La Lettura, 21 luglio 2019
L’Europa di Traiano
Nel Panegirico a Traiano, la gratiarum actio, orazione pronunciata all’atto di accettare il consolato, ma rielaborata letterariamente in seguito, Plinio il Giovane proclama di avere, con l’avvento di Traiano, constatato come il principe sia non al di sopra delle leggi, ma veramente sottoposto ad esse. Autentico manifesto politico da parte del Senato, il Panegirico riconosce il governo di un uomo solo, necessario a frenare le intemperanze della ritrovata libertas, ma ne auspica la salvaguardia e chiede reverentia per un’intera classe e rispetto di ruoli e di poteri da parte del principe. In cambio i patres (senatori) gli garantiranno il loro appoggio. Questi dovrà essere (e Traiano fu sentito come tale...) il migliore: solo così potrà esigere il riconoscimento degli uomini che a quell’antico principio ancora si ispirano.
Quella delineata sia nel Panegirico, sia nei discorsi Sul principato di Dione Crisostomo è la figura di un sovrano illuminato prescelto dagli dèi, votato al dovere, che, come un padre e un benefattore, regge e governa uomini liberi, non schiavi. Nel compito sarà assistito da amici fidati, partecipi alla gestione degli affari di Stato: un consilium principis che, in Dione, riunirà i massimi talenti da ogni parte dell’Impero. Secondo l’intuizione già di Seneca, ripresa da Plinio e dallo stesso Dione, l’imperium è infatti servizio, è laboriosa statio, insonne e provvida vigilia non scevra di fatica e impegno: un enunciato che sembra riflettere la vittoria delle classi alte e l’affermarsi dello stoicismo.
Piaggeria? Non solo, io credo; tanto più che sembra non esservene stato bisogno. Marco Ulpio Traiano, l’uomo che Nerva, umiliato dalla protervia dei pretoriani, adotta designandolo a succedergli, è tra i migliori generali di Roma, scelto per incutere rispetto alle facinorose truppe urbane, ma al tempo stesso tale da soddisfare tutti, evitando una guerra civile: nato a Italica, in Baetica, l’odierna Andalusia, nel 53 dopo Cristo, l’eletto potrà contare sull’appoggio delle province; e, figlio di senatore (e patrizio…), non potrà non piacere al Senato. Morto Domiziano nel 96, i patres avevano tentato, con Nerva, di riappropriarsi del potere; ma l’etica aristocratica su cui fondavano le loro pretese era ormai gloria remota, potendo essi di rado rivendicare una virtus militare di cui l’antiqua nobilitas (e in particolare Nerva, l’anziano senatore prescelto…) era spesso priva. Pur essendo anch’egli uno dei patres (e patricius, dunque tra i più illustri), l’erede – che era anche l’unico a essere cresciuto nei ranghi delle legioni, vir militaris ante litteram — la possedeva invece appieno; sicché il Senato non poté non approvarne la scelta, tanto nel merito quanto nella modalità. Era un’adozione che richiamava il principio di elezione dell’optimus proposto senza fortuna da Galba trent’anni prima.
Traiano, che regnò dal 98 al 117, sarebbe stato considerato poi sempre l’Optimus Princeps, al punto da rimaner celebre proprio con questo appellativo. Attribuito di solito a Giove e fissato a termine di paragone dal principe stesso al suo potere, l’epiteto segna la volontà di apparire come il rappresentante e il vicario in terra del Dio sommo, investito della sua autorità e incaricato di governare gli uomini. Pur distinguendosi dal recente tentativo domizianeo di divinizzare il sovrano vivente, è un concetto assai impegnativo; e tale, in apparenza, da negare l’elaborazione ideologica proposta nel Panegirico pliniano. Ma il contrasto è più apparente che reale, poiché il riferimento diretto conduce all’Aristos greco, richiamato poi nell’auspicio tante volte invocato all’avvento dei successori: felicior Augusto, melior Traiano, possa essere tu più felice di Augusto, migliore di Traiano. A proposito di successioni, Traiano scelse davvero Adriano a subentrargli in punto di morte o fu scavalcato dalle donne di casa quando avrebbe preferito un non consanguineo? Difficile dirlo…
Traiano non fu solo un soldato. E anzi affermò di sentirsi onorato, più che dagli altri appellativi, proprio da quello di Optimus, poiché gli derivava dall’indole piuttosto che dalle vittorie e dalla valentia nelle armi (Cassio Dione). Di gusti semplici, lontano dall’immagine di intellettuale raffinato che avrebbero dato poi uomini come Adriano o Marco Aurelio, Traiano non era contrario alla cultura (la cui cura delegò in gran parte alla moglie Plotina…) e all’intelligenza: del seguito fecero parte uomini come, appunto, Plinio il Giovane, nipote del sapiente di età flavia, come Licinio Sura, abile politico e letterato di talento, come Dione di Prusa e Frontino, come Nerazio Prisco, grande giurista a cui il principe pensò forse per la successione, o il sommo architetto Apollodoro di Damasco e altri ancora.
Di grande esperienza e modi garbati, Traiano si mostrò affabile verso i sudditi; e si rivelò un amministratore di prim’ordine, ampliando e perfezionando le strutture dello Stato e portando a compimento, nella previdenza, il progetto degli alimenta di Nerva, una speciale forma di prestito ipotecario sui fondi italici i cui interessi furono devoluti al mantenimento e all’educazione dei ragazzi bisognosi.
È tuttavia soprattutto come soldato che lo si ricorda. Indole e carriera lo spinsero a intraprendere, per fini economici e strategici, importanti campagne di conquista dall’esito incerto: vittorioso in Dacia (Romania), nell’impresa celebrata dalla Colonna Traiana (la ricorda una mostra ora a Firenze), e in Arabia Petraea (Giordania), rinunciò alle terre oltre l’Eufrate, piegato, più che dalla forza militare dei Parti guidati dalla dinastia arsacide, dall’infuriare di una spaventosa rivolta ebraica nelle retrovie. Lo stesso Anneo Floro, per il quale con lui l’impero movit lacertos, sgranchì i muscoli, rinato a nuova giovinezza (e raggiunse, in effetti l’estensione massima…), ricorda che «è più difficile mantenere le province che conquistarle: si acquistano con la forza, si conservano con il diritto». A uno degli imperatori più grandi questa seconda parte non sempre riuscì.