il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2019
Fuori moda l’abito made in Italy
Siamo nell’era di Instagram, quella in cui i fashion blogger fanno il botto di follower e affari milionari creando tendenze, consigliando stili e promuovendo vestiti, giacche, pantaloni e scarpe. Eppure sembra che la moda italiana sia da poco piombata in una nuova crisi. A raccontare di questo paradosso sono per prime le storie delle varie aziende in difficoltà: La Perla, Stefanel, Roberto Cavalli e Calvin Klein. Marchi molto famosi, alcuni hanno fatto la storia del lusso, eppure in queste settimane, nel nostro Paese, stanno tenendo con il fiato sospeso migliaia di lavoratori che rischiano di finire a casa. E a confermare che questo non è un buon momento è l’indagine interna condotta a maggio da Confindustria Moda, secondo la quale quasi un’impresa ogni tre sta chiedendo la cassa integrazione. A pesare sono i risultati negativi del primo trimestre, quando il tessile ha segnato meno 0,7% e l’abbigliamento ha perso il 4%. E se chi produce abiti e accessori è con l’acqua alla gola, le conseguenze ricadono a cascata anche su tutta la rete vendita, tanto che a giugno la Federmoda, aderente alla Confcommercio, ha lanciato l’allarme invocando addirittura lo stato di calamità, perché a penalizzare i fatturati è stata anche l’assenza della mezza stagione. Insomma, il clima ha spinto i consumatori a non comprare abiti di mezzo peso: una sciagura per i negozianti che per questo ora chiedono l’aiuto pubblico.
Da Nord a Sud, ogni territorio ha la sua crisi. E ognuna ha radici diverse: c’è quella che nasce da problemi di mercato, quella che è conseguenza di una delocalizzazione, quella che invece ha una natura strettamente finanziaria. Anche perché durante gli scorsi anni sono molti i fondi stranieri che hanno messo le mani sulle aziende del made in Italy. Questo però non sempre ha portato fortuna, tanto che oggi più di una è a un passo dal baratro. A Bologna, 126 lavoratori del gruppo La Perla, marca di intimo, stanno per essere licenziati. Un anno e mezzo fa, a febbraio 2018, l’azienda è stata acquistata dal fondo olandese Sapinda Holding che l’ha strappata a una concorrente cinese e a Calzedonia. “In 18 mesi – spiega Sonia Paoloni della Filctem Cgil – non hanno mai presentato un piano industriale né lanciato nuove collezioni. Hanno continuato a confezionare le linee che già producevano ma utilizzando molti materiali di magazzino. È ovvio che oggi il bilancio sia in perdita, non c’è stata nemmeno una politica di marketing. Ora ci dicono che vogliono licenziare 126 persone che sono impegnate nelle produzione delle collezioni. Ma se tu mandi a casa questo tipo di maestranze, è un’operazione di smantellamento”. Ora i sindacati sperano almeno di riuscire a strappare un anno di cassa integrazione, per dare il tempo a una possibile ristrutturazione, altrimenti tutti quegli addetti perderanno il posto di lavoro nel giro di poche settimane. E all’Emilia Romagna sarà sottratto un marchio del lusso nato nel 1954.
Spostandoci più a Ovest c’è un altro fronte molto caldo: la Stefanel. Questa azienda di maglieria rischia di dover dire addio alla sua sede centrale, quella di Ponte di Piave in provincia di Treviso. In quello stabilimento che nel 2000 dava lavoro a 600 persone, oggi sono rimasti in 73. E per giunta potrebbero essere messi a breve alla porta, un guaio che poi si riverserebbe anche sui quasi 200 lavoratori della rete distributiva sparsi in tutta Italia. Oggi c’è un commissario nominato dal governo che il 3 dicembre deciderà se ci sono i requisiti per ammettere l’azienda all’amministrazione straordinaria. A questo si è arrivati dopo che a settembre 2017 sono entrati nell’azionariato i fondi Oxy e Attestor. Un passaggio cui ha fatto seguito una grossa ristrutturazione, con circa 60 negozi chiusi, e soprattutto un cambio di impostazione: non più lusso, ma qualità a prezzi relativamente contenuti. Le cose però non sono andate bene, perciò nel 2018 si è provato a stipulare un accordo sul debito con i creditori. Tentativo culminato con un nulla di fatto tanto che ora si aspetta la risposta sull’amministrazione straordinaria. “Il problema – dice Tiziana Basso, segretaria della Cgil Veneto – è che spesso i fondi sono interessati ai marchi, che hanno molto valore, ma non al mantenimento del made in Italy”. Treviso potrebbe presto vedere chiusa un’azienda nata nel 1959 come Maglificio Piave.
La lotta per la sopravvivenza coinvolge anche la Roberto Cavalli. Nel 2015, mentre attraversava una fase complicata, è stata acquisita dal fondo Clessidra, società italiana di gestione del risparmio. Un’ottantina di esuberi sono usciti con gli incentivi. Ma il peggio doveva ancora venire: a fine 2018 i risultati si sono rivelati peggiori rispetto alle attese e questo ha convinto la proprietà a tirare il freno sugli investimenti. Ad aprile è stato chiesto il concordato e l’azienda è finita di nuovo sul mercato. Con tutte le incognite del caso: chi la comprerà? E quanti posti di lavoro saranno salvati? Nel frattempo sono arrivate quattro offerte ed è stata preferita quella presentata dalla Damac di Dubai. La promessa di mantenere l’attuale livello occupazionale – sono 300, con la maggior parte che è in servizio a Firenze – infonde un cauto ottimismo. Entro il 3 agosto bisognerà presentare al Tribunale un accordo per la ristrutturazione del debito, documento che dovrà ottenere il via libera dai giudici. La soluzione potrebbe essere vicina, in questo caso, ma è meglio aspettare che si ufficializzi il passaggio.
Le brutte sorprese del 2019 sono state davvero tante nel settore moda. Lo sanno bene anche gli 84 dipendenti della sede milanese di Calvin Klein, che la società ha deciso di chiudere. E lo sanno bene anche i 100 lavoratori della Brandamour di Biella, società che nel 2016 aveva compiuto una scalata acquisendo i lanifici Botto Fila e Ormezzano. A febbraio hanno scoperto che l’azienda non era in grado di pagare gli stipendi, e da allora sono rimasti a mani vuote. I tempi per attivare gli ammortizzatori sociali sono stati lunghi, e così in questi mesi sono state necessarie iniziative di solidarietà sul territorio che hanno portato un po’ di ossigeno a queste persone. “L’azienda doveva rilanciare questi marchi – racconta Filippo Sasso della Filctem Cgil –, ma a due anni da quelle dichiarazioni ci ritroviamo con una scatola vuota e professionalità per strada. Fintanto che non arriverà l’ammortizzatore siamo in grandi difficoltà”. Un paio di settimane fa, si è riusciti ad anticipare la cassa grazie a un accordo con Intesa San Paolo. Un sospiro di sollievo per l’immediato, ma il problema è nel lungo periodo, quando servirà una strategia per evitare che l’area biellese venga privata di un pezzo importante di una tradizione ultracentenaria.
Vicissitudini societarie turbolente hanno portato scompiglio anche nella Tessitura del Salento, con sede a Melpignano. L’azienda appartiene alla Canepa, a sua volta finita un anno fa nelle mani del fondo Dea. Ma anche qui le grandi aspettative sono state deluse, perché poco dopo l’acquisizione i nuovi proprietari hanno depositato una richiesta di concordato. Negli ultimi mesi del 2018 sono iniziati gli scioperi dei lavoratori che non ricevevano gli stipendi. E pure questa volta è stato necessario un nuovo passaggio di mano per dare qualche prospettiva. A intervenire è stato lo stesso Michele Canepa che ha deciso di ricomprare l’azienda di famiglia per salvarla; le incertezze per i 115 lavoratori leccesi non sono ancora finite. Sono in attesa di scoprire i piani della società per capire quando tutti potranno tornare all’opera con regolarità.
Nelle Marche non è una sola azienda ma un intero distretto a essere decimato da una crisi infinita. Quello calzaturiero è storicamente stato costituito da piccole e medie aziende, con una media di otto dipendenti ciascuna: prima gli addetti impegnati in questa filiera erano 40 mila. Ora ne sono rimasti 25 mila. “Il distretto – fa notare Sonia Paoloni della Filctem – ha subito una profonda scrematura, molte piccole imprese che lavoravano in conto–terzi o su prodotti di qualità medio–bassa sono fallite. Altre sono state acquisite”. Da un lato, c’è la concorrenza della manifattura dei Paesi in via di sviluppo, dall’altro c’è la Russia che, in risposta alle sanzioni, ha contratto la domanda. Il risultato è che l’intera area ha chiesto al ministero di aprire un tavolo. Un altro territorio in cui si lotta affinché un settore che nei decenni ha portato crescita, tradizione e stabilità nel lavoro non passi di moda.