il Giornale, 22 luglio 2019
Nello spazio la maggior gloria è quella dei robot
T ra le imprese spaziali bisogna ben distinguere quelle con spedizioni di astronauti nello spazio da quelle che usano i telerobot. Tanto elevato è il valore scientifico e tecnologico di queste ultime quanto velleitario quello delle prime: le imprese di cosmonauti nello spazio non hanno alcuna giustificazione scientifica e da esse si è imparato pressoché nulla. Inclusa quella pur carica di fascino e carisma che vide l’uomo calpestare la Luna, fine della nuova era di esplorazioni umane dello spazio e giustificata solo dalla guerra fredda.
Gli uomini non hanno niente da fare nello spazio. Quello esterno alla nostra atmosfera è un ambiente a noi ostile. Se le radiazioni extragalattiche e quelle provenienti dalle semestrali tempeste solari possono evitarsi durante un viaggio di tre giorni sulla Luna, esse investirebbero almeno una volta ogni singola cellula di un ipotetico astronauta che venisse spedito su Marte. Un viaggio, questo, che, incluso il ritorno, richiederebbe almeno due anni. E anche se egli se ne stesse tutto il tempo dentro una protettiva cuccia di piombo, una volta giunto su Marte non potrebbe da quella cuccia uscire, visto che su quel pianeta non vi è un campo magnetico che devii quelle radiazioni. Ecco perché gli astronauti in orbita attorno alla Terra non sono mai stati distanti da noi più di quanto Napoli lo è da Milano. E la loro principale, e quasi unica, occupazione è stata sopravvivere.
Ma, allora, non andremo mai su Marte? In un certo senso ci siamo già stati: ad esempio, oltre vent’anni fa, quando Sojourner un piccolo robot, gioiello della tecnologia si avventurò a esplorarne la superficie. Il suo cervello e i suoi sensi erano quelli di cui gli uomini lo avevano dotato. Esso aveva persino il senso dell’olfatto: un «naso» elettronico capace di analizzare la composizione dei vapori dalle rocce di Marte. Lento e stabile, il robot andò lontano, senza mai lamentarsi del freddo delle notti né della stanchezza. Quella missione, a più di 200 milioni di chilometri dalla Terra, costò quattro volte di meno di un singolo lancio di astronauti a meno di 1000 chilometri da qui. E con un guadagno scientifico apprezzabile nel primo caso e insignificante nel secondo.
Noi uomini siamo così egocentrici che ricordiamo solo Yuri Gagarin, John Glenn o Neil Armstrong. Dovremmo invece rendere omaggio a Sojourner e agli altri suoi compagni robot. Quelli del Mariner che 50 anni fa esplorarono la tossica atmosfera di Venere. E quelli del Pioneer che, spedito verso Giove nel 1972 per una missione che sarebbe dovuta durare due anni, ha invece continuato a servire fedelmente gli scienziati per oltre 25 anni, inviando immagini e preziose informazioni qui sulla Terra. Questi e altri robot sono i sostituti dei nostri corpi. Corpi sufficientemente fragili da giustificare il bando planetario della spedizione nello spazio di astronauti: quelli coinvolti nei noti incidenti è triste, ma doveroso, ammetterlo sono stati un inutile sacrificio.