La Stampa, 22 luglio 2019
I figli ammazzati di botte dai genitori-bambini
Di emergenza- minori si parla da tre settimane per l’ inchiesta "Angeli e Demoni" della procura di Reggio Emilia su un presunto giro di affidi illeciti a Bibbiano, nella Val D’Enza. Ma i numeri sull’infanzia maltrattata sono allarmanti dall’inizio dell’anno in tutta Italia.
Chi passa davanti al cancello scuro pieno di peluche e bambole di corso Trieste abbassa lo sguardo e si allontana in fretta. Palazzine scrostate e villette in vendita da anni con l’erba alta, qualche fabbrica che ha resistito alla crisi e un abbozzo di centro commerciale: tre mesi dopo nel quartiere Sant’Agabio, periferia di Novara, nessuno ha più voglia di parlare di Leonardo Russo, bimbo di venti mesi ammazzato di botte dal patrigno.
Le giovani famiglie in crisi
Il processo alla madre, Gaia Russo, 22 anni, e al suo compagno Nicolas Musi, 23, si alimenta con i servizi alla tv e continua sui social network con migliaia di commenti divisi tra minacce di morte, insulti e chiacchiere di paese. Gaia, al settimo mese di gravidanza, è ai domiciliari con l’accusa di omicidio volontario pluriaggravato. Anche se è molto giovane, ha vissuto tanto e in fretta. I suoi numerosi profili di Facebook raccolgono qualche scatto spensierato dell’adolescenza, poi l’amore con Mouez Ajouli, il padre di Leonardo e anche di una bimba e un bimbo con i capelli ricci e la pelle ambrata. Nella gogna virtuale le più commentate sono le fotografie con Nicolas, per i social Nico Cerra. C’è l’aggiornamento di stato di gennaio: «Fidanzamento ufficiale». Aprile: «Convivenza». Nico negli anni ha pubblicato decine di sue fotografie, ma solo di due tipi: in posa sorridente con un bambino in braccio. Con i suoi fratelli più piccoli, con Leonardo. In tutte le altre invece fuma. Canne e bong. Lui è cresciuto con il compagno della madre, ma il suo padre biologico è un altro. «Per questo quei due l’hanno sempre picchiato» ha detto l’uomo alle telecamere per difendere il figlio.
«Quei due», la madre e il compagno, hanno buttato Nicolas fuori casa a 16 anni. Lui li ha denunciati, cinque anni fa. Ma il processo è iniziato solo ora. Troppo tardi. Nicolas si è ritrovato in fretta nel ruolo di chi l’aveva picchiato e abbandonato, e ha fatto peggio. Da vittima si è trasformato in spietato carnefice. Nelle cronache degli ultimi mesi, si rincorrono le storie di bambini ancora piccoli ammazzati di botte dai genitori.
Separazioni difficili
La scorsa settimana a San Gennaro Vesuviano, Napoli, Salvatore Narciso, 35 anni, ha lanciato la figlia Ginevra, 17 mesi, dal balcone. A Cremona a fine giugno Jacob Danho Kouao, operaio ivoriano, 27 anni, ha ucciso a coltellate sua figlia Gloria, 2. Poi ha provato a suicidarsi con una lametta nella pancia. Si era da poco separato dalla moglie, che l’aveva affidata a lui per poche ore. Lo stesso giorno un’altra bimba, otto mesi, è morta nell’ospedale Umberto I di Nocera Inferiore, Salerno. Era piena di lividi e lesioni, c’è un’inchiesta per capire cosa sia successo in un’altra giovane famiglia, già seguita dai servizi sociali. I protagonisti di queste storie dell’orrore sono «genitori fragili». Ragazze madri che restano sole, senza un lavoro stabile, il contributo del partner o una rete di sostegno. Giovani donne, prima vittime e poi complici di giovani uomini violenti, impreparati a prendersi cura di figli che non riconoscono come una loro responsabilità. Fragili sono le famiglie numerose con scarsa disponibilità economica, quelle dove uno o tutti e due i genitori stranieri hanno difficoltà di integrazione sociale.
Fragili sono le famiglie dove tra i genitori la separazione è difficile. «Lo avevo solo picchiato, come le altre volte» è in sintesi la difesa di Tony Essobti Badre, 24 anni, che ha ucciso con un manico di scopa Giuseppe Dorice, 7, davanti alla sorellina. Giuseppe era il figlio della compagna, Valentina Cara, 30 anni, tre figli avuti da ragazza e gli studi abbandonati per mantenerli. Lei c’era, ha ripulito il sangue e non ha chiamato l’ambulanza. Voleva proteggere il suo uomo. Come Donatella Di Bona, 28 anni, che è arrivata al Pronto soccorso con il figlio Gabriel Feroleto, 2, in braccio. Morto. Prima ha detto di averlo investito con l’auto, poi che era stato il padre Nicola. Infine, la confessione: si erano visti nel pomeriggio in un campo di Piedimonte San Germano, Frosinone, per fare l’amore. Erano genitori e coppia clandestina. Il bimbo piangeva, la mamma l’ha strangolato e il padre è rimasto a guardare. Anche Mehmed Hrustic, 2 anni e 5 mesi è stato ammazzato di botte dal padre, Aliza Hrustic, davanti alla madre Silvija Zahirovi, 23 anni, incinta del quinto figlio. Vivevano in una palazzina popolare occupata nel quartiere San Siro, Milano. Come in tutti gli altri casi, anche qui c’è la testimonianza del vicino di casa che aveva sentito urla e pianti. Giovani vite a rischio, che non siamo capaci di salvare.
Un fenomeno sommerso
Nemmeno sappiamo quanti bambini vivono in una situazione di pericolo, denuncia l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Se come Mehmed vivi in un casermone che cade a pezzi, tra materassi vecchi buttati nel cortile e immondizia, dove in una mattinata tranquilla arrivano un paio di ambulanze e una volante, non sei il bambino che piange, ma uno dei bambini che rompe le scatole anche di notte. «Mai sentito parlare di violenza strutturale?» quasi sospira Paolo Grassi. È un antropologo, al lavoro nel suo ufficio piantato nel mezzo del quartiere milanese. Da lì porta avanti un progetto di ricerca internazionale sul rapporto tra violenza e spazi urbani. «Nei contesti sociali segnati da profonde diseguaglianze economiche e difficoltà di emancipazione e integrazione, le vittime sono sempre i più deboli - continua -. I bimbi ammazzati sono come sfiati di violenza: li vediamo tutti, quando è troppo tardi. L’unico sforzo che può avere un senso è occuparsi e preoccuparsi delle violenze di tutti i giorni».