Il Messaggero, 22 luglio 2019
Le poesie di Moravia
«Ah venga la poesia/ e faccia saltare in aria/ quei forzieri / e ne sparga/ i tesori/ ai quattro venti». Sono versi scritti da Alberto Moravia, il Moravia poeta che un po’ si conosceva per qualche anticipazione fatta in anni passati, ma che ora è tutto in un libro, il primo con i suoi versi. Ottantatré poesie scritte nella maturità, tra gli anni Settanta e Ottanta, quasi come un diario intimo dove si straccia di ogni veste pubblica. «Per mezzo secolo/ ho scritto/ con successo/ prosa/ di romanzo/ e la vita/ mi pareva/ ricca e piena / appena/ ho scritto/ poesia/la vita/ mi è sembrata/ vuota».
LA CONFESSIONEUna confessione improvvisa, un desiderio che esplode, una voce più intima e sincera che prova a dire parole più nude e vere, spezzando barriere e ostacoli di ogni tipo. Un bisogno irrefrenabile di togliersi ogni maschera, di sillabare una figurazione del mondo trepida e ansiosa, come guidata dalla scansione di un essenziale metronomo dell’anima. Una vera e propria liberazione, la poesia è strumento e momento di conoscenza e verità, grimaldello per scardinare i fossi della falsità, di ogni falsità psicologica o professionale. Autentica dinamite in grado di far saltare in aria il proprio fantasma di scrittore. «Ah venga la poesia». Moravia amava la poesia, la potenza del suo linguaggio concentrato, essenziale, allusivo, quell’oscillazione tra senso e suono in cui risiede la sua natura più enigmatica, «acqua nella profondità della terra» fatta zampillare anche nei terreni apparentemente più aridi. Da ragazzo era rimasto folgorato dalla scoperta della Stagione all’inferno di Rimbaud il cui frontespizio, nella vetrina di una libreria in Via Nazionale, fu un’autentica calamita con «un grande fascino, oscuro e davvero inspiegabile». Era nata la parentela con il poeta francese, il solo con cui gli piaceva identificarsi, non tanto per i contenuti maledetti, ma per il modo con cui essi erano violentemente espressi.
Moravia diceva proprio così: in Rimbaud lo avevano colpito «il modo, l’intonazione della voce», quella che distingue il poeta dal semplice artefice di versi. E qual è allora il modo, l’intonazione della voce che distingue il Moravia poeta o semplice dicitore di versi? Parole che si distendono sulla pagina bianca come a tentare di fissare un modo d’essere, quello dell’io che s’impone sulla dimensione collettiva: «Sto / su ramo/ secco/ mi piace/ pensare/ che presto / si spezza/ intanto continuo/ a vivere/ come se avessi/ i piedi/ in terra».
SENZA ORROREMoravia per la prima volta nudo, senza i vestiti dei suoi personaggi, dice bene la curatrice Alessandra Grandelis. «Ho fatto con orrore/ agli altri/ esattamente/ quello che era/ stato fatto a me/ senza orrore»: è una scansione del verso senz’altro narrativa anche se frantumata in versi. Parole a mo’ di Ungaretti, vuole farsi portavoce di una rivelazione, comunicare un’esperienza nel quotidiano. Moravia erode, sbriciola, smonta tutte le grandi costruzioni simboliche che pare reggano la sua poesia e possono toccare, infilzare come con uno spillo, i suo temi poetici: l’eros, il viaggio, il rapporto tra natura e storia, il passato e la memoria. Il viaggio sono le parole scritte fuggevolmente nella penombra della yurta, la scomoda tenda mongola intorno alla pura epifania delle cose, per dire stupori essenziali di fronte ai colori e agli spazi asiatici «uno specchio/ verde / in cui si riflettono/nuvole bianche». L’eros è una richiesta diretta e immediata: «Non ti piace/ scopare/ ti piace/ la tenerezza ma lo sai/ che scopare/ è tutto quello/ che possiamo/ fare?». E la voce di Moravia, che molto somiglia a quella del Moravia dicitore dei versi, è disperata, annoiata, affilata. Ragiona con la sua disperazione. Ma, pur soffocato in questo suo sentimento «continua a farsi domande». Come nel poemetto che chiude la raccolta, Notte dell’idroscalo. L’occhio di Moravia s’identifica con quello di Pelosi per osservare il massacro di Pasolini in presa diretta. E cercare quel po’ di verità ancora possibile o, almeno, il taglio del camuffamento e della menzogna non ancora estirpati..
Renato Minore