Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  luglio 22 Lunedì calendario

Le mogli degli astronauti ovvero le astrowives

HOUSTON – «Buzz Aldrin ha vissuto qui». Al 206 di Confederate Way, nel quartiere residenziale di Timber Cove, proprio alle spalle di quel Johnson Space Center dove si allenano gli astronauti, Jennifer Carr ha piantato un cartello. «Non sono tanti quelli che possono vantarsi di abitare nella casa di un eroe dello spazio», dice, offrendoti un tour: a pagamento. Chiarendo che l’anziano astronauta non si è lasciato nulla alle spalle. E per venti dollari vedi solo le mura. «Eppure per 50 anni abbiamo obbedito a una regola non scritta», ride dall’altra parte della strada un’anziana col cane che non ti dice il suo nome: «Mai rivelare dove abitavano gli eroi dello spazio. I curiosi erano ficcanaso, stalker o peggio: giornalisti». È fra queste villette che dalla fine degli anni ‘50 hanno vissuto le famiglie dei più celebri protagonisti delle esplorazioni spaziali. Una comunità così dedita al mutuo soccorso e alla protezione della privacy, che la stampa in passato ha ribattezzato “Togethersville”, la città dove si sta insieme. Ed è proprio al riparo di queste mura domestiche, fra prati ben curati e la celebre piscina pubblica a forma di navetta Mercury, che vissero le eroine dimenticate di quelle imprese spaziali: le “astrowives”, mogli degli astronauti. «Se pensate che conquistare lo spazio fu un’impresa eroica, immaginate stare a casa ad aspettare quegli eroi». Fu Barbara Cernan, compagna dell’Eugene che nel 1972 fu l’ultimo uomo a passeggiare sulla Luna, a sintetizzare la vita d’inferno di quelle donne, che i rotocalchi dipingevano invece come la nuova frontiera del glamour. Era stata la rivista Life, nel 1959, a chiamarle “astrowives”: dedicandogli una copertina all’indomani dell’annuncio di quella “mission Mercury” che diede il via all’era spaziale. Come i mariti astronauti, anche sette donne (Annie Glenn, Rene Carpenter, Louise Shepard, Betty Grissom, Trudy Cooper, Marjorie Slayton e Josephine Shirra) si ritrovarono fra le stelle: mondane, s’intende. Eppure, mogli di militari abituate alla vita spartana, poco gradirono quel ruolo di star. L’America voleva sapere cosa pensavano, cosa cucinavano, come vestivano. E loro, disabituate alle persecuzioni della stampa e senza nessuna protezione dalla Nasa, aprirono ai giornalisti le case di Timber Cove. Un errore di cui si pentirono subito: vedendo i loro prati devastati dalle telecamere e i pavimenti insozzati da cicche. Non basta. Per quella copertina di Life dove vestivano abiti pastello, si erano accordate sul colore tenue del rossetto. Ma agli editor sembrò demodé e lo trasformarono in stampa in un patriottico rosso bandiera. «Le signore ne furono avvilite. Il rosso sulle labbra era considerato volgare e peccaminoso», racconta Lily Koppel nel libro che, nel 2013, per primo ne ha raccolto le storie, The Astronaut Wives Club che ha poi ispirato anche l’omonima serie: «E pazienza se da lì a un anno quel rosso spaziale rivoluzionò la moda». Non andò meglio alle mogli degli astronauti dell’Apollo. Alla vigilia della partenza del marito verso la Luna, Janet Armstrong litigò furiosamente con Neil che rifiutava di spiegare ai bambini quanto fosse pericoloso quel viaggio. Lei urlava, lui taceva: «Il silenzio era il suo modo di dire no», confessò poi alla stampa. Andò appena un po’ meglio a Joan Aldrin, l’ex attrice moglie del Buzz che con Armstrong piantò per primo la bandiera a stelle e strisce sulla Luna. Abituata al giudizio del pubblico, era quella più evidentemente a suo agio durante i tè alla Casa Bianca con Jackie Kennedy. Felice di indossare gli abiti Pucci agli “space events”. Fin quando, almeno, Truman Capote non la mortificò; chiedendole se il suo cappello imitava il casco spaziale del marito. Stanca dei tradimenti del lunatico Buzz, ormai alcolista e assediato da groupie, divorziò poco dopo. E pensare che senza quelle mogli non ci sarebbero stati quegli eroi. Le regole della Nasa parlavano chiaro: senza matrimoni solidi, niente viaggi nello spazio. Gli astronauti non potevano permettersi distrazioni o fragilità. Tanto che alle donne si raccomandava: «Non dategli grattacapi. Tacete il conto del dentista e la lavatrice che non funziona». Non sorprende che alcune di quelle unioni furono tutt’altro che felici: o che Gordon Cooper implorò la moglie separata Trudy di tornare a casa pur di avere la sua chance nella Storia. Fra un’impresa eroica e l’altra, molti matrimoni andarono in pezzi. Qualche moglie finì per bere un po’ troppo. Pat White, vedova di Ed morto nel rogo dell’Apollo 1, si suicidò.