco, un’estate si fece confidare dal Cavaliere che tutto sommato Mussolini non aveva ammazzato nessuno e i magistrati sono squilibrati mentali. […] Si è imbarcato in diverse storie extraconiugali. Un paio di volte è stato scoperto. Prima, quando era direttore della rispettata rivista The Spectator, si lasciò conquistare da una sua nobile redattrice, Petronella, figlia di Lord Wyatt. Cercò di negare tutto, anche l’evidenza. Ma fu costretto a dimettersi dalla carica di ministro ombra per i Beni culturali e ad abbandonare le ambizioni di diventare leader del partito. Recuperato da David Cameron, che lo ha nominato portavoce per l’istruzione universitaria, Boris non ha resistito alle tentazioni. […] È stato fotografato con una specie di cappuccio in testa, per nascondere goffamente l’inconfondibile capigliatura color paglia, mentre entrava e usciva dall’appartamento di una giovane cronista. Questa volta Cameron lo ha graziato; ma il deputato ha dovuto più o meno inginocchiarsi di fronte alla moglie Marina» (Guido Santevecchi). Poi, la grande occasione: in vista delle elezioni londinesi del 2008, Johnson fu candidato dai conservatori quale successore del sindaco uscente, il laburista Ken Livingstone. «Nessuno aveva accettato di sfidare “Ken il rosso”, […] sorta di imperatore della City, elogiato per aver ridotto il traffico e l’inquinamento e per aver conquistato le Olimpiadi del 2012. Anche Sir John Major, ex primo ministro, ha rifiutato, preferendo continuare a dedicarsi ai suoi studi storici sul cricket. Così Cameron ha pensato di rivolgersi a Boris, il vecchio compagno di studi a Eton e Oxford» (Santevecchi). «Durante la prima campagna elettorale, nel 2008, c’era una storiella che circolava e spiegava al millimetro Johnson: “Boris è una persona intelligente che si finge buffone, mentre Ken Livingstone è un buffone che si finge intelligente”» (De Bellis). «Johnson viene eletto primo cittadino con oltre un milione e centomila voti; un trionfo, se si pensa a cosa rappresentava all’epoca uno come Livingstone per la città. Del Johnson sindaco […] – rieletto per un secondo mandato – si è detto tutto e pure di più: le sue battaglie per modernizzare autobus e metropolitane, un’iconografia fatta di pedalate, post-ecologismo, editoriali sul Telegraph a getto continuo (non c’è stato verso di fargli abbandonare la penna – scrive libri regolarmente –, e men che meno la professione giornalistica; unico risultato ottenuto da chi nel suo entourage glielo consigliava è stato quello di fargli devolvere parte dello stipendio di columnist alle scuole di giornalismo e all’insegnamento del latino, altro pallino di una vita), accuse di inconsistenza politica, l’ossessione per le troppe tasse e la troppa criminalità, le gaffe, le Olimpiadi, e ovviamente le sue proverbiali polemiche con la sinistra, i colleghi giornalisti, i sindacati, il moderatismo di alcuni amici conservatori» (Sarica). «Anche in questo ruolo si fa subito riconoscere: quando va a Pechino a raccogliere la bandiera olimpica, fa infuriare i cinesi perché si presenta con la giacca sbottonata. Eppure i londinesi lo apprezzano, anche perché da sindaco della capitale si sposta su posizioni più liberali, in sintonia con lo spirito della metropoli» (Ippolito). Grazie al successo delle Olimpiadi londinesi del 2012, l’astro politico di Johnson riprese con nuovo slancio la propria ascesa, mentre quello di Cameron, dal 2010 primo ministro britannico, sembrava iniziare ad appannarsi. «Più popolare, più divertente, più buffone, più geniale del premier: un’ovazione ogni volta che il suo volto veniva mandato in onda sugli schermi dello stadio olimpico. Boris qui, Boris lì. Ovunque. Il capello arruffato, la giacca sgualcita, la camicia sempre fuori posto. Uno sbagliato che diventa giusto. Piace, Johnson. L’hanno spesso dipinto come un clown, un mezzo matto capace di far divertire più che di governare. Sarà vero, eppure […] l’Inghilterra s’è chiesta se non sia davvero l’uomo di domani. Rimbalza sui media e finisce in America, poi ovunque. Time […] lo raccontava così: “Il sindaco di Londra è il più grande vincitore delle Olimpiadi”. Un simbolo locale diventato globale. Ha sfruttato l’occasione: il governo era in difficoltà, Cameron in ribasso attaccato dai giornali che gli hanno chiesto di raccontare come riuscirà a recuperare i soldi che il Regno Unito ha speso per le Olimpiadi. Johnson s’è l’è cavata con l’ironia sulla sua goffaggine, sulle presunte gaffe, sulle altrettanto presunte cadute di stile. Poi ha rilanciato: eccomi, sono il sindaco di una città che ha fatto una cosa incredibile. È un po’ la storia della sua strana amicizia con Cameron: l’altro preciso, bravo, puntuale e però sempre un po’ in difficoltà; lui scombinato, arruffone, ritardatario e però sempre in grado di ribaltare il tavolo. […] Lo supporta l’Economist, lo supporta Murdoch, lo supporta un bel pezzo di Inghilterra che lo vede come il futuro. “Uno che sa gestire Londra, non ci mette niente a gestire tutto il resto”, ha scritto il Times» (De Bellis). Fu però solo nel febbraio del 2016 che Johnson, dopo essersi fatto rieleggere parlamentare mantenendo la carica di sindaco, decise di compiere la propria mossa, cogliendo l’occasione offertagli dall’imminente referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea (23 giugno 2016), che lo stesso Cameron aveva fortemente voluto, confidando però in una vantaggiosa ricontrattazione della permanenza. «Il primo ministro aveva appena concluso i negoziati con l’Europa e, tornato a casa, lo voleva chiamare per renderlo partecipe delle prossime mosse in vista del referendum ancora da convocare. Lui, Boris Johnson, era partito per qualche giorno di meditazione nel suo ritiro nell’Oxfordshire. In verità, stava meditando sulla posizione da assumere: con o contro il mio caro Cameron? Al Daily Telegraph aveva preannunciato che presto avrebbe scritto un articolo sul suo pensiero. Boris Johnson staccò il telefono e si rese irreperibile al vecchio compagno di studi e di baldorie. Buttò giù due articoli. Uno a favore dell’Europa. E uno contro. Era il suo referendum personale, privato, segreto. Due calcoli di convenienza, e disse no: no all’Europa. Se Cameron fosse caduto, la strada per Downing Street si sarebbe aperta. Passarono le ore, e silenzio. Poi, quando mancavano cinque minuti alla consegna del pezzo al Daily Telegraph, alzò la cornetta e comunicò la lieta novella al suo leader, che immaginava di averlo con sé nella battaglia. La reazione di Cameron, parole di testimoni, fu da film dell’orrore. E lì finì il loro sodalizio» (Fabio Cavalera). Da allora quello di Johnson fu «il volto della campagna per la Brexit. Certo, la questione dell’uscita dalla Ue era stata imposta all’ordine del giorno da Nigel Farage e dal suo Ukip, il partito populista eurofobico: ma, se fosse stato solo per loro, la maggioranza dei britannici non si sarebbe mai convinta. È stato lo “star power” di Johnson, la sua oratoria trascinante, la sua personalità a fare la differenza: senza di lui, la Brexit non si sarebbe mai avverata» (Ippolito). All’indomani dell’inattesa vittoria referendaria dei fautori della cosiddetta Brexit, quindi, «sembrava lui il successore naturale di David Cameron, il premier che aveva clamorosamente perso la scommessa sull’Europa. Ma all’ultimo momento Boris era stato pugnalato alle spalle dai suoi stessi alleati di partito, che non si fidavano di un personaggio così sopra le righe: e lo scettro era finito nelle mani più tranquille di Theresa May, che prometteva una transizione senza scosse traumatiche. A Johnson era stata offerta la poltrona di ministro degli Esteri: una mossa a sorpresa, dettata più che altro dalla necessità di neutralizzarlo tenendolo a bordo. […] Da ministro degli Esteri Johnson ha fatto campagna per la “global Britain”: perché la sua visione della Brexit non è affatto insulare e retrograda. Al contrario, la vive come l’opportunità per la Gran Bretagna di tornare a lanciarsi nel mondo, libera dalle pastoie europee, recuperando in qualche modo la grandezza imperiale» (Ippolito). Avendo abbandonato l’esecutivo il 9 luglio 2018 a causa del suo disaccordo con l’atteggiamento del primo ministro, ritenuto troppo debole e condiscendente nei confronti dell’Unione europea, Johnson è uscito intonso dal fallimento delle trattative per la Brexit che ha causato le dimissioni della May (7 giugno 2019), e attualmente risulta pertanto il suo più probabile successore a Downing Street, come ha peraltro esplicitamente auspicato il presidente statunitense Donald Trump. «Johnson, questa volta, ha scelto la strategia […] per lui innaturale ma forse vincente: calma e compostezza. Dopo aver detto di tutto per tre anni, dopo aver fatto da distributore automatico di fantasie sulla gestione dell’uscita dall’Unione europea – la “Unicorn Brexit”, quella magica e inesistente, è biondissima come Boris – Johnson ha organizzato un team di consiglieri fidati, di cui uno, Lee Cain, è dedicato a tenere a bada il proprio capo (pare che abbia chiesto rinforzi)» (Peduzzi). Il 12 giugno 2019, «alla prima votazione all’interno del gruppo parlamentare conservatore, Johnson ha ottenuto ben 114 voti su 313: il secondo classificato, il ministro degli Esteri Jeremy Hunt, era a grande distanza con soli 43 voti, seguito dal ministro dell’Ambiente Michael Gove con 37. Con la votazione […] sono stati eliminati tre dei dieci contendenti iniziali: e fra loro le uniche due donne in lizza» (Ippolito). «Johnson ha detto che la priorità è attuare Brexit entro il 31 ottobre e che il governo deve essere pronto a uscire anche senza un accordo se le trattative con l’Unione europea non andranno a buon fine. Non ha neanche escluso di esautorare il Parlamento per impedire una votazione contro “no deal” [cioè, appunto, contro l’ipotesi di un’uscita non concordata dall’Unione europea – ndr], proposta altamente controversa. […] Salvo colpi di scena, sembra certo che Johnson sarà nella rosa finale di due nomi tra i quali dovranno scegliere gli oltre 120 mila membri del Partito conservatore in un voto postale il mese prossimo. L’annuncio di chi sarà il nuovo leader dei Tories e il prossimo premier britannico verrà fatto entro fine luglio, prima della chiusura estiva del Parlamento» (Degli Innocenti) • «Boris Johnson rischia il processo per le menzogne sulla Brexit. Con una decisione senza precedenti, la giudice distrettuale Margot Coleman ha deciso di dar corso a una querela privata presentata […] contro l’ex sindaco di Londra, che si vede accusato di “cattiva condotta in pubblico ufficio”: un reato raro, che risale al 1200 e che può essere punito addirittura con l’ergastolo. Si tratta di uno sviluppo straordinario nella corsa alla successione di Theresa May: perché Boris Johnson è il favorito e potrebbe ritrovarsi imputato quando sarà ormai già diventato primo ministro. La querela è stata sporta da Marcus Ball, un attivista di Brexit Justice Limited, che è riuscito a raccogliere tra il pubblico 200 mila sterline per sostenere la sua azione legale. La “menzogna”in questione è l’ormai celebre asserzione dei sostenitori della Brexit – dipinta a caratteri cubitali su autobus rossi durante la campagna referendaria del 2016 – secondo cui la Gran Bretagna paga 350 milioni di sterline alla settimana alla Ue: fondi che invece potrebbero essere destinati al servizio sanitario nazionale. Un’affermazione ripetuta più volte a quell’epoca da Boris Johnson, che era il leader della campagna per la Brexit, ma che era del tutto priva di fondamento. La giudice Coleman non ha deliberato sui fatti in questione, ma ha ritenuto che ci fossero elementi sufficienti per non lasciar cadere il caso, come invece chiesto dai legali di Johnson: e ha dunque deciso che l’ex sindaco di Londra dovrà presentarsi in tribunale. […] In quella sede potrebbe esser deciso il rinvio a giudizio di Boris: ma il processo, se si terrà, non si aprirà probabilmente prima di altri sei mesi. Ossia quando Johnson potrebbe essersi già insediato a Downing Street» (Ippolito) • Due matrimoni alle spalle: sposatosi nel 1987 con Allegra Mostyn-Owen, figlia di uno storico dell’arte britannico e di una scrittrice italiana, ne divorziò nel 1993, appena due settimane prima di sposare l’avvocato Marina Wheeler, già incinta e prossima al parto della loro prima figlia, cui seguirono un’altra femmina e due maschi nati dal matrimonio, oltre a un’altra figlia femmina nata dalla relazione extraconiugale di Johnson con una consulente d’arte (due, invece, le gravidanze abortite da Petronella Wyatt, la giornalista dello Spectator con cui Johnson aveva una relazione quando dirigeva il settimanale); esasperata dai reiterati tradimenti, nel 2018 la Wheeler ha cacciato di casa il marito, avviando le pratiche per il divorzio. La causa scatenante era stata la nuova fiamma di Johnson, Carrie Symonds (classe 1988). «È a Carrie che si deve la trasformazione di Boris da clown pittoresco, noto per la zazzera bionda scompigliata ad arte e i vestiti stropicciati, in un impeccabile primo ministro in pectore. Lei controlla attentamente la sua immagine e lo tiene lontano dalle potenziali gaffe (per le quali è celebre): e può farlo perché è una professionista del settore, essendo stata direttrice delle comunicazioni per il Partito conservatore, ruolo che l’aveva portata, […] a soli 30 anni, a essere nominata seconda persona più influente nelle pubbliche relazioni in tutta la Gran Bretagna. Carrie ha rivoltato Boris come un calzino. Innanzitutto gli ha fatto tagliare i capelli: pare che lui all’inizio abbia opposto resistenza, ma alla fine si è dovuto arrendere. E così, al posto dei ciuffi spioventi e disordinati, ora esibisce un taglio corto e curato: il primo, importante segnale di quanto lei abbia influenza su di lui. Poi è arrivata la dieta. Lei è una millennial ambientalista e salutista, e ha convinto Boris a tagliare drasticamente il consumo di carne. Ha addirittura provato a farlo diventare vegano, ma questo era chiaramente troppo: Boris ha resistito tre giorni all’esperimento e poi è crollato. Ad ogni modo, in sole due settimane ha perso più di cinque chili (rispetto ai 105 di partenza) e Carrie continua a tenere sott’occhio la bilancia. Boris ha anche dovuto dire addio alle sbronze. Era noto per potersi scolare un’intera bottiglia di vino a cena, magari dopo diversi aperitivi: adesso al massimo gli è concesso un bicchiere a pasto. Il taglio all’alcol ha migliorato il suo aspetto complessivo, dando alla sua pelle un aspetto più luminoso e stirato (anche se qualcuno ha notato maliziosamente che sono pure scomparse le rughe dalla fronte, forse grazie a qualche aiutino). Carrie gli fa pure fare ginnastica. È vero che anche in passato Boris amava fare jogging e andare in bicicletta: ma adesso pare che i due si allenino assieme con i pesi nella casa che condividono a Londra sud, forse anche grazie ai consigli di un personal trainer. Il risultato è che Boris entra ora a pennello in abiti di sartoria dal taglio impeccabile che lei sceglie personalmente. La nuova immagine di Johnson era evidente al lancio della sua campagna, […] dove Carrie è apparsa in abito molto sobrio, da futura first lady. Perché sembra certo che i due si sposeranno non appena lui avrà ottenuto il divorzio da Marina» (Ippolito) • «Chi lo conosce dice soltanto: resistente. Boris Johnson è uno che resiste, che si piega quando deve, che urla quando può, ma che non cede, non s’abbatte, uno spirito allegro, un ottimista, una rockstar della politica, controverso, geniale, sconsiderato. […] Boris è considerato inaffidabile e indomabile, la versione britannica di Donald Trump, stessa bionditudine (ma Johnson non è cotonato) e stessa pericolosa imprevedibilità. […] Ma, a differenza di Trump, e a differenza di quel che crede la stragrande maggioranza della gente, condizionata da una copertura mediatica invero ostile, Boris Johnson non è affatto un improvvisatore. Imponderabile, certo, ma erudito» (Peduzzi). «Mentitore di rara specie e qualità, non appartiene alla schiera degli uomini viscidi e sfuggenti che tirano il sasso e nascondono la mano. È un eccentrico burlone per compiacere i giornali e le telecamere. E, del resto, sa bene che cosa significhi la manipolazione comunicativa, essendo un giornalista-commentatore di primo livello. Ma è soprattutto un calcolatore freddo e spietato che sa ciò che vuole e come lo vuole. Il suo difetto e la sua virtù principali sono presto riassunti: prende l’avversario per il naso e per le corna» (Cavalera). «Boris si comporta spesso come un clown, ma non lo è. Anzi. Mi ricorda un po’ il famoso detective della tv americana, il tenente Colombo. Il suo modo di essere un po’ trasandato – con quei capelli biondi disordinati e i pantaloni macchiati dall’olio della sua bici, e con la prontezza di prendere in giro se stesso e di divertire il pubblico – nasconde un cervello geniale. E quel suo modo di essere piace molto alla gente comune, perché molto più naturale, più onesto, rispetto a quello del tipico politico che sembra un fighetto clonato» (Farrell). «Johnson crede poco in Bruxelles e molto nella geografia. È un conservatore moderno. Uno che dall’alto di una vita sconclusionata non pretende di trasmettere valori, ma ne riconosce l’esistenza. […] Quando c’è da giocarsi qualcosa, […] non sbaglia. Non fa battute, non fa gaffe, non fa nulla che possa metterlo in difficoltà. Il clown esce dopo, a cose fatte, quando c’è da raccontare alla gente che, in fin dei conti, tra lui e loro la differenza è poca. Anche se lui ha studiato a Eton e poi a Oxford, anche se lui è il più grande studioso britannico di Roma, anche se lui è cresciuto in un ambiente colto e snob. È la capacità di capire chi hai di fronte e chi ti vota» (De Bellis) • «Raccontano che una volta sia stato visto entrare nei bagni di una conferenza tutto a puntino e inamidato. È andato davanti allo specchio, si è scompigliato la zazzera bionda e ha allentato il nodo della cravatta, mormorando agli astanti: “Ho un’immagine da mantenere!”» (Ippolito).
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Luigi Ippolito, Corriere della Sera 23/7
Quando era bambino, aveva proclamato di voler diventare «il re del mondo». Adesso ce l’ha fatta (più o meno): stamattina Boris Johnson verrà eletto alla guida del Partito conservatore britannico e domani si insedierà a Downing Street quale nuovo primo ministro, al posto della dimissionaria Theresa May.
Ma in realtà il nuovo leader del Regno Unito avrebbe dovuto chiamarsi Alexander Kemal: perché questo era il cognome del bisnonno turco, prima che la famiglia decidesse di adottare il più inglese Johnson. E anche Boris è in realtà il suo secondo nome: per i suoi familiari lui è sempre stato, ed è ancora, semplicemente Al. Boris Johnson è un nome d’arte, un vestito di scena, un personaggio inventato per venire a capo di un’infanzia caotica e fuori dal comune.
I Johnson sono un clan super unito, quattro fratelli, tutti ultra-intelligenti e ultra-biondi, stretti attorno al patriarca Stanley: che ha instillato in loro l’ambizione per il successo e uno spirito iper-competitivo. Lui stesso era stato un allievo di Oxford e lì aveva vinto il prestigioso premio studentesco di poesia, lo stesso conquistato in passato da Oscar Wilde; così come a Oxford aveva studiato la moglie Charlotte, una pittrice di talento.
Ma Stanley era un incallito dongiovanni e i due divorziarono nel 1979, quando Al-Boris aveva solo 15 anni: lei cadde in depressione e poco dopo le venne diagnosticato il Parkinson. Un trauma che avrebbe segnato l’animo dei figli.
Al-Boris era nato a New York e nei primi 14 anni di vita aveva già cambiato casa 32 volte attraverso due continenti. Ma i Johnson non navigavano nell’oro: e Al venne ammesso a Eton, il college più esclusivo d’Inghilterra, solo grazie a una borsa di studio. Lui era infatti uno dei King’s Scholars , gli scolari del Re, i 70 allievi che vengono selezionati ogni anno fra i ragazzi più intelligenti del Regno e mantenuti grazie al lascito fatto da Enrico VI nel 1440: loro alloggiano in un dormitorio separato e vestono anche in maniera diversa. Gli altri, i ricchi che pagano la retta, sono gli Oppidans : gli Scholars li considerano scemi presuntuosi, mentre gli Oppidans snobbano i «poveri» Scholars . Per capirci, David Cameron, anche lui allievo di Eton a quei tempi, era un Oppidan : e questo spiega la rivalità con lo Scholar Johnson. E la psicologia di quest’ultimo.
Il piccolo Alexander, fino all’età di otto anni, era stato quasi sordo. Un tratto che lo aveva isolato dagli altri bambini e che aveva acuito la sua sensibilità e la sua intelligenza. Per sopravvivere, a Eton aveva cominciato a sviluppare la sua personalità eccentrica e vistosa, facendo infuriare i professori per il suo atteggiamento «disgraziatamente arrogante». Come dicevano i suoi compagni, era convinto che le regole a lui non si applicassero. Ed è allora che cambiò il suo nome in Boris, appellativo molto più ad effetto.
Anche a Oxford, Johnson riuscì ad accedere grazie a una borsa di studio. Ma il suo grande rammarico fu di non essere risuscito a laurearsi col massimo dei voti: passò il pomeriggio a piangere in un cinema. E quando il fratello minore Jo prese la lode, la sorella Rachel commentò: «E adesso chi la dà la brutta notizia a Boris?».
A Oxford si candidò a presidente dell’Unione studentesca: non fece campagna, convinto di dover vincere per il solo fatto di essere Boris. Perse. Allora decise di riprovarci, questa volta contando su uno stuolo di sostenitrici adoranti (aveva scoperto il potere sulle donne che dà il potere): e conquistò lo scettro. Era nato Boris Johnson.
***
Nicol Degli Innocenti, Il Sole 24 Ore 23/7
Ma in realtà il nuovo leader del Regno Unito avrebbe dovuto chiamarsi Alexander Kemal: perché questo era il cognome del bisnonno turco, prima che la famiglia decidesse di adottare il più inglese Johnson. E anche Boris è in realtà il suo secondo nome: per i suoi familiari lui è sempre stato, ed è ancora, semplicemente Al. Boris Johnson è un nome d’arte, un vestito di scena, un personaggio inventato per venire a capo di un’infanzia caotica e fuori dal comune.
I Johnson sono un clan super unito, quattro fratelli, tutti ultra-intelligenti e ultra-biondi, stretti attorno al patriarca Stanley: che ha instillato in loro l’ambizione per il successo e uno spirito iper-competitivo. Lui stesso era stato un allievo di Oxford e lì aveva vinto il prestigioso premio studentesco di poesia, lo stesso conquistato in passato da Oscar Wilde; così come a Oxford aveva studiato la moglie Charlotte, una pittrice di talento.
Ma Stanley era un incallito dongiovanni e i due divorziarono nel 1979, quando Al-Boris aveva solo 15 anni: lei cadde in depressione e poco dopo le venne diagnosticato il Parkinson. Un trauma che avrebbe segnato l’animo dei figli.
Al-Boris era nato a New York e nei primi 14 anni di vita aveva già cambiato casa 32 volte attraverso due continenti. Ma i Johnson non navigavano nell’oro: e Al venne ammesso a Eton, il college più esclusivo d’Inghilterra, solo grazie a una borsa di studio. Lui era infatti uno dei King’s Scholars , gli scolari del Re, i 70 allievi che vengono selezionati ogni anno fra i ragazzi più intelligenti del Regno e mantenuti grazie al lascito fatto da Enrico VI nel 1440: loro alloggiano in un dormitorio separato e vestono anche in maniera diversa. Gli altri, i ricchi che pagano la retta, sono gli Oppidans : gli Scholars li considerano scemi presuntuosi, mentre gli Oppidans snobbano i «poveri» Scholars . Per capirci, David Cameron, anche lui allievo di Eton a quei tempi, era un Oppidan : e questo spiega la rivalità con lo Scholar Johnson. E la psicologia di quest’ultimo.
Il piccolo Alexander, fino all’età di otto anni, era stato quasi sordo. Un tratto che lo aveva isolato dagli altri bambini e che aveva acuito la sua sensibilità e la sua intelligenza. Per sopravvivere, a Eton aveva cominciato a sviluppare la sua personalità eccentrica e vistosa, facendo infuriare i professori per il suo atteggiamento «disgraziatamente arrogante». Come dicevano i suoi compagni, era convinto che le regole a lui non si applicassero. Ed è allora che cambiò il suo nome in Boris, appellativo molto più ad effetto.
Anche a Oxford, Johnson riuscì ad accedere grazie a una borsa di studio. Ma il suo grande rammarico fu di non essere risuscito a laurearsi col massimo dei voti: passò il pomeriggio a piangere in un cinema. E quando il fratello minore Jo prese la lode, la sorella Rachel commentò: «E adesso chi la dà la brutta notizia a Boris?».
A Oxford si candidò a presidente dell’Unione studentesca: non fece campagna, convinto di dover vincere per il solo fatto di essere Boris. Perse. Allora decise di riprovarci, questa volta contando su uno stuolo di sostenitrici adoranti (aveva scoperto il potere sulle donne che dà il potere): e conquistò lo scettro. Era nato Boris Johnson.
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Nicol Degli Innocenti, Il Sole 24 Ore 23/7
Alexander Boris de Pfeffel Johnson sta per farcela. L’uomo politico più popolare e più criticato, più riconoscibile e più controverso del Regno Unito sta per diventare leader del partito conservatore e premier britannico. Il percorso che lo ha portato sulla soglia di Downing Street non è stato lineare, transitando dal giornalismo prima di approdare alla politica.
Nato a New York, cresciuto a Bruxelles, dove il padre Stanley era uno dei primi eurocrati britannici, ha una famiglia cosmopolita che vanta antenati francesi, tedeschi e turchi e un bisnonno che era ministro dell’Interno dell’Impero Ottomano.
Gli studi sono stati invece tipicamente inglesi, prima a Eton, la scuola privata più esclusiva, e poi all’Università di Oxford, dove assieme al suo amico e poi rivale David Cameron aveva fatto parte del Bullingdon Club, un gruppo di ricchi e privilegiati rampolli dell’élite.
Ingaggiato dal Times come giornalista, era stato licenziato in tronco per essersi inventato una citazione ma era stato subito assunto dal Daily Telegraph, il quotidiano conservatore. Mandato a Bruxelles come corrispondente, si era conquistato la reputazione di euroscettico con le incessanti critiche ai presunti eccessi e sprechi della Ue.
Detestato dai colleghi giornalisti e dai funzionari Ue per la sua serie di articoli sensazionali spesso inventati di sana pianta, era però amato dai lettori conservatori che trovavano in ogni sua colorita e improbabile storia la conferma dei loro pregiudizi contro la Ue.
Dopo uno schieramento così plateale, il passaggio in politica sembrava obbligato, seguendo le orme del suo grande eroe, Winston Churchill. Diventato deputato conservatore nel 2001, tre anni dopo era stato licenziato come vicepresidente del partito da Michael Howard, allora leader Tory, per avere mentito su una relazione extra-coniugale e la nascita di una figlia illegittima. La sua caotica vita personale non lo ha però danneggiato.
Nel 2008 era stato eletto sindaco di Londra, città tradizionalmente laburista, regalando ai Tories la prima importante vittoria da oltre dieci anni. Nel 2012, sull’onda del successo delle Olimpiadi di Londra, era stato eletto per un secondo mandato. Il periodo da sindaco lo ha reso popolare e riconoscibile, una presenza costante sulla sua bici per le vie della capitale, gioviale e affabile, pronto a fermarsi a fare due chiacchiere con qualsiasi turista o tassista.
Nel 2015 aveva annunciato la decisione di candidarsi alle elezioni, ed era stato eletto deputato, diventando ministro senza portafoglio nel secondo Governo Cameron. Quando il premier aveva indetto il referendum sulla Ue, Boris all’inizio aveva titubato. La sua decisione di schierarsi a favore di Brexit aveva poi galvanizzato la campagna anti-Ue.
Da sindaco internazionalista di una città aperta come Londra, Johnson durante la campagna elettorale per il referendum si era spostato decisamente a destra. Era stato criticato per avere paragonato la Ue alla Germania nazista per la sua ambizione di creare «un superstato a tutti i costi». Aveva fatto dichiarazioni infiammatorie sull’immigrazione e dichiarato prossimo l’ingresso della Turchia nella Ue.
Von der Leyen, la Commissione nasce fragile. Decisivi i voti dei Cinque stelle
Aveva notoriamente affermato che dopo Brexit i 350 milioni di sterline che ogni settimana Londra versa a Bruxelles sarebbero stati spesi per il servizio sanitario nazionale. In un intervento più unico che raro il responsabile delle Statistiche ufficiali del Regno aveva accusato Johnson di un «chiaro abuso dei dati ufficiali», ricordando che 350 milioni di sterline è la cifra lorda che non tiene conto dei rimborsi versati a Londra e di tutti i finanziamenti Ue destinati alla Gran Bretagna.
Troppo tardi: la scritta a caratteri cubitali sulla fiancata del bus elettorale aveva colpito nel segno, conquistando abbastanza voti da cambiare l’esito previsto del referendum.
Dopo la vittoria a sorpresa di Brexit e le immediate dimissioni di Cameron, Johnson sembrava essere in pole position per diventare premier. Il giorno prima dell’annuncio della sua discesa in campo, però, Michael Gove, amico dei tempi di Oxford e leader con lui della campagna anti-Ue, lo aveva pugnalato alla schiena dichiarando la sua candidatura a premier. Il giorno dopo Johnson si era ritirato, decisione di cui poi per sua stessa ammissione si è pentito.
Theresa May era stata incoronata premier dopo il ritiro di tutti gli altri contendenti e a sorpresa, per tenersi buoni i Brexiteer, aveva nominato Johnson ministro degli Esteri. Neanche i suoi sostenitori definiscono un successo i suoi due anni al Foreign Office, caratterizzati da una serie di gaffe. Politici e diplomatici stranieri sono rimasti esterrefatti per la sua superficialità e approssimazione, per il suo palese disinteresse, per la sua mancanza di diplomazia. Solo il presidente americano Donald Trump lo ha coperto di lodi.
La ragione è che l’incarico agli Esteri non interessava affatto a Johnson, che pensava solo a Brexit. Dopo molte critiche alla strategia perdente della May ha dato le dimissioni da ministro nel luglio 2018 per protesta contro l’arrendevolezza della premier verso Bruxelles. «Il sogno di Brexit sta morendo», ha spiegato.
A questo punto, esattamente un anno fa, è iniziata la svolta sia nella vita pubblica che in quella privata. Dopo 25 anni di matrimonio ha divorziato dalla seconda moglie Marina, che aveva tollerato numerose scappatelle. Per mesi non si è fatto vedere in giro, eclissandosi per reinventarsi e mettere a punto una strategia vincente.
Con l’aiuto della sua nuova compagna Carrie Symonds, esperta di PR, e dello stratega australiano Lynton Crosby, suo consigliere quando era sindaco di Londra, Johnson al momento giusto è riemerso, presentandosi nella nuova veste di persona seria e politico credibile.
La metamorfosi è stata studiata per portarlo al successo. Cambiato sia nell’aspetto - taglio di capelli ordinato invece della zazzera di paglia, aspetto curato invece degli abiti spiegazzati e cravatte macchiate – sia nel comportamento - Johnson, noto in passato per una capacità di attenzione assai limitata, ora si concentra e dedica tutto il suo tempo alla missione.
Per settimane, sapendo che la May aveva i giorni contati, ha incontrato deputati conservatori a colazione, pranzo, cena e caffè, anche sedici al giorno, per convincerli a sostenerlo. Un cortaggiamento serrato e metodico che ha dato i suoi frutti. Uno alla volta, Johnson li ha convinti.
La maggioranza dei conservatori ritiene che Boris sia l’unica persona in grado di attuare Brexit anche se nessuno sa come. I dettagli della sua strategia sono vaghi. Ha fatto scattare i campanelli di allarme a Bruxelles con la sua minaccia di non pagare il conto del divorzio da 39 miliardi di sterline. Ha ribadito la determinazione a uscire il 31 ottobre «con o senza un accordo», ma anche assicurato di voler trattare con la Ue. In caso di fallimento – probabile dato che la Ue ha ribadito che i negoziati sono chiusi – il Parlamento farà di tutto per impedire un no deal.
Boris non ha escluso di esautorare Westminster, di fatto chiudendo la sessione parlamentare, ma sarebbe una strategia anti-democratica ad alto rischio. Diversi notabili Tory come Ken Clarke e Philip Hammond si sono detti disposti a votare la sfiducia a qualsiasi Governo che tentasse di ignorare il Parlamento e imporre un no deal.
Forte della sua popolarità, Johnson potrebbe invece indire elezioni anticipate per ottenere una solida maggioranza in Parlamento. I Tories ritengono che Johnson sia il solo capace di contrastare l’ascesa del Brexit Party a destra e arginare l’opposizione laburista a sinistra, incassando abbastanza voti da portare il partito alla vittoria.
Arrivare a Downing Street è un grande successo per un uomo spesso descritto come un buffone, ma Johnson non ha tempo di riposare sugli allori. Le aspettative dei suoi sostenitori sono enormi. Le vere difficoltà iniziano ora che deve mantenere le molte promesse fatte.
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IL POST 23/7 –
Da mercoledì Boris Johnson, ex sindaco di Londra, ex ministro degli Esteri e uno dei politici più eccentrici e imprevedibili d’Europa, sarà il nuovo primo ministro del Regno Unito. Johnson è stato eletto capo del Partito conservatore dopo un processo durato settimane e iniziato con le dimissioni di Theresa May. Da lui nessuno sa bene cosa aspettarsi, soprattutto i capi di stato e di governo dell’Unione Europea, che nei prossimi mesi dovranno averci a che fare per decidere cosa ne sarà di Brexit.
Johnson, il cui nome completo è Alexander Boris de Pfeffel Johnson, ha 55 anni e una storia personale e politica molto particolare.
Nacque nel 1964 a New York, negli Stati Uniti, da una famiglia britannica dell’alta borghesia «molto estroversa e competitiva», ha scritto Associated Press: tra i suoi antenati ci fu anche Ali Kemal, giornalista, poeta, e per tre mesi ministro di uno dei governi dell’Impero ottomano. Rachel, la sorella di Johnson, ha raccontato che l’aspirazione del fratello da piccolo era quella di diventare il «re del mondo». Johnson frequentò le scuole più esclusive, come l’Eton College e l’Università di Oxford, in Inghilterra, ma nel periodo in cui suo padre Stanley lavorò nella Commissione Europea andò a scuola a Bruxelles. A Bruxelles ci tornò poi da giornalista. Lavorò per il Times (dove fu licenziato per avere inventato un virgolettato), per il Daily Telegraph e fu direttore dello Spectator. In quel periodo cominciò ad attaccare senza sosta le politiche europee e a prendersela con diversi funzionari di Bruxelles, alcuni dei quali da mercoledì avranno a che fare con Johnson nel suo nuovo ruolo da primo ministro.
Nel corso degli anni Johnson è diventato uno dei politici più in vista dei Conservatori britannici, ma anche uno dei più criticati, soprattutto per alcune sue esternazioni. Tra le altre cose, si ricorda quando definì gli abitanti della Papua Nuova Guinea “cannibali”, quando sostenne che Barack Obama era “parzialmente keniano” e per questo aveva una antipatia ancestrale nei confronti del Regno Unito, e quando paragonò le donne musulmane che indossavano il velo a «cassette delle lettere».
Anche i rapporti con gli altri paesi europei durante il suo mandato da ministro degli Esteri – durato da luglio 2016 a luglio 2018 – non sono stati facili e lineari. I giornalisti Max Colchester e Laurence Norman hanno scritto sul Wall Street Journal che Johnson era visto con allarme dalle sue controparti europee, che però allo stesso tempo ne erano affascinate. Se Johnson da una parte paragonava gli obiettivi dell’Unione Europea a quelli di Adolf Hitler, dall’altra sosteneva di avere trascorso «anni molto felici a Bruxelles» e di avere sviluppato relazioni forti con diversi politici europei. Alcuni suoi ex collaboratori hanno raccontato al Wall Street Journal che le richieste degli altri ministri degli Esteri di incontrare «Boris», così veniva chiamato amichevolmente, erano molto frequenti: un po’ perché faceva grande attività di lobbying a Washington per difendere la posizione dell’Unione Europea sull’Iran, diversa da quella del presidente Donald Trump, di cui Johnson è ancora oggi un grande fan; un po’ perché era un buon intrattenitore, con una grande passione per la storia romana e greca.
Durante un incontro con alcuni funzionari ciprioti, per esempio, Johnson si lanciò in una discussione su chi avesse davvero vinto le guerre combattute nel Quinto secolo a.C. tra Atene e Sparta: sul campo di battaglia le aveva vinte Sparta, sosteneva Johnson, ma l’esperimento di Atene con la democrazia e la concessione di diritti ai propri cittadini aveva mostrato come i veri vincitori fossero stati gli ateniesi.
Al di là di tutto, uno dei motivi per cui oggi Johnson viene visto con preoccupazione a Bruxelles è la sua posizione molto a favore di Brexit, unita alla sua imprevedibilità.
Negli ultimi anni Johnson è stato un grande sostenitore di Brexit, arrivando anche a non escludere l’ipotesi del “no deal”, cioè del “nessun accordo” tra Unione Europea e Regno Unito: secondo Johnson e diversi altri euroscettici radicali del Partito Conservatore britannico, il “no deal” si potrà verificare se l’Unione Europea non si dimostrerà disposta a rinegoziare l’accordo su Brexit concluso con il governo precedente di Theresa May, e ritenuto insoddisfacente. I politici europei che lo conoscono dalle sue precedenti esperienze a Bruxelles, prima da giornalista e poi da ministro degli Esteri, sanno che le tecniche di negoziazione di Johnson sono diverse da quelle di May: più aggressive e meno attente alle regole della diplomazia.
Qualche mese dopo la sua nomina a ministro degli Esteri britannico, per esempio, Johnson incontrò l’allora ministro dello Sviluppo Economico italiano Carlo Calenda. Gli disse che l’Italia avrebbe dovuto fare pressioni sui suoi alleati europei affinché il Regno Unito ottenesse un accesso speciale al mercato unico, scenario che i negoziatori europei avevano fino a quel momento escluso. Johnson minacciò Calenda dicendo che, se non avesse fatto come diceva lui, il Regno Unito avrebbe cominciato a importare meno Prosecco dall’Italia (Calenda non la prese bene).
L’imprevedibilità di Johnson e le sue particolari tecniche di negoziazione potrebbero avere conseguenze importanti sui rapporti tra Regno Unito e Unione Europea in relazione a Brexit, perché potrebbero rendere credibili minacce che finora con May avevano funzionato poco, come quella di un “no deal” intenzionale. In generale, preoccupano anche i rapporti di amicizia che Johnson ha già mostrato di avere con Trump, in un periodo in cui le relazioni tra Stati Uniti e Unione Europea sono ai ferri corti per molte ragioni, tra cui il tema del nucleare iraniano.
Johnson diventerà primo ministro britannico mercoledì, dopo avere incontrato la Regina a Buckingham Palace. Lo stesso giorno farà il suo primo discorso di fronte al numero 10 di Downing Street, la residenza del capo del governo britannico, a Londra, e inizierà a nominare i suoi ministri più importanti.
Johnson, il cui nome completo è Alexander Boris de Pfeffel Johnson, ha 55 anni e una storia personale e politica molto particolare.
Nacque nel 1964 a New York, negli Stati Uniti, da una famiglia britannica dell’alta borghesia «molto estroversa e competitiva», ha scritto Associated Press: tra i suoi antenati ci fu anche Ali Kemal, giornalista, poeta, e per tre mesi ministro di uno dei governi dell’Impero ottomano. Rachel, la sorella di Johnson, ha raccontato che l’aspirazione del fratello da piccolo era quella di diventare il «re del mondo». Johnson frequentò le scuole più esclusive, come l’Eton College e l’Università di Oxford, in Inghilterra, ma nel periodo in cui suo padre Stanley lavorò nella Commissione Europea andò a scuola a Bruxelles. A Bruxelles ci tornò poi da giornalista. Lavorò per il Times (dove fu licenziato per avere inventato un virgolettato), per il Daily Telegraph e fu direttore dello Spectator. In quel periodo cominciò ad attaccare senza sosta le politiche europee e a prendersela con diversi funzionari di Bruxelles, alcuni dei quali da mercoledì avranno a che fare con Johnson nel suo nuovo ruolo da primo ministro.
Nel corso degli anni Johnson è diventato uno dei politici più in vista dei Conservatori britannici, ma anche uno dei più criticati, soprattutto per alcune sue esternazioni. Tra le altre cose, si ricorda quando definì gli abitanti della Papua Nuova Guinea “cannibali”, quando sostenne che Barack Obama era “parzialmente keniano” e per questo aveva una antipatia ancestrale nei confronti del Regno Unito, e quando paragonò le donne musulmane che indossavano il velo a «cassette delle lettere».
Anche i rapporti con gli altri paesi europei durante il suo mandato da ministro degli Esteri – durato da luglio 2016 a luglio 2018 – non sono stati facili e lineari. I giornalisti Max Colchester e Laurence Norman hanno scritto sul Wall Street Journal che Johnson era visto con allarme dalle sue controparti europee, che però allo stesso tempo ne erano affascinate. Se Johnson da una parte paragonava gli obiettivi dell’Unione Europea a quelli di Adolf Hitler, dall’altra sosteneva di avere trascorso «anni molto felici a Bruxelles» e di avere sviluppato relazioni forti con diversi politici europei. Alcuni suoi ex collaboratori hanno raccontato al Wall Street Journal che le richieste degli altri ministri degli Esteri di incontrare «Boris», così veniva chiamato amichevolmente, erano molto frequenti: un po’ perché faceva grande attività di lobbying a Washington per difendere la posizione dell’Unione Europea sull’Iran, diversa da quella del presidente Donald Trump, di cui Johnson è ancora oggi un grande fan; un po’ perché era un buon intrattenitore, con una grande passione per la storia romana e greca.
Durante un incontro con alcuni funzionari ciprioti, per esempio, Johnson si lanciò in una discussione su chi avesse davvero vinto le guerre combattute nel Quinto secolo a.C. tra Atene e Sparta: sul campo di battaglia le aveva vinte Sparta, sosteneva Johnson, ma l’esperimento di Atene con la democrazia e la concessione di diritti ai propri cittadini aveva mostrato come i veri vincitori fossero stati gli ateniesi.
Al di là di tutto, uno dei motivi per cui oggi Johnson viene visto con preoccupazione a Bruxelles è la sua posizione molto a favore di Brexit, unita alla sua imprevedibilità.
Negli ultimi anni Johnson è stato un grande sostenitore di Brexit, arrivando anche a non escludere l’ipotesi del “no deal”, cioè del “nessun accordo” tra Unione Europea e Regno Unito: secondo Johnson e diversi altri euroscettici radicali del Partito Conservatore britannico, il “no deal” si potrà verificare se l’Unione Europea non si dimostrerà disposta a rinegoziare l’accordo su Brexit concluso con il governo precedente di Theresa May, e ritenuto insoddisfacente. I politici europei che lo conoscono dalle sue precedenti esperienze a Bruxelles, prima da giornalista e poi da ministro degli Esteri, sanno che le tecniche di negoziazione di Johnson sono diverse da quelle di May: più aggressive e meno attente alle regole della diplomazia.
Qualche mese dopo la sua nomina a ministro degli Esteri britannico, per esempio, Johnson incontrò l’allora ministro dello Sviluppo Economico italiano Carlo Calenda. Gli disse che l’Italia avrebbe dovuto fare pressioni sui suoi alleati europei affinché il Regno Unito ottenesse un accesso speciale al mercato unico, scenario che i negoziatori europei avevano fino a quel momento escluso. Johnson minacciò Calenda dicendo che, se non avesse fatto come diceva lui, il Regno Unito avrebbe cominciato a importare meno Prosecco dall’Italia (Calenda non la prese bene).
L’imprevedibilità di Johnson e le sue particolari tecniche di negoziazione potrebbero avere conseguenze importanti sui rapporti tra Regno Unito e Unione Europea in relazione a Brexit, perché potrebbero rendere credibili minacce che finora con May avevano funzionato poco, come quella di un “no deal” intenzionale. In generale, preoccupano anche i rapporti di amicizia che Johnson ha già mostrato di avere con Trump, in un periodo in cui le relazioni tra Stati Uniti e Unione Europea sono ai ferri corti per molte ragioni, tra cui il tema del nucleare iraniano.
Johnson diventerà primo ministro britannico mercoledì, dopo avere incontrato la Regina a Buckingham Palace. Lo stesso giorno farà il suo primo discorso di fronte al numero 10 di Downing Street, la residenza del capo del governo britannico, a Londra, e inizierà a nominare i suoi ministri più importanti.
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Il Post 10/7/2019
Martedì sera c’è stato il primo e unico dibattito tra i due candidati rimasti in corsa per le elezioni interne del Partito Conservatore britannico, Boris Johnson e Jeremy Hunt: chi le vincerà non diventerà solo il leader del partito di maggioranza in Parlamento ma anche il primo ministro del Regno Unito, come da consuetudini britanniche. Alle primarie potranno votare solo i circa 160.000 iscritti al partito, ma il dibattito di ieri sera interessava a tutti quelli che volevano capire che aspetto avrà il prossimo governo del Regno Unito.
Il dibattito, trasmesso dal canale ITV, è stato particolarmente acceso e litigioso. È stato l’unico a cui Johnson, il favorito, ha accettato di partecipare, ed è stata quindi l’unica occasione che Hunt ha avuto per provare a recuperare lo svantaggio. Lui ci ha provato, attaccando ripetutamente Johnson sui suoi punti deboli, e cercando di presentarlo come un politico poco serio e inaffidabile, ma Johnson ha saputo difendersi: non ha commesso errori gravi e a sua volta ha giocato sulle debolezze di Hunt. Johnson e Hunt hanno iniziato il dibattito come favorito e inseguitore e lo hanno terminato allo stesso modo, scrivono i giornali britannici. Quello che è diventato più chiaro, dice BBC, è che se Johnson vincerà non avrà un lavoro facile come pensa, o dice di pensare.
Il tema principale del dibattito è stato Brexit, il grosso argomento della politica britannica degli ultimi tre anni, su cui Johnson e Hunt arrivano da due prospettive molto diverse. Johnson è stato uno dei principali sostenitori del referendum sull’uscita dall’Unione Europea; Hunt ha invece votato per restare nell’Unione ma ora dice di essere convinto della necessità di fare l’opposto per rispettare la volontà popolare (un po’ come Theresa May prima di lui). Johnson ha posizioni molto nette – uscire dalla UE entro la scadenza del 31 ottobre è una questione «di vita o di morte», ha detto ripetutamente – mentre Hunt, attualmente ministro degli Esteri, è più pragmatico e moderato: sostiene che Brexit vada fatta ma che le trattative richiederanno tempo e molti altri compromessi (soprattutto per trovare una maggioranza all’interno del Parlamento britannico, e ha probabilmente ragione).
In uno dei suoi primi attacchi a Johnson, Hunt gli ha chiesto se si dimetterà nel caso non dovesse riuscire a completare Brexit entro ottobre (sarebbe lecito pensarlo, visto che è una questione «di vita o di morte»). Johnson ha fatto come avrebbe poi fatto molte altre volte nel dibattito: ha sviato, dando una risposta vaga e generica, spiegando solo di non poter promettere le sue dimissioni per non dare un’arma in più all’Unione Europea nelle future trattative. Provando a ribaltare il problema, Johnson ha poi chiesto sarcasticamente a Hunt se avesse una data in mente per Brexit o se avesse intenzione di rimandarla per sempre: «Che ne dici di Natale? Può andare bene Natale per te?». Hunt ha detto che Johnson stava cercando di «vendere ottimismo», Johnson ha accusato Hunt di essere «un disfattista».
Johnson e Hunt si sono scontrati anche su altri temi, a partire dalla promessa di Johnson di fare grandi tagli fiscali per chi guadagna di più, ma i loro attacchi sono sembrati sempre diretti a screditare personalmente il rivale. Hunt ha ripetuto in più occasioni che Johnson è una persona poco affidabile, che non risponde alle domande e che ha messo la sua ambizione personale davanti al bene del paese. Johnson, molto abile e a suo agio nei dibattiti, ha cercato di mostrare Hunt come un politico come tanti, inadatto con il suo «stile manageriale» a gestire una trattativa difficile come quella per Brexit.
Quando in conclusione del dibattito dal pubblico è stato chiesto ai due candidati di trovare qualcosa di ammirevole nei propri avversari, i toni non sono cambiati. Johnson ha detto di ammirare la capacità di Hunt di cambiare idea (facendo riferimento a Brexit), Hunt ha detto di apprezzare la bravura di Johnson di rispondere alle domande facendoti ridere e facendoti anche dimenticare quale fosse la domanda: «È un’ottima qualità per un politico, forse non per un primo ministro».
Gli iscritti al partito Conservatore hanno già ricevuto le schede elettorali ed è probabile che qualcuno abbia già anche votato. I voti verranno ricevuti e contati nelle prossime due settimane: saranno validi tutti quelli espressi entro il 22 luglio, mentre il giorno successivo ci si può già aspettare l’annuncio del vincitore.
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il Post 24/6/2019
Boris Johnson, l’ex ministro degli Esteri britannico e principale candidato alla guida del Partito Conservatore, e quindi soprattutto alla carica di primo ministro del Regno Unito, è da giorni al centro di un piccolo scandalo che rischia di complicare la sua scalata al partito. Nella notte tra giovedì e venerdì, infatti, la polizia è intervenuta a casa di Johnson e della sua compagna Carrie Symonds dopo che alcuni vicini di casa avevano segnalato urla e rumori di cose rotte: non ci sono state conseguenze, ma Johnson non ha voluto spiegare cosa sia successo e adesso glielo stanno chiedendo sempre più persone, compresi i suoi avversari politici interni al Partito Conservatore. L’episodio nasconde un tema più importante: il carattere di Johnson, che secondo gli avversari e i critici non è compatibile con la guida del Regno Unito.
La polizia era stata chiamata da un vicino di casa di Johnson a Camberwell, quartiere residenziale nel sud di Londra. Dopo aver sentito i rumori, ha detto, ha provato inizialmente a bussare alla porta, ma non ricevendo risposta ha deciso di chiamare la polizia, che è arrivata in cinque minuti. Oltre alle urla, l’uomo ha raccontato di aver sentito Symonds gridare diverse volte «vattene» e «lasciami», nonché il rumore di quelli che sembravano piatti rotti. Ha registrato la lite col telefono, e il Guardian ha ascoltato l’audio: si sente Johnson rifiutarsi di andarsene e dire a Symonds di smetterla di usare il suo computer portatile. Sempre il Guardian scrive che nella registrazione si sente Symonds lamentarsi perché Johnson ha macchiato il divano di vino rosso: «Non te ne frega di niente perché sei viziato. Non hai rispetto dei soldi o di niente».
Dopo aver controllato la situazione, la polizia se ne era andata senza prendere provvedimenti, e dicendo all’uomo che aveva fatto la chiamata che era tutto a posto. Symonds, ex responsabile della comunicazione del Partito Conservatore, ha una relazione con Johnson da alcuni mesi, dopo che l’anno scorso l’ex sindaco di Londra si era separato da sua moglie, dalla quale sta divorziando. Da venerdì se ne è andata di casa e sta cercando di evitare i moltissimi cronisti che stanno dando ampio risalto alla questione sui tabloid britannici.
Johnson, da parte sua, ha cercato di non commentare l’episodio: sabato pomeriggio ha partecipato a un incontro elettorale a Birmingham, e si è rifiutato di rispondere alla prima domanda posta dall’intervistatore Ian Dale, che era proprio a proposito dell’intervento della polizia. Dal pubblico, in molti hanno applaudito la risposta di Johnson, che ha sostenuto fosse una faccenda privata e che preferiva invece parlare di temi più importanti. Ma molti sono sembrati invece d’accordo con Dale, secondo cui «se la polizia viene chiamata a casa sua, è un problema di tutti».
Questa posizione sta trovando sostenitori anche nel Partito Conservatore, che per la maggior parte continua comunque a solidarizzare con Johnson. Johnson è infatti il favorito a diventare il prossimo leader del partito, dopo le dimissioni di Theresa May, e di conseguenza a diventare automaticamente il primo ministro britannico. L’unico altro candidato in corsa è Jeremy Hunt, cioè il suo successore a ministro degli Esteri dal luglio del 2018, più moderato e sostenitore di una Brexit morbida (dopo essere stato a suo tempo contrario a Brexit). Proprio Hunt ha detto che i tentativi di Johnson sviare la questione in questi giorni sono sembrati un modo di «sgattaiolare dentro Downing Street passando dalla porta sul retro», e oggi ha scritto sul Times: «Non essere un codardo Boris, comportanti da uomo». Johnson non ha ancora fatto sapere se parteciperà a un dibattito televisivo con Hunt martedì.
Hunt non è stato il solo a intervenire: Liam Fox, ministro per il Commercio internazionale e sostenitore di Hunt, ha detto che Johnson dovrebbe spiegare l’episodio, cosicché la discussione possa passare a temi più importanti. Ha detto più o meno la stessa cosa Geoffrey Clifton-Brown, vice presidente del 1922 Committee, il gruppo parlamentare dei Conservatori, secondo il quale «i cittadini hanno la ragionevole pretesa che questo tipo di questioni venga chiarito».
Il punto è che Johnson è da sempre accusato di essere un uomo dal temperamento irascibile, e diversi politici o commentatori ritengono che l’episodio della lite con Symonds ne sia l’ennesima conferma. Lo ha scritto per esempio sul Times Sonia Purnell, giornalista e autrice di una biografia di Johnson, secondo la quale «può passare da bonario a una terribile furia nel giro di pochi secondi», sostenendo che abbia «la rabbia più aggressiva e incontrollabile che abbia mai visto». Anche l’editorialista del Guardian Matthew d’Ancona ha scritto che il passato politico di Johnson – uno che ha fatto spesso uscite offensive e discriminatorie – rende l’episodio di giovedì notte rilevante per tutti. Andrew Gwynne, ministro ombra dei Laburisti, ha detto che Johnson è «inadatto alla guida del Regno Unito».
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Antonello Guerrera, la Repubblica 20/7
C’è chi scivola sul “Trota”, chi sull’aringa, come Boris Johnson, che in un comizio mercoledì, in una delle sue sceneggiate adorate dai fan conservatori, ha sventolato il pesce in questione, affumicato e confezionato, urlando alla folla: «Ecco, questa aringa secondo i burocrati di Bruxelles deve essere incartata con una borsa del ghiaccio. Che cosa costosa, inquinante e inutile! Ecco la follia dell’Unione Europea!». Peccato che la legge citata da Johnson non fosse dell’odiata Ue, ma britannica. Una gaffe colossale di colui che, a meno di clamorose sorprese, martedì prossimo sarà eletto primo ministro britannico, per un nuovo, delicatissimo capitolo del destino del Regno Unito in piena tempesta Brexit.
Ma Alexander Boris de Pfeffel Johnson, anzi “Boris”, 55 anni, è così: la scampa sempre, come in passato quando si è abbandonato ad offese razziste («i neri hanno sorrisi come angurie»), islamofobe («le donne musulmane velate mi sembrano cassette della posta») o omofobe ( bumboys , ovvero “culattoni”) che avrebbero dilaniato la carriera di qualunque politico britannico. Perché Boris sa minimizzare ogni sua figuraccia, come quando è rimasto appeso come un salame su una corda mentre faceva campagna per le Olimpiadi a Londra; ogni suo scivolone con il suo irresistibile humour, con un lessico pregiato e irriverente, con la sua auto-ironia falsamente timida ma spietata. E poi, affonda il colpo, a sorpresa, sfruttando qualità spesso nascoste, come quando nel 2008 diventò sindaco di Londra recuperando 17 punti dall’uscente laburista Ken Livingstone.
Ora, che premier sarà Boris Johnson? La risposta è proprio nell’aringa. Perché Boris Johnson ha lanciato la sua carriera, prima giornalistica e poi politica, fabbricando bufale o esagerazioni contro l’Europa. Perché proprio a Bruxelles ha ricostruito il suo personaggio dopo un vergognoso licenziamento dalTimes per una fake news su una relazione gay di Edoardo II dove s’era inventato le dichiarazioni persino del suo padrino. Perché Bruxelles, dove suo padre Stanley nel 1989 trapianta la famiglia prima da diplomatico britannico e poi parlamentare Ue, l’allora 24enne Boris la odia, a maggior ragione quando la madre va in depressione dopo il divorzio. Perché Johnson inizia a farsi chiamare Boris – unicum nella formale Inghilterra – proprio nella capitale belga, per un impiego "noioso" ma poi, grazie alla sua inarrestabile fantasia, frizzante come l’amato champagne.
«L’Italia sconfitta nella lunghezza dei profilattici imposta dall’Ue»; «Il piano di Delors per comandare in Europa»; «Il palazzo Berlaymont sarà fatto esplodere»; «Il complotto tedesco contro il commissario britannico Ue». Titoli accattivanti, storie spesso gonfiate, lettori e capi del suo Daily Telegraphentusiasti, colleghi degli altri giornali infuriati dalle sue scorrettezze. Ma Boris non ha mai dato prova di grande fedeltà, come dimostrano anche i suoi due ex matrimoni in pezzi, una valanga di amanti, almeno cinque figli ed esplosivi litigi come l’ultimo con la sua attuale fidanzata Carrie Symonds. Del resto, già da bambino Boris si spettinava i capelli biondo platino per darsi una finta aria arruffata. A Bruxelles, invece, guida macchine sportive rosse, veste calzoni bucati, si auto- insulta nel suo ufficio per motivarsi, esala strafottenza e francese volutamente storpiato alle conferenze stampa.
«Ma Boris è così», dicevano in Belgio derubricandolo come un simpatico buffone, anzi un mezzo clown, come in una recente copertina dell’Economist, che amava i classici latini e l’ironia di P.G. Wodehouse. Col tempo, però, ci ha preso gusto a essere sempre in prima pagina, a diventare in patria il cavaliere dell’antieuropeismo, a rendersi il cocco del partito conservatore e di Margaret Thatcher. Peccato però che, seppur ilari, i suoi articoli da Bruxelles siano stati cruciali nel forgiare nel tempo un vigoroso euroscetticismo nel Regno Unito, poi sfociato nella Brexit, e a influenzare la percezione dell’Europa anche negli altri Paesi, vedi la Danimarca e il suo no a Maastricht nel 1992, come ha spiegato al Guardian Uffe Ellemann-Jensen, allora ministro degli Esteri a Copenaghen. Insomma, oltre a essere euroscettico, Boris Johnson in Europa ha lasciato un ricordo pessimo, che ne ha minato la credibilità. Per questo, una svolta nei negoziati sulla Brexit è impossibile prima della scadenza del 31 ottobre. Quando, se non ci sarà accordo tra Regno Unito ed Europa, Londra uscirà brutalmente dall’Ue con il “No Deal”, come minaccia lo stesso Boris, dalle conseguenze economiche probabilmente pesantissime. Quando prenderà il timone, e cioè mercoledì dopo essere andato dalla Regina in scia alla dimissionaria Theresa May, le successive 36 ore saranno decisive per Boris e metteranno seriamente alla prova un politico che sinora se l’è cavata meravigliosamente: il partito conservatore spaccato, una catastrofe economica in arrivo, elezioni anticipate dietro l’angolo, crisi internazionali gravissime come quella con l’Iran. Che premier sarà Boris Johnson? Oltre ai suoi, l’unico a credere platealmente in lui è il suo amico e mezzo alter ego, Donald Trump: «Farà un gran lavoro, mi piace», ha assicurato ieri il presidente americano, impaziente di stringere un accordo commerciale con Londra, solo se estremamente favorevole agli Stati Uniti, ovvio.
***
Giuliano Ferrara, Il Foglio 4/7
Qualche anno fa Boris Johnson, allora giornalista del settimanale conservatore Spectator, mi chiama per sapere se mi fosse possibile metterlo in contatto con Berlusconi. Con tutta la simpatia per quel mattoide adorabile, mi guardai bene dallo stabilire un contatto. Nella mia veste di amico e consigliori sapevo che non ne sarebbe venuto fuori alcunché di non dico buono ma nemmeno passabile. Ma essendo Berlusconi la più accessibile delle iperpersone pubbliche, dopo qualche giorno Boris e un suo amico, Nicholas Farrell, la firma british di Libero (british, e di Libero: spero si capisca l’ironia della storiella), si introdussero alla Certosa, villa del magnate fattosi politico, e con l’aiuto di un forte tasso alcolico misero in scena una conversazione delirante sul fascismo: il presidente del Consiglio affermava tra l’altro che il confino decretato dalle autorità del regime era una bella vacanza, e del resto della scampagnata in Sardegna, vabbè.
Boris Johnson sta per diventare primo ministro di Sua Maestà, dopo aver lasciato il giornalismo attivo per fare il sindaco di Londra e poi, per un breve surreale periodo, il ministro degli Esteri di Theresa May, in nome e per conto della Brexit di cui si era fatto a sorpresa, e smentendo sé stesso, portavoce ufficiale e combattente, fino alla vittoria finale. Bella carriera. Speriamo che nessuno scocciatore si introduca ai Chequers per farlo bere e parlare, chissà che cosa ne verrebbe fuori, mentre si deve discutere se uscire con un nuovo accordo o con il no deal, sarebbe una certosata a parti rovesciate. Però Johnson non è solo l’assurdo che incorpora, è anche un fenomeno, uno dei tanti, della neolingua pop e sovranarda, come dice la Cesaretti, che fanno scintille e incantano le folle.
Se Trump è il più grande capocomico di tutti i tempi, sulla scia e a imitazione di Berlusconi, che fu un austero uomo di stato, in paragone con questi, e insieme il laboratorio della neolingua, e speriamo che la commediola non trascenda in tragedia, Boris ne è un emulo, ma in condizioni culturalmente molto superiori. E la faccenda riguarda anche il Truce, che nel suo piccolo fa quel che può per assimilarsi ai nuovi dèi della piazza mediatica.
Boris Johnson, questo è il punto, è una minaccia e una speranza. Per la minaccia, basta rendersi conto dei rischi che corrono la City di Londra e il sistema delle relazioni internazionali in vista del ricatto del no deal e della prospettiva di trasformare la Gran Bretagna in una Singapore moltiplicata per cento e a poche miglia da Calais e dal continente europeo. E per la speranza? Ecco. Bisogna puntare sul fatto che dei diversi leader pop o nazionalpop o sovranpop, Johnson è l’unico che ha fatto buone scuole, che viene da un’esperienza complicata e diversa nelle sue sfaccettature: non è un Arancione, non è un Truce, non è della razza dei Bolsonaro dei Duterte degli Erdogan, e a rigore non è nemmeno un Putin dipendente. È un inglese di Eton, supercasta. Un conservatore brillante, con il lignaggio della sua specie tutto a posto, che ha scritto libri anche divertenti su Churchill, non pamphlet per la casa editrice Altaforte.
Non vorrei fare lo snob, ma accarezzo l’idea di un premier britannico che rimette da conservatore le cose a posto, non perché sia affidabile, non perché sia composto e istituzionale, ma perché sa usare sarcasmo, cinismo, spavalderia e ribalderia in una versione che ha una sua intrinseca qualità. Una signora lo ha incontrato di recente e gli ha detto in perfetto stile anglosassone, understatement: “Good luck for your preposterous ideas”, buona fortuna per le sue idee insensate. E lui ovviamente le ha risposto: “Thank you”. Ecco. In una generazione di incivili, di bigotti delle credenze più rivoltanti e lubriche, in una genia di truci, magari potrebbe venire fuori uno che converge politicamente con loro, in certi casi, ma alla fine decide di montare su un modello culturalmente superiore e incompatibile con quello dei tagliagole di stato che fanno oggi il bello e il cattivo tempo in tante parti del mondo. Sperem.
***
Luigi Ippolito, Corriere della Sera 21/6
Può un gran zozzone essere un buon primo ministro? Rischiamo di scoprirlo presto: perché Boris Johnson resta il favorito per insediarsi a Downing Street, ma lo stato pietoso della sua macchina ci racconta molto altro della sua personalità.
L’interno della sua Toyota è stato fotografato da un obiettivo indiscreto, nonostante i vetri oscurati: e l’immagine, ben poco edificante, ha fatto immediatamente il giro della Rete e dei social media. Suscitando commenti a dir poco allarmati.
Quello che si scorge è un vero immondezzaio: cartoni di cibo da asporto svuotati, bottigliette d’acqua, tute da ginnastica sporche e stropicciate, briciole sparse e ricevute accartocciate. Un casino totale, un insulto all’igiene più elementare. «La macchina disordinata di Boris è un riflesso della sua mente?», si è chiesto giustamente ieri il Guardian.
Perché questo è il vero interrogativo: se uno è capace di ridurre in questo stato il suo veicolo, cosa combinerà quando avrà in mano il Paese? «Non è da primo ministro – ha commentato sempre il Guardian —. Margaret Thatcher, una premier con l’inclinazione a spolverare, sarebbe inorridita».
Eppure ce ne ha messi di sforzi per renderlo presentabile, la nuova fidanzata di Boris, Carrie Symonds: gli ha fatto tagliare i capelli, gli sceglie i vestiti, lo ha messo a dieta, lo tiene lontano dalla bottiglia. Ma il suo istinto è più forte di tutto, evidentemente.
Chi lo ha incontrato una volta nei bagni di una conferenza, racconta che Boris aveva un aspetto abbastanza decente: poi è andato allo specchio, si è scompigliato i capelli con le mani e ha sussurrato: «Be’, devo fare la mia parte...».
Perché Boris Johnson deve il suo appeal al suo personaggio, vestiti stropicciati e zazzera bionda in disordine: parte dell’establishment, ma in qualche modo contro-corrente. E i tentativi di domarlo sono inutili, come testimonia la sua macchina sottosopra.
Ma si tratta anche di un connotato di classe, sostiene l’esperta di pulizie Aggie MacKenzie: «Gli snob non si curano del casino in cui vivono – spiega – e in realtà chi di loro avrebbe bisogno di preoccuparsi di qualcosa così poco importante come l’interno di una macchina?».
Ma i timori restano. Perché, aggiunge, «sono convinta che c’è qualcosa di questo stato di caos che è destinato a riversarsi nella sua testa e nella sua vita». Detto altrimenti, si salvi chi può.
Ma Alexander Boris de Pfeffel Johnson, anzi “Boris”, 55 anni, è così: la scampa sempre, come in passato quando si è abbandonato ad offese razziste («i neri hanno sorrisi come angurie»), islamofobe («le donne musulmane velate mi sembrano cassette della posta») o omofobe ( bumboys , ovvero “culattoni”) che avrebbero dilaniato la carriera di qualunque politico britannico. Perché Boris sa minimizzare ogni sua figuraccia, come quando è rimasto appeso come un salame su una corda mentre faceva campagna per le Olimpiadi a Londra; ogni suo scivolone con il suo irresistibile humour, con un lessico pregiato e irriverente, con la sua auto-ironia falsamente timida ma spietata. E poi, affonda il colpo, a sorpresa, sfruttando qualità spesso nascoste, come quando nel 2008 diventò sindaco di Londra recuperando 17 punti dall’uscente laburista Ken Livingstone.
Ora, che premier sarà Boris Johnson? La risposta è proprio nell’aringa. Perché Boris Johnson ha lanciato la sua carriera, prima giornalistica e poi politica, fabbricando bufale o esagerazioni contro l’Europa. Perché proprio a Bruxelles ha ricostruito il suo personaggio dopo un vergognoso licenziamento dalTimes per una fake news su una relazione gay di Edoardo II dove s’era inventato le dichiarazioni persino del suo padrino. Perché Bruxelles, dove suo padre Stanley nel 1989 trapianta la famiglia prima da diplomatico britannico e poi parlamentare Ue, l’allora 24enne Boris la odia, a maggior ragione quando la madre va in depressione dopo il divorzio. Perché Johnson inizia a farsi chiamare Boris – unicum nella formale Inghilterra – proprio nella capitale belga, per un impiego "noioso" ma poi, grazie alla sua inarrestabile fantasia, frizzante come l’amato champagne.
«L’Italia sconfitta nella lunghezza dei profilattici imposta dall’Ue»; «Il piano di Delors per comandare in Europa»; «Il palazzo Berlaymont sarà fatto esplodere»; «Il complotto tedesco contro il commissario britannico Ue». Titoli accattivanti, storie spesso gonfiate, lettori e capi del suo Daily Telegraphentusiasti, colleghi degli altri giornali infuriati dalle sue scorrettezze. Ma Boris non ha mai dato prova di grande fedeltà, come dimostrano anche i suoi due ex matrimoni in pezzi, una valanga di amanti, almeno cinque figli ed esplosivi litigi come l’ultimo con la sua attuale fidanzata Carrie Symonds. Del resto, già da bambino Boris si spettinava i capelli biondo platino per darsi una finta aria arruffata. A Bruxelles, invece, guida macchine sportive rosse, veste calzoni bucati, si auto- insulta nel suo ufficio per motivarsi, esala strafottenza e francese volutamente storpiato alle conferenze stampa.
«Ma Boris è così», dicevano in Belgio derubricandolo come un simpatico buffone, anzi un mezzo clown, come in una recente copertina dell’Economist, che amava i classici latini e l’ironia di P.G. Wodehouse. Col tempo, però, ci ha preso gusto a essere sempre in prima pagina, a diventare in patria il cavaliere dell’antieuropeismo, a rendersi il cocco del partito conservatore e di Margaret Thatcher. Peccato però che, seppur ilari, i suoi articoli da Bruxelles siano stati cruciali nel forgiare nel tempo un vigoroso euroscetticismo nel Regno Unito, poi sfociato nella Brexit, e a influenzare la percezione dell’Europa anche negli altri Paesi, vedi la Danimarca e il suo no a Maastricht nel 1992, come ha spiegato al Guardian Uffe Ellemann-Jensen, allora ministro degli Esteri a Copenaghen. Insomma, oltre a essere euroscettico, Boris Johnson in Europa ha lasciato un ricordo pessimo, che ne ha minato la credibilità. Per questo, una svolta nei negoziati sulla Brexit è impossibile prima della scadenza del 31 ottobre. Quando, se non ci sarà accordo tra Regno Unito ed Europa, Londra uscirà brutalmente dall’Ue con il “No Deal”, come minaccia lo stesso Boris, dalle conseguenze economiche probabilmente pesantissime. Quando prenderà il timone, e cioè mercoledì dopo essere andato dalla Regina in scia alla dimissionaria Theresa May, le successive 36 ore saranno decisive per Boris e metteranno seriamente alla prova un politico che sinora se l’è cavata meravigliosamente: il partito conservatore spaccato, una catastrofe economica in arrivo, elezioni anticipate dietro l’angolo, crisi internazionali gravissime come quella con l’Iran. Che premier sarà Boris Johnson? Oltre ai suoi, l’unico a credere platealmente in lui è il suo amico e mezzo alter ego, Donald Trump: «Farà un gran lavoro, mi piace», ha assicurato ieri il presidente americano, impaziente di stringere un accordo commerciale con Londra, solo se estremamente favorevole agli Stati Uniti, ovvio.
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Giuliano Ferrara, Il Foglio 4/7
Qualche anno fa Boris Johnson, allora giornalista del settimanale conservatore Spectator, mi chiama per sapere se mi fosse possibile metterlo in contatto con Berlusconi. Con tutta la simpatia per quel mattoide adorabile, mi guardai bene dallo stabilire un contatto. Nella mia veste di amico e consigliori sapevo che non ne sarebbe venuto fuori alcunché di non dico buono ma nemmeno passabile. Ma essendo Berlusconi la più accessibile delle iperpersone pubbliche, dopo qualche giorno Boris e un suo amico, Nicholas Farrell, la firma british di Libero (british, e di Libero: spero si capisca l’ironia della storiella), si introdussero alla Certosa, villa del magnate fattosi politico, e con l’aiuto di un forte tasso alcolico misero in scena una conversazione delirante sul fascismo: il presidente del Consiglio affermava tra l’altro che il confino decretato dalle autorità del regime era una bella vacanza, e del resto della scampagnata in Sardegna, vabbè.
Boris Johnson sta per diventare primo ministro di Sua Maestà, dopo aver lasciato il giornalismo attivo per fare il sindaco di Londra e poi, per un breve surreale periodo, il ministro degli Esteri di Theresa May, in nome e per conto della Brexit di cui si era fatto a sorpresa, e smentendo sé stesso, portavoce ufficiale e combattente, fino alla vittoria finale. Bella carriera. Speriamo che nessuno scocciatore si introduca ai Chequers per farlo bere e parlare, chissà che cosa ne verrebbe fuori, mentre si deve discutere se uscire con un nuovo accordo o con il no deal, sarebbe una certosata a parti rovesciate. Però Johnson non è solo l’assurdo che incorpora, è anche un fenomeno, uno dei tanti, della neolingua pop e sovranarda, come dice la Cesaretti, che fanno scintille e incantano le folle.
Se Trump è il più grande capocomico di tutti i tempi, sulla scia e a imitazione di Berlusconi, che fu un austero uomo di stato, in paragone con questi, e insieme il laboratorio della neolingua, e speriamo che la commediola non trascenda in tragedia, Boris ne è un emulo, ma in condizioni culturalmente molto superiori. E la faccenda riguarda anche il Truce, che nel suo piccolo fa quel che può per assimilarsi ai nuovi dèi della piazza mediatica.
Boris Johnson, questo è il punto, è una minaccia e una speranza. Per la minaccia, basta rendersi conto dei rischi che corrono la City di Londra e il sistema delle relazioni internazionali in vista del ricatto del no deal e della prospettiva di trasformare la Gran Bretagna in una Singapore moltiplicata per cento e a poche miglia da Calais e dal continente europeo. E per la speranza? Ecco. Bisogna puntare sul fatto che dei diversi leader pop o nazionalpop o sovranpop, Johnson è l’unico che ha fatto buone scuole, che viene da un’esperienza complicata e diversa nelle sue sfaccettature: non è un Arancione, non è un Truce, non è della razza dei Bolsonaro dei Duterte degli Erdogan, e a rigore non è nemmeno un Putin dipendente. È un inglese di Eton, supercasta. Un conservatore brillante, con il lignaggio della sua specie tutto a posto, che ha scritto libri anche divertenti su Churchill, non pamphlet per la casa editrice Altaforte.
Non vorrei fare lo snob, ma accarezzo l’idea di un premier britannico che rimette da conservatore le cose a posto, non perché sia affidabile, non perché sia composto e istituzionale, ma perché sa usare sarcasmo, cinismo, spavalderia e ribalderia in una versione che ha una sua intrinseca qualità. Una signora lo ha incontrato di recente e gli ha detto in perfetto stile anglosassone, understatement: “Good luck for your preposterous ideas”, buona fortuna per le sue idee insensate. E lui ovviamente le ha risposto: “Thank you”. Ecco. In una generazione di incivili, di bigotti delle credenze più rivoltanti e lubriche, in una genia di truci, magari potrebbe venire fuori uno che converge politicamente con loro, in certi casi, ma alla fine decide di montare su un modello culturalmente superiore e incompatibile con quello dei tagliagole di stato che fanno oggi il bello e il cattivo tempo in tante parti del mondo. Sperem.
***
Luigi Ippolito, Corriere della Sera 21/6
Può un gran zozzone essere un buon primo ministro? Rischiamo di scoprirlo presto: perché Boris Johnson resta il favorito per insediarsi a Downing Street, ma lo stato pietoso della sua macchina ci racconta molto altro della sua personalità.
L’interno della sua Toyota è stato fotografato da un obiettivo indiscreto, nonostante i vetri oscurati: e l’immagine, ben poco edificante, ha fatto immediatamente il giro della Rete e dei social media. Suscitando commenti a dir poco allarmati.
Quello che si scorge è un vero immondezzaio: cartoni di cibo da asporto svuotati, bottigliette d’acqua, tute da ginnastica sporche e stropicciate, briciole sparse e ricevute accartocciate. Un casino totale, un insulto all’igiene più elementare. «La macchina disordinata di Boris è un riflesso della sua mente?», si è chiesto giustamente ieri il Guardian.
Perché questo è il vero interrogativo: se uno è capace di ridurre in questo stato il suo veicolo, cosa combinerà quando avrà in mano il Paese? «Non è da primo ministro – ha commentato sempre il Guardian —. Margaret Thatcher, una premier con l’inclinazione a spolverare, sarebbe inorridita».
Eppure ce ne ha messi di sforzi per renderlo presentabile, la nuova fidanzata di Boris, Carrie Symonds: gli ha fatto tagliare i capelli, gli sceglie i vestiti, lo ha messo a dieta, lo tiene lontano dalla bottiglia. Ma il suo istinto è più forte di tutto, evidentemente.
Chi lo ha incontrato una volta nei bagni di una conferenza, racconta che Boris aveva un aspetto abbastanza decente: poi è andato allo specchio, si è scompigliato i capelli con le mani e ha sussurrato: «Be’, devo fare la mia parte...».
Perché Boris Johnson deve il suo appeal al suo personaggio, vestiti stropicciati e zazzera bionda in disordine: parte dell’establishment, ma in qualche modo contro-corrente. E i tentativi di domarlo sono inutili, come testimonia la sua macchina sottosopra.
Ma si tratta anche di un connotato di classe, sostiene l’esperta di pulizie Aggie MacKenzie: «Gli snob non si curano del casino in cui vivono – spiega – e in realtà chi di loro avrebbe bisogno di preoccuparsi di qualcosa così poco importante come l’interno di una macchina?».
Ma i timori restano. Perché, aggiunge, «sono convinta che c’è qualcosa di questo stato di caos che è destinato a riversarsi nella sua testa e nella sua vita». Detto altrimenti, si salvi chi può.