22 luglio 2019
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Biografia di Sergio Mattarella
Sergio Mattarella, nato a Palermo il 23 luglio 1941 (78 anni). Politico. Giurista. Presidente della Repubblica Italiana (dal 3 febbraio 2015). Già giudice della Corte costituzionale (2011-2015). Già ministro della Difesa (1999-2001), vicepresidente del Consiglio dei ministri (1998-1999), ministro della Pubblica istruzione (1989-1990), ministro per i Rapporti con il Parlamento (1987-1989). Ex deputato (1983-2008: Dc, Ppi, Margherita, Pd). «La mitezza della politica non significa debolezza: è propria di chi è convinto della forza delle proprie opinioni, non teme di confrontarle con quelle degli altri, non pretende di imporgliele» • Quarto figlio di Bernardo Mattarella (1905-1971), potente e discusso esponente siciliano della Democrazia cristiana, deputato (prima dell’Assemblea costituente e poi della Camera, dal 1946 fino alla morte) e più volte ministro (Marina mercantile, Trasporti, Commercio estero, Poste e Telecomunicazioni, Agricoltura e Foreste) tra il 1953 e il 1966; tra i suoi fratelli maggiori, Piersanti Mattarella (1935-1980), anch’egli democristiano, ucciso dalla mafia mentre rivestiva la carica di presidente della Regione Siciliana (1978-1980) • «Mio padre era antifascista. Diciannovenne, nell’anno del delitto Matteotti, aveva fondato nel suo comune la sezione del Partito popolare di Sturzo; e aveva subìto percosse e olio di ricino. Il giornale che dirigeva come presidente dell’Azione cattolica di Palermo prese una posizione molto dura contro le leggi razziali e fu sequestrato più volte. Lanciò, via radio, dalla Sicilia già libera, un appello agli italiani delle regioni ancora sotto l’occupazione nazista e di Salò: partecipava, così, idealmente alla lotta della Resistenza e faceva parte dei primi governi del Cln mentre il Nord Italia veniva via via liberato dagli alleati e dai partigiani. Sono cresciuto nel culto delle figure di don Minzoni, Giacomo Matteotti, don Morosini, Teresio Olivelli» (a Ezio Mauro). «Suo padre Bernardo, che si vantava di essere stato il primo a entrare in contatto con don Luigi Sturzo, esule in America, dopo lo sbarco degli Alleati, ospitava nella sua casa i big della Dc. “Papà, chi è quel signore che cammina con il rosario in mano come un prete, ma non ha il saio?”, domandò una volta la figlia maggiore, Marinella. “È un mio amico, si chiama Giorgio La Pira”, rispose il padre. A Roma, poi, i fratelli Piersanti e Sergio […] giocavano con i figli di De Gasperi e con quelli di Moro, e qualche volta il padre invitava a cena un monsignore che avrebbe fatto strada: Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI» (Sebastiano Messina). «Studiano a Roma, nel collegio di San Leone Magno. Il fratello Piersanti è uno dei giovani dirigenti dell’Azione cattolica negli anni Cinquanta, Sergio è un ventenne che negli anni del Concilio, il rinnovamento della Chiesa, è responsabile degli studenti cattolici del Lazio con l’assistente don Filippo Gentiloni (futura firma del Manifesto, per le questioni religiose, e zio di Paolo), […] conosce preti come don Luigi Di Liegro, che sarà il carismatico e amatissimo direttore della Caritas romana, e don Alessandro Plotti, futuro vescovo di Pisa. “Erano gli anni di papa Giovanni XXIII e di Paolo VI, gli anni del Concilio: anni di entusiasmo, di speranza, di innovazione”, scrive. […] “Gli anni della mia formazione: hanno disegnato il mio senso della vita e la mia fisionomia come persona”» (Marco Damilano). «La mia formazione si richiama a quel filone che potrebbe essere definito montiniano. Umanesimo integrale di Jacques Maritain è il testo che, tutt’ora, ritengo mi abbia maggiormente influenzato rispetto al senso della vita e della responsabilità personale. Ma da giovane ho letto molto… Da Fëdor Dostoevskij ad Aleksandr Solzenicyn, da William Somerset Maugham a Paul Claudel, da Thomas Eliot a Ignazio Silone, da Benedetto Croce a Romano Guardini, dai libri di storia di Winston Churchill e di Luigi Salvatorelli a tanti altri» (a Marzio Breda). «Come capita talvolta, i due fratelli Piersanti e Sergio Mattarella […] erano molto diversi tra loro. Si dice che in ogni famiglia siciliana ci sia un figlio arabo e uno normanno: così Piersanti, il maggiore, aveva il piglio di un guerriero saraceno ed era stato l’erede designato della tradizione politica paterna. Mentre Sergio aveva scelto gli studi e l’università, dov’era andato in cattedra presto come costituzionalista. Per molti anni i due fratelli, che avevano sposato due sorelle, Irma e Marisa, […] figlie del grande romanista Lauro Chiazzese, si erano dedicati a difendere nelle aule di giustizia l’onore del padre dalle accuse, mai dimostrate, di legami con la mafia» (Marcello Sorgi). «Ha vissuto in Sicilia fino alle elementari e c’è tornato solo dopo l’università, come professore di Diritto parlamentare alla facoltà di Giurisprudenza, in quell’Istituto di diritto pubblico diretto da Pietro Virga […] dove alla fine degli anni Settanta insegnavano anche Leoluca Orlando, Vito Riggio e Sergio D’Antoni. […] Vito Riggio […] negli anni Settanta lo convinse ad accettare la sua prima candidatura: presidente dell’Opera universitaria. Una volta eletto, si pentì prestissimo: “Un giorno – racconta Riggio – si ritrovò assediato da una folla di studenti urlanti, uno di loro brandiva minacciosamente un grosso mestolo, e Sergio era lì in mezzo, serafico. E più quelli urlavano e più lui abbassava la voce. A un certo punto disse al più scalmanato: ‘Scusi, ma perché urla? Siamo qui per discutere, no?’. E quelli si calmarono di colpo”» (Messina). Parallelamente stava decollando la carriera politica del fratello. «Piersanti era il più promettente e intelligente tra gli allievi di Aldo Moro, aveva rotto con la Dc di Vito Ciancimino e di Salvo Lima e aperto al Pci siciliano negli anni della solidarietà nazionale: era già stato deciso che sarebbe tornato a Roma come deputato, quando l’omicidio di Moro lo convinse a restare in Sicilia» (Damilano). «Nel 1979, benché fosse ormai maturo il suo debutto in Parlamento, Benigno Zaccagnini […] lo aveva convinto a restare in Sicilia, puntare alla presidenza della Regione e fare una bella opera di pulizia nell’amministrazione, infestata di legami clientelari e criminali. La risposta della mafia, il 6 gennaio del 1980, furono le raffiche di mitra che fermarono per sempre il guerriero di casa Mattarella. Piersanti era stato ammazzato davanti al portone di casa sua» (Sorgi). «Palermitani fermi sul marciapiede, e lui, Sergio, che scende avvertito dal nipote. Il killer è appena fuggito. Sergio apre lo sportello dell’auto e soccorre Piersanti. L’ambulanza non arriva, partono verso l’ospedale a bordo di una volante: i due agenti davanti, dietro Sergio tiene sulle gambe suo fratello; che – dopo poco – gli muore tra le braccia (per tutto il pomeriggio, Sergio continuerà a parlare con investigatori e cronisti indossando il maglione sporco di sangue)» (Fabrizio Roncone). «Quel giorno […] gli amici di Piersanti riorganizzano il loro impegno politico in nome del leader assassinato: Leoluca Orlando si presenterà alle Comunali, Rino La Placa diverrà consigliere nazionale della Dc. Sergio in un primo momento è restio a un impegno diretto: troppo forte lo shock per la morte del fratello, c’è il pudore per l’ipotesi della raccolta di un testimone. “Dovemmo lavorare molto per persuaderlo”, racconta La Placa. Che ricorda anche il primo impegno politico, il meno conosciuto, di Sergio Mattarella: “Ottenemmo per lui un ruolo all’interno della commissione nazionale della Dc che si occupava della P2. Subito Sergio si distinse per le doti di equilibrio e lucidità”. Lo sbarco in Parlamento arriverà nel 1983» (Emanuele Lauria). «I suoi amici sono tutti nella Lega democratica: si chiamano Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, lo storico Pietro Scoppola, il costituzionalista Leopoldo Elia, con cui ingaggia a cena epiche gare di nozionismo. Sugli articoli della Costituzione tedesca? No, su chi conosce più formazioni di calcio a memoria, testimonia l’amico Pierluigi Castagnetti. […] L’ispirazione politica: l’apertura a sinistra, l’idea della fragilità della democrazia italiana, attraversata da nemici occulti. Le mafie, le massonerie, le P2» (Damilano). «Il giro di Mattarella è quello dei “basisti”, variante della Dc di sinistra (l’altra era morotea), il più noto dei quali è l’irpino, Ciriaco De Mita. L’anima della stirpe fu però lombarda. Capostipite era il senatore bresciano Franco Salvi, ormai defunto. Costui indossava il cilicio, era cupo ed ebbe il soprannome di “2 novembre”. Salvi clonò un gruppo di identici a lui: l’on. Pietro Padula, detto “bonjour tristesse”, il sen. Martinazzoli, noto come “cipresso”, l’on Tarcisio Gitti, soprannominato “cripta”. Di tutti si è persa la memoria» (Giancarlo Perna). «De Mita – diventato segretario – scelse proprio lui come plenipotenziario del partito in Sicilia. La missione era chiara: doveva bonificare la Dc di Lima e Ciancimino. La mossa di Mattarella arrivò quando si trattò di scegliere il nuovo sindaco di Palermo. Lui scelse, e riuscì a far eleggere, un giovane professore che era stato tra i consiglieri del fratello: Leoluca Orlando» (Messina). «Ce l’avrà per sempre sulla coscienza. Leoluca era ancora un placido Dc, ma la promozione gli dette al cervello. Divenne un compulsivo antimafioso e il prototipo di chi su questo imbastisce la carriera, finendo per accusare di connivenza perfino Giovanni Falcone» (Perna). «Poi De Mita, quando arrivò a Palazzo Chigi, lo richiamò a Roma. Ministro dei Rapporti col Parlamento. Andreotti lo nominò alla Pubblica istruzione. […] La sera del 26 luglio 1990 […] – con un gesto che ancora oggi Berlusconi ricorda –, si dimise da ministro della Pubblica istruzione perché Andreotti aveva posto la fiducia sulla legge Mammì, quella che sanava definitivamente le tre reti televisive del Cavaliere. Si dimisero in cinque (c’erano anche Martinazzoli, Fracanzani, Misasi e Mannino), ma fu lui a spiegare quel gesto di rottura senza precedenti: […] "Riteniamo che porre la fiducia per violare una direttiva comunitaria sia, in linea di principio, inammissibile…". Poi, quella sera, incrociò Martinazzoli e gli chiese: "Hai consegnato la lettera di dimissioni?". "Certo, l’ho appena fatto". "E hai fatto una fotocopia?". "No, perché?". "Perché Andreotti è capace di mangiarsela, la tua lettera, pur di farla scomparire…"» (Messina). «Andreotti per tutta risposta in sole ventiquattr’ore nominò cinque nuovi ministri, scegliendoli in parte dalla stessa corrente, e la legge Mammì fu approvata» (Sorgi). «Mattarella tornò a fare il deputato. Ripensarono a lui quando si trattò di riscrivere la legge elettorale per adeguarla all’esito del referendum di Mario Segni. Così nacque quell’incastro tra collegi uninominali e quote proporzionali che fu poi battezzato da Giovanni Sartori con il nome del suo autore: Mattarellum» (Messina). «Prevedeva il 75 per cento di eletti nei collegi uninominali e il 25 per cento di eletti nelle liste bloccate scelti dai partiti. “Lui si occupò soprattutto della seconda parte”, malignano ancora oggi. Ma il futuro presidente ha sempre difeso il suo lavoro: “Quella legge ha prodotto un bipolarismo solido”» (Damilano). «Il meccanismo fu paragonato all’ornitorinco, mammifero australiano con becco d’anatra, mani di scimmia, coda di foca. Col Mattarellum si votò tre volte, nel 1994, 1996 e 2001, con vittorie ripartite tra destra (due) e sinistra. Messo alla prova, il sistema se la cavò» (Perna). «Ironia della sorte, quel sistema studiato a tavolino da uno che a trent’anni costruiva scientificamente, insieme al fratello, strategie e candidature per le elezioni regionali siciliane, invece di garantire il traghettamento di quel po’ ch’era rimasto della classe dirigente dall’epoca della dannazione al nuovo mondo, aprì la strada a Berlusconi e a un centrodestra imbastito in fretta e furia, arrivato assai acerbo nella stanza dei bottoni» (Sorgi). «Ma lui fu uno dei pochi che sopravvissero alla Prima Repubblica, perché l’unica macchia che erano riusciti a trovargli era una vecchia storia di buoni benzina regalatigli da un costruttore siciliano (assoluzione piena, "il fatto non sussiste")» (Messina). «In quell’incredibile ’94, […] Sergio Mattarella una volta perse la calma. Sarà stato il 20 di giugno, in un sotterraneo dell’hotel Ergife, un albergone romano sulla via Aurelia usato per celebrare i concorsi pubblici con migliaia e migliaia di candidati. In una saletta dalla luce incerta, non distante da quella in cui qualche mese prima Craxi aveva gettato la spugna, il Partito popolare erede della vecchia Dc rifletteva sulla peggiore sconfitta della sua storia: dieci milioni di voti, raccolti e persi per la maggior parte nei collegi, dove la legge spietata del “vince chi ha un voto in più” aveva visto cadere decine di candidati, e alla fine solo una novantina di eletti arrivare a Camera e Senato. Il fondatore, Martinazzoli, s’era dimesso. Tra risentimenti e divisioni interne, era arrivato inaspettatamente a succedergli il professor Rocco Buttiglione, teorico di una inevitabile svolta a destra del partito che aveva nel suo Dna il “centro che guarda a sinistra”. Tensione, proteste, inutili discussioni regolamentari, come succede spesso quando la politica non ha più argomenti, e però i numeri sono numeri e Buttiglione ce la fa. A quel punto, un pezzo di sinistra Dc, che fino a quel momento aveva governato il partito, si alza e se ne va. Escono gridando, sotto gli occhi increduli di chi rimane: “Fascisti, fascisti, fascisti!”. A guidare il piccolo corteo dei resistenti ci sono Rosy Bindi e Mattarella» (Sorgi). «Mattarella fu […] anche uno dei sottoscrittori della candidatura a premier di Romano Prodi, schierando il partito con il centro-sinistra. Poi vennero l’Ulivo, la Margherita e infine il Partito democratico, del quale Mattarella scrisse (con Pietro Scoppola e altri quattro) il manifesto fondativo» (Messina). «Quando, ai tempi della Bicamerale, lo avevano visto uscire dalla casa di Gianni Letta, dove aveva cenato con Berlusconi e Fini, così Mattarella si giustificò con l’allora cronista dell’Unità Rosanna Lampugnani: “Davvero credete che nel 1947 non ci fossero cene e incontri riservati? L’articolo 7, per esempio. Pensate che si sarebbe potuto scrivere senza contatti riservati tra Togliatti, De Gasperi e il Vaticano?”» (Francesco Merlo). «Non fu Prodi […] a farlo tornare al governo, ma Massimo D’Alema. A Mattarella toccava la guida del gruppo dei ministri del Ppi, e dunque la vicepresidenza del Consiglio. Poi arrivò anche il ministero: la Difesa. E lui realizzò l’impresa che non era riuscita a nessuno dei suoi predecessori: l’abolizione della naja, il servizio militare obbligatorio. Restò anche con il governo Amato, poi lasciò il governo e, nel 2008, anche il Parlamento. Che però si è ricordato di lui quando […] bisognava trovare il nome di un giudice costituzionale che avesse un ampio consenso. E lui fu eletto. Sembrava che non ce l’avesse fatta, che avesse mancato il quorum per un solo voto, ma quando le schede furono ricontate si scoprì che quel voto in più c’era. Era il 5 ottobre 2011» (Messina). Accidentata apparve in un primo momento anche la strada per il Quirinale, a inizio 2015: dapprima escluso da Silvio Berlusconi per via dell’insofferenza più volte dimostrata nei suoi confronti, il suo nome fu infine imposto dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, che finì così per provocare la rottura del cosiddetto Patto del Nazareno (tra Partito democratico e Forza Italia), ponendo le premesse della propria fatale débâcle referendaria: il 31 gennaio 2015 Sergio Mattarella fu quindi eletto presidente della Repubblica, con 665 voti (su 995 votanti). Da allora il presidente ha dovuto affrontare due crisi di governo: quella successiva alle dimissioni di Renzi, che portò rapidamente all’insediamento di Paolo Gentiloni alla presidenza del Consiglio (12 dicembre 2016), e quella ben più lunga successiva alle elezioni del 4 marzo 2018, il cui esito (nessuna formazione autosufficiente, con la coalizione di centrodestra prima forza politica e il Movimento 5 stelle primo partito) lo pose di fronte a complessi tentativi di soluzione. Determinato a rispettare la volontà elettorale, affidò un mandato esplorativo dapprima al presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, per sondare le possibilità di un accordo tra M5s e centrodestra, e poi al presidente della Camera Roberto Fico, per tentare un’intesa tra M5s e Pd, in entrambi i casi invano; quando poi M5s e Lega ebbero redatto un programma comune accordandosi sul nome di Giuseppe Conte, Mattarella gli affidò l’incarico di formare un nuovo governo, respingendo però con fermezza la proposta di nominare a capo del ministero dell’Economia e delle Finanze il professor Paolo Savona, a causa dei suoi progetti relativi a un’uscita dell’Italia dalla moneta unica. Irremovibile di fronte all’ostinazione dei due partiti sul nome di Savona, il capo dello Stato lasciò che Conte rimettesse l’incarico, affidandolo quindi all’economista Carlo Cottarelli. Spiazzati dall’iniziativa, leghisti e grillini, abbassati rapidamente i toni della polemica (particolarmente scomposti quelli del segretario del M5s Luigi Di Maio, che nel volgere di poche ore annunciò a gran voce e poi ritirò sommessamente la proposta di porre Mattarella in stato d’accusa), si affrettarono a proclamare la disponibilità a formare un esecutivo con un ministro diverso da Savona all’Economia e alle Finanze: Conte ottenne così nuovamente l’incarico, e il 1° giugno 2018 il suo governo ebbe inizio, chiudendo una crisi iniziata quasi tre mesi prima. «È un dato oggettivo che il 2018 abbia rappresentato una svolta decisiva per questo Quirinale. Un cambio di passo al quale Mattarella “si è rassegnato”, dicono coloro che gli stanno vicino. Il mutamento scatta dopo il voto del 4 marzo, quando il risultato delle urne gli impone di fronteggiare una stagione inedita. Evaporata la maggioranza che lo aveva eletto, composta da partiti collaudati da una lunga esperienza politica, deve fronteggiare un campo di forze populiste e sovraniste che esprimono proposte drogate dall’azzardo e contraddittorie oltre che, specie per i 5 Stelle, con lacune d’esperienza da colmare. È così che lo schivo e laconico giurista i cui ascendenti sono Sturzo, De Gasperi, Moro e il fratello Piersanti (cresciuto quindi nella cultura della complessità) è costretto a farsi più forte e giustifica la trasformazione, collocandola nella logica dei poteri “a fisarmonica” assegnati ai presidenti. Poco dev’essergli importato sentirsi poi definire da qualcuno “premier ombra” o “badante del governo dei ragazzi”, perché convinto di non travalicare confini impropri. E perché aveva ben altro cui pensare, sotto il peso di una crisi plurale che si scaricava anche sul Quirinale. […] Una funzione “di accompagnamento”, nel caso dell’esecutivo gialloverde, visibile in particolare nell’attenzione che Mattarella ha dedicato alla sfera economica. Cioè nell’aver posto come essenziali i vincoli finanziari, perché quello era il problema da lui sollevato fin dall’atto di formazione del governo. Non metteva ostacoli al programma (“ho le mie idee ma devo metterle da parte”, ripete spesso), purché rientrasse nei limiti consentiti dall’articolo 81 della Carta sull’equilibrio tra entrate e spese. Un’ottica in cui va inquadrato pure il suo “no” a Savona» (Breda). Molto importanti anche i suoi interventi a tutela della politica estera italiana, più volte minata da improvvide e contraddittorie prese di posizione assunte da esponenti di primo piano dell’esecutivo, nell’impenetrabile silenzio della Farnesina. «Con tatto e determinazione Mattarella […] ha spinto il governo gialloverde lontano dall’abbraccio con i chavisti di Maduro, ha mediato con Emmanuel Macron il ritorno dell’ambasciatore francese ritirato da Palazzo Farnese ed ottenuto dal premier Conte una revisione del testo del Memorandum d’intesa con Pechino che esclude temi di alto valore strategico come il 5G. Ed a ciò bisogna aggiungere il ruolo, meno apparente ma altrettanto cruciale, su altri dossier: dal rispetto delle intese con Washington sul pagamento degli F-35 già consegnati alla realizzazione del gasdotto EastMed destinato a diversificare la nostra dipendenza energetica. Stretto fra inconsuete scelte gialloverdi sulle questioni di sicurezza nazionale ed esplicite richieste di mediazione da parte di partner ed alleati, Mattarella è diventato il garante della nostra permanenza a pieno titolo nelle alleanze internazionali – Ue e Nato – che hanno distinto la posizione internazionale della Repubblica negli ultimi 70 anni. È legittimo dunque chiedersi il perché di tale scelta del capo dello Stato, e la risposta deve essere individuata non solo in necessità oggettive di tutela dell’interesse nazionale dalla più alta carica della Repubblica, ma dal suo ruolo di custode dei valori nazionali e della Costituzione. […] Ovvero, nel Dna dell’Italia repubblicana c’è la scelta di essere protagonista di alleanze con Paesi che condividono i nostri princìpi e valori al fine di preservare pace e sicurezza internazionale. Ciò non significa voltare le spalle ad altri possibili partner, bensì affrontare opportunità e rischi sulla scena globale sempre al fine di rafforzare – e non indebolire – le alleanze a cui apparteniamo. Interprete e garante di tali princìpi della Costituzione, Mattarella ha visto questa responsabilità aumentata in ragione di una raffica di scelte avventate da parte del governo gialloverde. Questo è il motivo per cui leader di governo e ambasciatori Ue e Nato, così come un numero crescente di cittadini intimoriti dal rischio di serie crisi fra partner, guardano con sempre maggiore attenzione verso il Colle più alto» (Maurizio Molinari). «Come sarà il suo futuro da presidente? Il suo soft power rientrerà nella silenziosa e poco attiva ortodossia? Difficile, perché lo aspettano due transizioni costituzionali complicate, che gli alleati di governo inseguono e sulle quali dovrà vigilare: la democrazia diretta e il federalismo differenziato» (Breda) • «Mi pare utile riproporre la formula di “presidenzialismo prudenziale”. In altri termini: il presidente è divenuto non solo il garante, ma anche un appiglio. Un’àncora. Non solo per chi sostiene le ragioni della democrazia rappresentativa. Ma anche per chi vorrebbe andare oltre. Senza, però, correre il rischio di sprofondare. Nella “terra di nessuno”. Oltre la democrazia. Fuori dall’euro. E dall’Europa. Perché gli italiani non amano l’Unione europea, tanto meno l’euro, ma non vogliono restarne fuori. Per prudenza. […] In questa democrazia im-mediata, il compito gravoso, ma necessario, della mediazione spetta al presidente. Sergio Mattarella. Il garante della democrazia rappresentativa. Un sistema con molti limiti, molte varianti, molte tensioni. Ma ancora difficile da sostituire» (Ilvo Diamanti) • Vedovo di Marisa Chiazzese (morta nel 2012), tre figli: Laura, che lo assiste in qualità di supplente consorte del presidente della Repubblica, Francesco e Bernardo. «La famiglia, per Mattarella, forse viene prima della politica. Ha fatto da padre ai figli di Piersanti (Bernardo e Maria) e trova sempre il tempo per giocare con i […] nipotini che gli hanno dato i suoi tre figli» (Messina) • «È cattolico: un cattolico laico, democristiano, alla De Gasperi, non un baciapile» (Sorgi) • «Parla con voce bassa, la grisaglia grigia d’estate e d’inverno, detesta le interviste e le telecamere, il rumore della politica e le polemiche. […] È un uomo mite fino a quasi ad apparire fragile: ma non bisogna farsi imbrogliare dalla timidezza. […] Un gesto, di solito, avverte che sta per perdere la pazienza: quando si porta le mani agli occhialini e cerca di aggiustarseli sul naso. Ma capita di rado. Tutte le biografie concordano: coltiva le virtù della pacatezza e dell’equilibrio, della prudenza […] e del dialogo. È, forse, l’ultimo moroteo» (Roncone). «Chi ha avuto il rarissimo privilegio di conoscere di persona Mattarella fuori dai ranghi dell’ufficialità, oltre a un paio di curiosi occhioni azzurri quasi da cartone animato ha avuto l’impressione di un uomo molto sorvegliato, che parla poco, ma, quando è tranquillo, se parla è parecchio spiritoso. Tanto conciso quanto tagliente» (Filippo Ceccarelli) • «Non sa nuotare, una volta – quand’era direttore del Popolo – accettò di giocare con i suoi redattori a Risiko, è un buon intenditore di calcio e tifa Palermo (con una debolezza, sembra, per l’Inter)» (Roncone) • «Renzi è per lui quell’alieno che un giorno di gennaio lo ha candidato al Quirinale, sorprendendolo: “Io davvero Renzi non l’avevo mai incontrato in vita mia”. Dalla sinistra Dc vengono tutti i suoi amici, e anche tutti i suoi collaboratori al Quirinale, dove ha mantenuto solo una segretaria e il capo dell’ufficio legislativo ereditati da Napolitano» (Salvatore Merlo) • «Dicono di lui che non ami la mondanità. Vive da solo (è vedovo, e le visite al cimitero sono le sue sole concessioni al privato) in un piccolissimo appartamento ai piani alti del Quirinale, dai quali scende ogni mattina – affrontando una piccola scala interna – nel suo studio, nel quale riceve molte persone, sempre riservatamente. I retroscenisti dei giornali, che gli attribuiscono frasi e talvolta perfino sfuriate, vaneggiano. Quando riceve qualcuno, il presidente è solito ascoltare, e quasi mai parlare. Ascolta, anche con l’ausilio di un apparecchio acustico che potrebbe tradirlo: ma ascolta, fissando il suo interlocutore senza quasi mai lasciar intendere il proprio pensiero. Quando lo fa, lo fa però senza sconti. Dicono di lui che sia solo apparentemente conciliante: e che sappia essere, quando occorre, molto duro. Dicono pure che abbia memoria d’elefante: e, se qualcuno gli mancò di rispetto, non se ne dimentica, anche dopo trenta o quarant’anni. Se poi qualcuno manca di rispetto al suo Paese, non gliele manda a dire: quando incontrò Putin per la prima volta, a Mosca, e si sentì "spiegare" quali fossero gli interessi degli italiani, rispose secco: "Caro collega, gli interessi degli italiani li so valutare io". […] Antinarciso in un mondo di narcisi, Mattarella si espone il meno possibile, e finisce paradossalmente per farsi notare di più» (Michele Brambilla). «Un uomo in cui tutto, il tratto, la compostezza, la calma, è istituzionale (persino troppo), proprio come gli abiti che indossa e che non piacciono al suo sarto di Palermo: sempre a tre bottoni, grigio, grigio scuro, nero. Ma è così che Mattarella si difende, nessuna vibrazione ostile può mai turbarlo. […] Il suo è il ritmo dello studioso, di chi ha vissuto sempre a contatto con una buona biblioteca privata: il rapporto quotidiano con spiriti austeri, un luogo dove regnano saggezza, penombra, silenzio, l’abitudine tenace all’ordine più rigoroso, nello spazio come nei tempi, che sono sempre lunghi, lenti, riflessivi. E forse il segreto che persegue è la semplicità» (S. Merlo). «“La sobrietà di vita è una delle cifre degli statisti”, ha detto […] ricordando l’amico Giovanni Goria. […] Ma la sua non è una sobrietà alla Mario Monti: non si traduce in un loden, neppure la sobrietà è esibita. È un uomo in grigio. Un uomo invisibile. Ma non spento, per nulla incolore o malinconico. […] Di ironia sottile, fredda, anglosassone. Di passione contenuta, intransigente» (Damilano) • «In confronto a lui, Arnaldo Forlani è un movimentista» (Ciriaco De Mita). «Un monaco» (Silvio Berlusconi) • «Però, come tutti, anche Mattarella è stato giovane, e non sempre misurato fino all’ascetismo. […] È […] stato ricordato lo scandalo che suscitò in lui, obbligandolo al grido di dolore, un Tour di Madonna arrivato in Italia nel 1990, il Blond Ambition Tour: Mattarella era ministro dell’Istruzione e gli corse l’obbligo di dichiarare “eretico” lo spettacolo della popstar. Una nota ufficiale diffuse l’opinione del titolare del ministero sull’“offesa al buongusto” meritevole della “condanna nei confronti di miss Luisa Veronica Ciccone, colpevole di usare e abusare in scena di simboli ed emblemi religiosi” (si noti l’uso di “miss Luisa Veronica Ciccone” al posto dello sconveniente “Madonna”). Altre volte disse a Berlusconi tutto quello che pensava di lui. […] “Il programma di Berlusconi è un pacchetto che disegna una fisionomia dai tratti illiberali”; “C’è incompatibilità tra la condizione di presidente del Consiglio e di padrone di tre tv”; “Berlusconi antepone gli interessi di parte a quelli della funzionalità delle istituzioni”. E, infine, quando Berlusconi entrò nel Ppe, Mattarella lo scansò: “Non basta invadere l’Impero per diventare civis Romanus”: barbaro eri e barbaro resterai» (Mattia Feltri). «Il suo anti-berlusconismo non è politico, va molto al di là della decisione di dimettersi da ministro per protestare contro la legge Mammì sulle tv nel 1990. È un anti-berlusconismo etico, una scala di valori contrapposta, inconciliabile con l’Arcore style. È (anche) a lui che si riferiva quando attaccava “il bombardamento commercializzato dei modelli di vita che ha accentuato il pericolo del conformismo”. Alternativo antropologicamente al berlusconismo, al fighettismo, al libertinismo, specie quello intellettuale» (Damilano) • «“Io – mi disse una volta Mattarella – ho l’orgoglio della storia migliore della Dc, che è un momento importante della storia migliore del Paese”. […] Sergio Mattarella, proprio grazie alla tragica Sicilia mafiosa e antimafiosa a cui appartiene, fu infatti la faccia drammatica dell’altra Dc, quella che dentro la Dc svolgeva il ruolo dell’anti-Dc, quella che appunto già allora si “scorporava” da sé, dal padre Bernardo, che fu un notabile palermitano, ma anche dal fratello Piersanti che era il suo opposto, il siciliano allegro, chiacchierone e spavaldo, l’hidalgo di quella Sicilia “che è più Spagna della Spagna”. Fu infatti Sergio che diede vita alla primavera palermitana di Orlando, Sergio che cacciò le clientele ereditate dal padre, Sergio che ora non ha clero, non ha uomini nelle commissioni, negli enti locali, in Parlamento e neppure fa paura ai giornali. Non esiste il mattarellismo perché Sergio fu la Dc che in nome della Dc avvelenò i pozzi di casa. “Sergio diceva anche nei comizi — racconta oggi Vito Riggio — che la sua, la nostra, era la Dc come doveva essere, e non com’era”. Da vicesegretario di Forlani apertamente criticava Forlani, che reagiva così: “Sospetto che il mio vice faccia in realtà le veci di qualcun altro, ma non ho capito di chi”. E Andreotti, di cui fu ministro della Pubblica istruzione: “Quel Mattarella che rilascia dichiarazioni contro il governo dev’essere un omonimo del ministro che sta nel mio governo”. Ecco, Mattarella fu il sabotatore della casa, l’invenzione più riuscita della democristianità siciliana: quella che l’avvelenò per purificarla» (F. Merlo). «A differenza del suo diretto predecessore Giorgio Napolitano, Mattarella non ama pubblicizzare i suoi interventi presso gli altri palazzi romani. Legge tutti i retroscena, ma non smentisce mai. Il suo Quirinale è, prima di tutto, un gigantesco centro di ascolto in cui confluiscono appelli, richiami, allarmi, progetti. […] Per Napolitano, discepolo di Giorgio Amendola, cresciuto nel Pci togliattiano, la politica è rapporto di forza, un processo guidato dall’alto da personalità illuminate. Per Mattarella, invece, la politica ha il compito di ascoltare, accogliere, rappresentare le istanze della società, che non sono il prodotto di un laboratorio di Palazzo. Lezione tanto più utile in epoca di anti-politica e di rivolta dei cittadini contro le élite» (Damilano). «Un vecchio democristiano di sinistra, quanto di più illiberale abbiano prodotto, da noi, la cultura politica egemone e il sistema politico. […] Il sistema informativo ha celebrato Mattarella, prima ancora che fosse eletto, come persona di poche parole, “uomo discreto”, e perciò stesso affidabile. Personalmente, ho sempre pensato che chi parla poco, in realtà, non direbbe nulla di rilevante, come credono molti, se parlasse, e, probabilmente, è solo uno che non ha nulla da dire. Mattarella, nel corso della sua lunga milizia politica, ha peraltro parlato, e chiaramente, a sufficienza per aumentare, se mai, il sospetto che la sua elezione non sia un progresso, bensì una regressione sulla strada della modernizzazione del Paese. Come democristiano di sinistra ho già detto da quale piede zoppichi. Aggiungo che egli è anche tipicamente un uomo di quello stesso establishment conservatore che è solito cambiare qualcosa affinché nulla cambi» (Piero Ostellino) • «Un partito, un politico, nelle istituzioni si deve sentire ospite, anche se protagonista».