La Stampa, 22 luglio 2019
Mangeremo tecno insalata coltivata da contadini-robot
Avevo appena finito di leggere Il destino del cibo dell’americana Amanda Little, esperta di problemi ambientali. Sennò neanche me ne accorgevo. Coltura idroponica (per me e come credo per la maggioranza di voi) non significava nulla, prima di quella scioccante lettura. Il saggio della Little, che è una ricerca sul campo piena di dettagli e notizie su cosa ci attende nel piatto in un futuro inquinato, surriscaldato, sovrappopolato e a corto di acqua, parlava appunto di cibi coltivati in grandi hangar, senza terriccio, ma con le radici nell’acqua (coltura idroponica) e nell’aria (aeroponica), e luci a led al posto del sole. Un buono spunto per una puntata della serie tv Black Mirror o per nuove inquietanti distopie degli epigoni di George Orwell, Aldous Huxley o Ray Bradbury. Invece no. Siamo a Londra, luglio 2019.
Faccio la spesa al supermercato Tesco e compro una busta di insalata. Sono di fretta, infilo nel carrello. Me ne accorgo solo a casa: le foglioline, all’apparenza tenere e del giusto colore, sono state coltivate con sistema idroponico e luci a led nel pieno centro di Londra, 33 metri sotto terra, nel quartiere di Clapham, codice postale SW4. Infatti sulla busta, leggendo con più attenzione, spiegano che la Urban Mix è prodotta dalla Growing Underground SW4. La cerco su Google, e sul sito mi appaiono due signori in camice da laboratorio, con le mascherine. Sembrano infermieri e sullo sfondo scaffali asettici bianchi da cui spunta una coltre verde, che si immaginano piantine, come in un’incubatrice dalla luce rosata.
Fattorie sotterranee
Il luogo, definito «fattoria urbana», è un ex rifugio antiaereo della Seconda Guerra Mondiale. Ne vanno talmente fieri che organizzano anche tour. Per la modica cifra di 39 sterline, 45 euro, se qualcuno è interessato nel prossimo viaggio a Londra può togliersi lo sfizio. La fattoria sotterranea viene venduta come la risposta sostenibile e ecologica al trasporto assurdo di merci fresche, che a Londra arrivano dal Perù, dall’Africa e da ogni luogo del pianeta (il posto più vicino è la Spagna). Un chilometro zero della nuova era insomma. Le ho assaggiate. Scordatevi il sapore dell’insalata, il gusto, la fragranza. La consistenza e il colore, ci sono, anche se un po’ più vischiosi. Ma per il resto, siamo su un altro pianeta.
Però la Little scrive che questo sarà il futuro. E che bisogna superare «il fattore schifo». La soluzione sostenibile per nutrire il mondo verrà in gran parte dalla tecnologia. Bill Gates l’aveva già detto nel 2014: «E’ il momento di ripensare il cibo».
Amanda Little, piuttosto scettica all’inizio, sembra dare credito ai geek tecnologici e alle loro trovate. Negli States, per esempio, è già in corso una rivoluzione nelle fattorie grazie a contadini-robot capaci di ridurre l’impatto ambientale delle colture: tolgono le erbacce, dosano al minimo i diserbanti e pesticidi. L’inventore è un ingegnere della Silicon Valley.
In Norvegia la compagnia Mowi , la più grande industria ittica del globo, produce 1 miliardo e mezzo di salmoni di allevamento all’anno. Entro il 2050 i loro salmoni diventeranno vegetariani e saranno nutriti a pellets fatti di granaglia e alghe ricche di omega 3. E intensificherà in Asia gli allevamenti di pesci tropicali economici come la tilapia, la carpa, il pesce-gatto e il barramundi.
Torri aeroponiche
In Cina, dove si deve nutrire una popolazione che veleggia verso il miliardo e mezzo di abitanti, il governo sta investendo in fattorie verticali dentro enormi capannoni, dove i vegetali crescono un terzo più grandi del normale senza bisogno di terreno né di pesticidi a una velocità quasi doppia, quindi si possono fare più raccolti all’anno.
Jeff Bezos, il fondatore di Amazon ha investito in una startup di San Francisco che nel giro di un paio di anni avrà messo a punto 300 fattorie supertecnologiche idroponiche e aeroponiche in Cina. Il futuro dell’agricoltura è lì: negli Usa gli investimenti nel settore sono saliti del 60% negli ultimi 10 anni. La società AeroFarms ha costruito torri aeroponiche alte 12 metri in grandi magazzini intorno a New York dove coltivare insalatine e altri ortaggi in un ambiente illuminato a Led e monitorato da computer. E le stanno esportando in Cina, Emirati Arabi e Arabia Saudita.
Ingegneria genetica
Ma non finisce qui. Un beverone vegano da 400 calorie che permette la sopravvivenza di un essere umano è già acquistabile su Amazon. Si tratta del Soylent, pranzo (si fa per dire) completo e bilanciato, composto da 20 grammi di proteine vegetali, carboidrati estratti dalla barbabietole, Omega 3 e 26 tra vitamine e minerali. Si può scegliere al gusto caffè o cacao (circa 45 euro per 12 porzioni». E’ creato in laboratorio, «un prodotto geniale dell’ingegneria genetica» come lo pubblicizzano: costa poco, ha un impatto ambientale ridotto e secondo i guru tecnologici californiani potrebbe essere pompato direttamente nelle tubature e destinato all’uso domestico in caso di crisi alimentare.
Carni in provetta
Della carne si è già detto e scritto tanto e ormai anche il più incallito carnivoro sa quanto sia alto l’impatto ambientale di una bistecca. Ma non disperate. I primi hamburger di finta carne sono già sulla rampa di lancio e le startup nel settore sono super attive. Memphis Meats, in California, sta sperimentando la produzione di carne in vitro, usando tessuti connettivi, grasso e muscoli di esseri viventi. La carne in provetta taglia le emissioni di tre quarti e il consumo di acqua del 90%, ammesso che qualcuno abbia il coraggio di provarla. Chi l’ha fatto giura che non ci si accorge della differenza. In effetti gli hamburger senza carne sono già in commercio, li produce Beyond Meat, mischiando proteine di soia e piselli e colorando con sugo di barbabietola rossa. Poi ci sono i cibi liofilizzati della Wise Company, in Utah che ogni anno raddoppia il fatturato perché la gente fa scorte in caso di catastrofe ambientale. Per non parlare del cibo stampato in 3D che i soldati americani in ogni parte del mondo potranno usare entro il 2025. Un sensore sulla tuta individua la mancanza di un nutriente nel corpo (metti la vitamina D) e stampa la barretta relativa.
E’ il paradosso di una società opulenta che ha superato il limite. Idolatra il cibo e i suoi guru e come in un girone dantesco, il contrappasso sarà passare da Masterchef alla scarsità, dal gourmet alla fame. Il segreto sta tutto nel superare quello che la Little chiama «fattore schifo» e adattarsi all’idea che insetti, alghe, ogm, pasti vegani e buste liofilizzate saranno la quotidianità.