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 2019  luglio 21 Domenica calendario

La storia di Edda Ciano

La vita pubblica di Edda Mussolini cominciò il 24 aprile 1930, quando sposò Galeazzo Ciano. Mussolini era in cilindro, Rachele indossava un abito della sartoria Montorsi, nella parrocchia di San Giuseppe in via Nomentana a Roma c’erano 2000 persone, e lei era raggiante. Era loro una ragazza alta, snella, dal volto affilato e ho sudato somigliantissimo a quello del padre, specie negli occhi duri e vivi. Gli somigliava soprattutto nel temperamento, per impennate e scatti irruente, e non cesso mai di esserne la prediletta. Indipendente e ribelle, con il matrimonio Edda aspirava a una vita completamente sua. Aveva intelligenza, personalità, fascino, ma una consapevolezza insufficiente del potere che – soggetta com’era all’autorità paterna – le impedì di esercitarlo davvero, anche in modo indiretto. Lo confuse con una mondanità bizzarra e non di rado corrotta, con frequentazioni di cui peraltro detestava l’ufficialità, in una posizione di isolamento sociale tra la massa (che al contrario del padre non amava) e l’aristocrazia che non l’accettò mai, e dalla quale lei tenne orgogliosamente le distanze. Restò sempre la figlia di «lui», anche quando gli si opporrà con tutte le proprie forze, nell’epilogo (davvero imprevedibile con quel felice esordio) che la ebbe protagonista di una tragedia quasi shakespeariana, insieme personale e storica.
Venne al mondo il primo settembre 1910 a Forlì, in una stanzetta affacciata sul cortile interno al primo piano dell’Antico Palazzo Merenda, tutt’oggi esistente nell’omonima via. Nacque, come racconta lei stessa, «da una lunga dieta di insalata e di amore», ovvero dal legame «senza vincoli ufficiali» (questo lo racconta lui nell’Autobiografia) e senza un soldo che il ventisettenne socialrivoluzionario Benito Mussolini, squattrinato direttore della Lotta di classe, aveva attuato il 10 gennaio 1910 fuggendosene con la bionda diciottenne Rachele detta «Chiletta», che era figlia della convivente del proprio padre Alessandro, Anna Guidi. Benito insistette per assistere al parto, ma fu così spaventato dalle urla di Rachele che quasi ne svenne, e per più di un lustro si rifiutò di darle altri figli. Per averne trovato il nome in un libro la chiamo Edda, e in omaggio al «libero amore» non la battezzò, denunciandola all’anagrafe come figlia di Benito Mussolini e di N.N.: tanto da fare ipotizzare a qualche «compagno», raccontava Rachele, che fosse in realtà figlia della Balabanoff (e curiosamente Edda – in una dichiarazione del febbraio ’45 al capo della Cia Allen W. Dulles e da me pubblicata in questa pagina il 3.5.1986 grazie a Renzo De Felice – sembrava compiacersi di questa leggenda, affermando «perentoriamente di essere mezzo russa»).
UNA «CERIMONIA» DI REGIME
In quelle stanze dove c’erano solo un letto, un vecchio tavolo, due sedie e un fornello a carbone, la primogenita venne sistemata in una culla di legno pagata 15 lire che lui si era portato fino a casa sulle spalle. Già allora Mussolini fu per lei padre amorevolissimo. Il disegno, qui accanto riprodotto, del pittore Piero Angelini lo mostra (autunno 1910), nel suo unico abito di panno nero, tutto intento a suonare il violino (prendeva lezioni dal maestro forlivese Montanelli) per addormentarla, sotto il vigile sguardo di Rachele. Un’infanzia di miseria, quella di Edda, anche se nel dicembre del ’10 con la morte di Alessandro una piccola eredità era servita a sbarcare un po’ meglio il lunario in una nuova casa, tre stanze al numero 5 della via XX Settembre. Come direttore della Lotta di classe Mussolini doveva contentarsi di 120 lire al mese, perché riuscire a farsi pagare gli articoli dalla Voce di Prezzolini e dal Popolo di Battisti era sempre un tormento. Né mancavano altri guai: arrestato la domenica 14 ottobre 1911 durante i moti contro la guerra di Libia, gli toccarono 5 mesi di galera con un amico, il ventenne repubblicano Pietro Nenni.
Le cose non cambiarono di molto quando – 8 luglio 1912 – Mussolini agguantò la direzione del Partito Socialista e, quattro mesi dopo, quella dell’Avanti!. Abbandonate moglie e figlia a Forlì, si sistemò con un lettuccio nella redazione del giornale a Milano, via S. Damiano 16: dove, il 2 di marzo, si fiondò a sorpresa una furente Rachele, reggendo in braccio la piccola Edda. Dopo due settimane trascorse in locanda, Rachele trovò un tricamere al numero 19 della via Castelmorrone. Lo stipendio all’Avanti! era di cinquecento lire al mese che però continuavano a non bastare, con lui sempre in giro a far debiti per i bordelli o con le «donnacce», la Balabanoff, poi la Ida Dalser e quella Sarfatti (perciò fu costretto a sposare civilmente Rachele, a Treviglio, dicembre 1915).
Mussolini non riusciva a nascondere a Edda la sua predilezione. Poco prima che venisse alla luce aveva desiderato che fosse femmina. Quando venne Vittorio (27 settembre 1916) s’era pentito, avrebbe voluto come primogenito un maschio. E la educò come tale («quando ero bambina – ricorda Edda – mi costrinse a tenere in mano una rana, perché imparassi a vincere la paura e il ribrezzo»). Finendo forse col pentirsene quando nel ’20, nella nuova casa di Foro Bonaparte dove alla famiglia si era aggiunto anche Bruno (nato nell’ottobre 1918), subito dopo averla fatta battezzare con i fratelli in salotto la rimproverò di fischiettare, rifilandole uno schiaffo che lei contraccambiò con due sberle sulle guance dicendogli: «Guarda che a me non mi tocca nessuno, nemmeno mio padre!». Lui la perdonò subito, e forse fu un guaio.
In condizioni migliori, ma non agiate, con Mussolini al Popolo d’Italia Edda poté studiare al ginnasio Giuseppe Parini di Milano (dove più avanti ebbe compagna – mi dicono – Camilla Cederna, ed altre adolescenti entusiaste di «lui», specie dopo la marcia su Roma). Furono però anni egualmente inquieti perché Mussolini, dal ’23 nella capitale in via Rasella, aveva accanto la Sarfatti e non voleva che i famigliari lo raggiungessero stabilmente. Perciò, preoccupato dell’educazione di Edda, la iscrisse all’aristocratico collegio della Santissima Annunziata al Poggio Imperiale di Firenze.
Cresciuta animosamente per case dove circolavano bombe e rivoltelle, e dove volavano urla e bestemmie, non si mostrò studentessa disciplinata. Fu ben felice di uscirsene di collegio alla fine del 1926, quando Rachele e i ragazzi si recarono per alcuni mesi nella capitale. Qualche tempo prima della nascita di Romano (26 settembre 1927) Edda convinse il padre che non era più il caso di vivere solo, e gli si piazzò in casa. Roma le piaceva. Fu lei, già nel giugno ’27, a far scegliere a Mussolini quella che sarebbe diventata la loro residenza, Villa Torlonia. In quell’occasione (Taccuini, 20-23 giugno) Ojetti la descrisse «un poco spiritata ancora è infrenabile».
Mussolini s’era proposto di sottoporre Edda a una disciplina ben più dura di quella del collegio: pochi viaggi, molto sport, lezioni di lingue e di musica, strettissima sorveglianza sulle amicizie maschili. Ma lei mordeva il freno, frequentando di nascosto un ragazzo ebreo. Dopo un consiglio di famiglia, il Duce decise allora che era il momento di maritarla. Per suggerimento della sorella Edvige, fidanzò Edda con il ricco forlivese Pier Francesco Mangelli, ch’ebbe però l’impudenza di chiedergli a quanto ammontasse la dote. A questo punto, su indicazione del fratello Arnaldo, Mussolini puntò gli occhi su Galeazzo Ciano.
Edda lo conobbe il 27 gennaio 1930. Il loro incontro fu un misto di fatuità mondana, di spensieratezza e di slanci giovanili (soprattutto da parte di lei), di ambizioni personali e calcolo politico (soprattutto da parte di lui, ma anche dei potenziali suoceri). Intelligente, volitivo e di bell’aspetto il ventisettenne Galeazzo enfant gaté livornese, conte dal ’25 per il titolo conferito dal re a suo padre Costanzo che era l’eroe di Buccari e una colonna del regime, dopo vari tentativi nel giornalismo e nel teatro era entrato nella carriera diplomatica nel ’27, e aveva fatto ritorno da poche settimane in Italia dalla Cina per un fidanzamento combinato dalla famiglia. Quando conobbe Edda, capì. E, pur consapevole di interpretare un ruolo, anche lei capì. Si intesero immediatamente. Rotto ogni altro legame, Galeazzo le si dichiarò il pomeriggio del 2 febbraio (lei rispose: «Perché no?»), la sera stessa si presentò a chiederne la mano a Villa Torlonia. Mussolini fu prima burbero poi affabile, mentre Rachele precisò subito che «in casa Edda non sa fare niente». Quel giovane troppo manierato non le andava a sangue e sapendo come poi andarono le cose, la sua diffidenza sembra oggi una profezia.
Le nozze, appena oscurate da quelle (8 gennaio 1930) di Umberto di Savoia con Maria José, furono una vera cerimonia di regime. Lo fu anche il ricevimento della vigilia, il primo e l’ultimo offerto dalla famiglia Mussolini. Al banchetto di Villa Torlonia vennero invitate 512 persone sorvegliate da 1500 poliziotti, tra migliaia di rose rosse e azalee, pervenute da ogni parte d’Italia. Assieme a magnifici doni (Ninì Turgi Prosperi e Giorgio Nelson Page mi raccontarono che c’erano più di 5000 chilogrammi d’argento), anche se Mussolini aveva raccomandato ai prefetti di evitare comitati per regali alla figlia. Lui le donò una semplice tovaglia di pizzo, una dote di 200mila lire e un piccolo anello d’oro appartenuto alla madre; i sovrani inviarono una splendida spilla con pietre preziose; Pio XI un prezioso rosario in oro e malachite; e Gabriele D’Annunzio se la cavò inviando dal Vittoriale un parsimonioso manufatto, con queste parole a Mussolini: «Ho trovato modo di dipingere a mano velluti e sete e veli abolendo – non senza prodigio – la grossezza del colore. Ne offro un saggio – ottimo per un mantello, che serbi architettura della figurazione – alla tua Edda».
LA FUGA IN GERMANIA
Dopo il rito, gli sposi e i rispettivi genitori attraversarono una piazza San Pietro stracolma di folla, e visitarono la basilica. Mussolini, rivolto a Rachele, ricordando la Conciliazione, disse in dialetto: «Am’ sò convartì ancha mè»; e poi piano indicando Edda: «Mi domando perché mai è diventata contessa, io l’ho sempre educata al socialismo». Ma era contento: «Stiamo diventando vecchi, Rachele mia...». Subito dopo una colazione intima a Villa Torlonia, Edda e Galeazzo partirono in auto per Napoli e per Capri, accompagnati da Benito e Rachele fino a Rocca di Papa. Qui il Duce la tirava tanto per le lunghe nell’accomiatarsi che Edda gli disse: «Papà, che hai intenzione di fare? Vuoi venire anche tu a Capri, in viaggio di nozze con noi?». 
Fu altrettanto affettuoso quando a metà settembre 1930 Edda s’imbarcò a Brindisi sul piroscafo Tevere alla volta di Shanghai, dove Galeazzo era stato destinato console generale. Sino al loro ritorno (ottobre 1932) le inviò centinaia di telegrammi. Ecco quello che Edda si vide recapitare il 1° ottobre 1932, alla nascita del primogenito Fabrizio Costanzo Benito (dove si avverte una punta di malumore per la precedenza accordata al nome del consuocero): «Stamani mentre inauguravo prima bella esposizione Arte coloniale e mio pensiero errava verso paesi esotici ed orientali, mi giunge annunzio felicissimo evento. Ti mando i miei più affettuosi abbracci, le mie felicitazioni e gli auguri al pupo. Tante cose a Galeazzo».
Quando tornò in Italia, per prima cosa Edda, assieme al padre, andò a Predappio sulla tomba dello zio Arnaldo, morto il 21 dicembre del 31. Per poi dedicarsi immediatamente al marito, cioè al suo cursus honorum. Che fu rapidissimo: capo ufficio stampa della Presidenza del Consiglio (1° agosto 1933); sottosegretario (10 settembre 1934) e poi, a 31 anni, ministro per la Stampa e propaganda (25 giugno 1935). Subito dopo la sua partecipazione al conflitto etiopico come pilota (assieme al grande amico e protetto Sandro Pavolini, detto «Puzzino», suo futuro mortale nemico a Salò), il 9 giugno 1936 senza preavviso, il Duce gli conferì la carica più prestigiosa del regime, nominandolo ministro degli Esteri. Suscitando malumori ovunque, specie tra i diplomatici. Scrive Grandi nelle memorie (Il mio paese, Il Mulino 1985): «Mussolini lo sollevò di colpo ad una altezza vertiginosa, lo impose ai fascisti e agli italiani, gli diede in mano lo strumento più delicato della vita del paese, la direzione della politica estera. Ciano ne rimase accecato. Credette a poco a poco di essere stato portato a tale altezza per virtù e meriti suoi. Era l’unica persona verso la quale Mussolini non mostrava alcuna diffidenza. Anziché trattenerlo, frenarlo, lo lasciò fare, lo spinse, lo incoraggiò ad usare ciecamente, senza controllo e ritegno, quella tremenda arma che è il potere». È questa una citazione lunga, ma assai significativa – specie in quanto viene da un uomo acuto come Grandi – perché da una parte spiega l’atteggiamento inflessibile di Mussolini verso il genero durante il processo di Verona e, dall’altra, perché offre indizi (indiretti) sui rapporti di Galeazzo con Edda.
Così come in politica, già da tempo lui si era montato la testa nella vita privata e nei rapporti sociali. Le sue amanti erano note a tutti, tanto che a Roma si parlava apertamente del Cac (Club amiche Ciano). Mussolini, ormai preso dalla Petacci (odiatissima da Edda e anche da Galeazzo: unico elemento che nel 43 egli avrà in comune con Rachele), teneva chiusi tutt’e due gli occhi sulle avventure del genero, e della figlia. Anche Edda, infatti, che chiamava il marito con indulgenza «Gallo», si concedeva molte distrazioni, in un’unione che le impedivano di rompere solo il proprio rango, un timoroso rispetto per i genitori e l’amore per i figli (nel frattempo era nata Raimonda detta «Dindina» seguita da Marzio, morto nel 1974). Insomma, Edda lo lasciava fare, in una vita in cui si mescolavano disinvoltamente alta diplomazia, il golf, il poker (ma era lei a perdere cifre da capogiro), le barzellette piccanti, i frondeurs, le cerimonie ufficiali, la mondanità salottiera.
Eugen Dollmann, poi temibile rappresentante di Himmler in Italia dal 1943 al 45, che ben conosceva i coniugi Ciano dal 37, un po’ acidamente (e pour cause) così mi descrisse prima Galeazzo poi lei, in un’intervista pubblicata in questa pagina (domenica 24 luglio 1983): «Quel ninnolo da salotto, vanesio e viziato dalla fortuna, non ci amava. Ma ci tollerò finché le cose andarono bene: spinse per l’intervento italiano al nostro fianco nella guerra civile spagnola, non si tirò indietro per l’Asse Roma-Berlino, per il Patto di Monaco, l’occupazione nostra dell’Austria e per la guerra d’Albania. Non ci amava, soprattutto per snobismo filo-britannico. Hitler lo definiva un ballerino da caffè viennese incapace di star zitto anche sui segreti di Stato, specie a letto, perciò il Fuehrer non rivelò mai preventivamente le proprie decisioni a Mussolini, certo che questi ne avrebbe parlato col genero. Ciano si sentiva il delfino del Duce. La mia cara, carissima Isabella Colonna mi confidò che lui si credeva il solo uomo capace di tirar fuori l’Italia dal fascismo, per costruire una società di tipo inglese. Rachele lo odiava. Gli imputava di averle corrotto la figlia. Edda non era un monumento alla fedeltà coniugale, ma l’esempio le veniva da lui. In pratica vivevano separati. Li riunì la sventura, cioè il 25 luglio. Ovvero la paura di Badoglio. E qui Ciano rivelò la propria sprovvedutezza: quando scelse – ed Edda si rivolse a me – di fuggire in Germania, Edda sostiene che le promettemmo di portarli in aereo fino in Spagna. Ma è falso. Che dico la verità lo conferma d’altronde lei stessa (i particolari sono riferiti anche da Hottl, cioè Walter Hagen, e da Fraulein Beetz): Hitler si disse disposto ad accettare la figlia e i nipoti del Duce; quanto a Ciano, che se ne restasse dove cresce il pepe, disse. Non lo voleva. Edda insistette: o tutti o nessuno. E così il buon Galeazzo sì cacciò nella tana del lupo. Non una, ma due volte, perché fu lui a voler fare poi ritorno in Italia. La sua morte, voluta da Hitler e subita da Mussolini, fu una gioia per Rachele che, come ho detto, lo odiava».
PREFERÌ IL SILENZIO
Anche questa citazione è molto lunga ma, benché non dica tutto il vero, nella sostanza non dice il falso. Vediamola rapidamente nei dettagli, a cominciare dagli antefatti. Ciano, come Grandi, non amava i tedeschi, né voleva la guerra e fece di tutto per evitarla (tuttavia quando ci si trovò seppe sfruttarla, trasformò quella di Grecia e d’Albania nella propria, strappando poi dal Diario le pagine più compromettenti in proposito come si legge in un rapporto a Washington 19.1.1945 di Allen Bulles, che pubblicai in questa pagina il 3.5.1986). Né la voleva Edda, pur ancora fedelissima al padre. Per di più Galeazzo si sentiva «tradito»: l’11 agosto 1939 von Ribbentrop l’aveva convocato a Salisburgo dicendogli senza preamboli che entro quindici giorni la Germania sarebbe entrata in guerra contro la Polonia, e che l’Italia doveva fare altrettanto. Ciano era caduto dalle nuvole, ma tenne duro sulla neutralità. 
Poi entrammo in guerra, la situazione precipitò, e il Diario ne è la drammatica testimonianza. Edda s’era arruolata crocerossina, prima in Albania (nell’affondamento della motonave Po meritò una medaglia d’argento), quindi in Russia, mentre l’Italia precipitava nella disfatta. Destituito da Mussolini, dal ministero degli Esteri (5 febbraio ’43), Galeazzo ottenne di essere ambasciatore alla Santa Sede. Anche se Rachele inutilmente tentava di metterlo in guardia dai «tradimenti» del genero, il Duce continuava a fidarsene. E venne il 25 luglio. Nel Gran Consiglio, durante il lungo discorso con cui Galeazzo si schierò a favore dell’ordine del giorno Grandi (presumibilmente avendone avvertito Edda), Mussolini, così riferiscono tutte le testimonianze, non cessò un attimo di fissarlo con occhi di fuoco. Si sentiva tradito e, sul piano degli affetti, lo era. Per il resto, tutto quello che mi disse Dollmann è altamente plausibile (lo conferma anche la massa di prove in tal senso raccolta da Giordano Bruno Guerri, Galeazzo Ciano Bompiani 1979; e da Erich Kuby, Il tradimento tedesco, Rizzoli 1983): scegliendo la fuga in Germania, Edda consigliò pessimamente il marito, fidando nel proprio ascendente su Hitler, che alla fine le mancò. Né valse alla causa di Ciano il «pranzo di conciliazione» da lei organizzato a Monaco col marito, Mussolini (da poco liberato dal Gran Sasso), Vittorio e Rachele, che insultò a sangue il genero.
Dal momento in cui Galeazzo il 19 ottobre 1943 scelse di tornare in Italia (altro dissennato consiglio di lei, nell’illusione che il Duce sarebbe stato più clemente dei tedeschi) e venne invece incarcerato a Verona, Edda si batté come una tigre. Già a Roma dal 19 settembre con i figli, anche per mettere in salvo il Diario e altri documenti del marito, affidati a Emilio Pucci, trovò un insospettato aiuto in Frau Beetz. Innamorata di Galeazzo da quando le Ss gliel’avevano «affidato» in Germania, nella villa sul lago di Starnberger, Frau Beetz prelevò da Roma con Pucci il Diario, lo consegnò in una clinica di Parma a Edda, la quale tentò di negoziarne la consegna ai tedeschi, in cambio della vita del marito. Ma tutto fu vano. Il 9 gennaio 1944 si rifugiò in Svizzera con i figli, e alle 0,10 del giorno 11 Mussolini ricevette da lei questa lettera: «Duce! ho atteso fino a oggi che tu mi manifestassi un sia pur minimo segno di umanità e di benevolenza. Adesso basta. Se entro tre giorni Galeazzo non sarà in Svizzera, alle condizioni che ho fatto conoscere ai tedeschi, tutto ciò di cui ho in mano le prove lo sfrutterò senza pietà. In caso contrario, e se noi tutti saremo lasciati in pace e al sicuro () non sentirete più nulla di noi. Edda Ciano». Quella fu certo, per Mussolini, una ben tragica notte: c’era la guerra civile, e sapeva di non poter cedere all’amatissima figlia, anche perché né Hitler né Pavolini gliel’avrebbero consentito. Alle 9.25 di quell’11 gennaio, nel poligono di tiro, una scarica abbatteva Ciano con gli altri «traditori»: De Bono, Gottardi, Marinelli, Pareschi. 
L’ultima lettera del marito («Edda cara, tu sei buona, forte e generosa. Ti affido le nostre tre creature e sono certo che le guiderai sulla via della carità...») le fu recapitata dieci giorni dopo, in una clinica di Berna. Trasferita nel marzo 1944 in un sanatorio presso Monthey nel Vallese, dopo lunghe trattative (ottobre ’44-gennaio ’45) Edda consegnò i diari agli americani. Non perdonò il padre, rispondendo con asprezza alle due lettere ch’egli le fece pervenire attraverso un amico, Don Pancino. Si sciolse in pianto solo quando seppe della tragica morte di lui. 
Sono trascorsi quarantadue anni, da allora, quarantatré dalla morte di Galeazzo e cinquantasette dalle sue nozze. Ma, della sua tragedia, Edda mai ha voluto parlare. Avrebbe potuto atteggiarsi a Medea, preferendo invece ritraendosi nella brusca ritrosia giovanile che, a tratti fu anche del padre – il silenzio, anche quando ci fu il clamore suscitato dal Diario. Sì, sono passati tanti anni, da quella tragedia. Ma Edda Mussolini Ciano continua a non dimenticarne un giorno.