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 2019  luglio 21 Domenica calendario

Lunga intervista a Edoardo Vianello

Entusiasta lo è, Edoardo Vianello. Da decenni non c’è estate senza uno dei suoi brani; i tormentoni stagionali passano, ma Guarda come dondolo, I Watussi o Pinne, fucili ed occhiali restano nell’aria, quelle note fanno parte della memoria collettiva, dell’immaginario legato a spensieratezza e allegria (“Pensare che allora non ero così contento: mi sentivo perennemente fuori luogo, imbarazzato, timido. Invece se riguardo le foto del tempo, non ero neanche male fisicamente”).
Edoardo Vianello è un signore di 81 anni ben portati, gli occhi vispi, la leggerezza è una scelta di vita, consapevole, non scontata e neanche obbligata. Si conosce e sa perfettamente qual è il suo posto, “conquistato negli anni, perché per un periodo i miei brani sono stati fischiati”.
Rappresenta uno spicchio di gioia del Paese.
Quando ho iniziato a occuparmi di musica, ero convinto che le canzoni dovessero divertire, quindi non mi sono mai posto il problema di raccontare storie drammatiche; poi i Sessanta sono stati vissuti come il periodo dell’entusiasmo, dell’incoscienza, della voglia di azzardare.
Mai costretto nel ruolo?
No, mi piace proprio; e sono andato avanti con un genere musicale che di solito non cattura il pubblico.

L’Alligalli
è la terza canzone italiana più ascoltata della storia.

Se la gioca con Volare e Caruso (sorride). Non me ne rendevo conto.
Davvero?
Ero pessimo, non capivo cosa avveniva attorno a me; mi bastava la musica: tutto quello che ho concluso è frutto della mia incoscienza e ignoranza.
Insomma, le sue hit.
Un tempo sono state un problema; quando mi invitano vogliono sentire solo quelle, non posso proporre altro, e all’inizio ho lottato, poi mi sono rassegnato e oggi le sostengo fino alla morte.
Brani fondamentali per Il Sorpasso.
Anche lì, non lo sapevo.
Cioè?
Nel 1962 vado al cinema per vedere il film, e scopro la scena di Gassman che canta il mio pezzo, e gli altri che ballano il twist. Divento rosso. Ero totalmente all’oscuro.
Possibile?
I diritti erano materia dell’editore, non mia.
Ha recitato nei musicarelli?
Mai, ho solo partecipato a Sapore di mare nei panni di me stesso. E basta. Non me l’hanno mai chiesto.
_Strano…
C’è un punto: sono strafelice della carriera, però sono sempre stato identificato con le mie canzoni, e poco come Edoardo Vianello; solo con il passare dei decenni si è assottigliata questa forbice, ma nei Sessanta era così.
Lo ha patito.
Un po’ sì, ero un interprete apprezzato e non un personaggio; il mio strumento di comunicazione era il juke boxe, e da lì poteva cantare chiunque; eppure i miei brani erano gettonatissimi.
Si scocciava.
Se giravo con Little Tony fermavano lui, anche se avevo più successo; mi sono rifatto ai tempi de I Vianella (duetto formato con la moglie di allora, Wilma Goich)), dove accadeva esattamente il contrario: cercavano i personaggi, i due bassetti insieme, non i brani (ci ripensa). Al tempo ero un po’ anticotto…
In che senso?
Se riguardo le foto di allora penso: cacchio ero proprio carino, perché non ne ho approfittato?
E invece…
Mi sentivo goffo e fuori moda, vestivo sempre con la giacca e la cravatta, mentre gli altri uscivano stracciati e suscitavano furore.
Tre mogli: non si può lamentare.
Le donne sono state una fissa, però mi piaceva conquistarle per il mistero che c’era dentro di me, non per l’apparenza.
Un suo grande amico è stato Franco Califano…
Conosciuto nel 1964: la prima volta che l’ho visto era accompagnato da due splendide ragazze. Venne accolto con gioia nella comitiva.
Califfo docet.
Quella sera subito spavaldo, poi a un certo punto mi prese da parte: ‘Scrivo poesie’. Sembrava impossibile. Non vedevo un animo alto davanti a un playboy.
Errore.
Inizia a declamarne una sull’amicizia, resto strabiliato. ‘Perché non provi a comporre un testo musicale?’. ‘Mai cimentato’. Gli spiego la differenza, alcune tecniche, la necessità di un ritornello. Passano cinque giorni e si presenta con cinque testi.
E dopo?
Subito amici: lui bello, io famoso.
Accoppiata vincente.
Interrotta dopo il matrimonio con Wilma.
Lo ha frequentato anche nel suo periodo nero?
La fase meno lucida è iniziata presto, un giorno, insieme ad altri, lo abbiamo portato di peso in una clinica per disintossicarsi; poi l’arresto gli ha causato un crollo psicologico, e dopo ha iniziato a cantare e a costruire il suo personaggio.
Con la voce roca da fumo…
(Sorride) Si fumava qualunque cosa prendesse fuoco.
Lei non beve e non fuma.
Sempre così, sin dall’inizio: ho preso questa professione in maniera seria, anche grazie all’educazione dei miei, più una forte timidezza. Diventavo rosso, e ancora capita.
E sul palco?
Se sono lì per cantare, me li magno tutti, ma se è per un’intervista, cado nell’imbarazzo; solo da qualche anno ho deciso di comunicare con il pubblico e ho iniziato a montare piccoli monologhi.
Cosa racconta?
I miei spettacoli iniziano sempre con Pinne, fucili ed occhiali, più I Watussi.
Subito.
Me li voglio togliere dai coglioni, altrimenti c’è sempre qualcuno che mi tormenta e li chiede in continuazione.
Giusto.
Poi racconto gli esordi, e del mio cruccio nei primi anni di carriera: incidevo un grandissimo successo, ma c’era sempre qualcuno che mi fregava.
Birbanti.
Nel 1961 canto Il capello, ma Gianni Meccia vince con Il pullover; nel 1962 è la volta di Pinne, fucili ed occhiali e Guarda come dondolo; Gino Paoli pubblica Sapore di sale. L’anno dopo Abbronzatissima e I Watussi, e Rita Pavone esce con La partita di pallone, tra l’altro scritta da me…
E cavolo.
Allora mi lancio sull’invernale: Sul cucuzzolo della montagna. Morandi pubblica In ginocchio da te.
Eh, no.
Non li potevo vede’.
Il suo antagonista?
Nico Fidenco: gli andava tutto bene. Oggi siamo amici.
Torniamo ai suoi genitori.
Fino al matrimonio sono rimasto a casa, mi dispiaceva dirgli ‘dormo fuori’. E poi mamma era una figura importante.
Contenti della sua carriera?
Mio padre no, e fino al 1963; ha cambiato idea dopo I Watussi; prima derubricava la musica a passione passeggera, un gioco da ragazzi. E anche io.
Cosa desiderava per lei?
Da uomo di cultura era interessato solo alla preparazione e il mio andare male a scuola era il suo più grande dolore: ogni volta che gli consegnavo una pagella mi puniva con il silenzio prolungato. Pure di mesi.
È sempre stato etichettato come di destra.
E mio padre lo era seriamente: un poeta futurista, ha seguito D’Annunzio a Fiume. Difendeva la sua epoca.
Amava le sue poesie?
Le ho scoperte solo di recente e in occasione del centenario di Marinetti: non avevo capito il suo reale valore, per questo ho recuperato 38 componimenti straordinari e li ho pubblicati grazie a mia moglie. Ah, da poco ho capito anche perché mio padre era figlio di NN da parte di madre.
Come mai?
Ovviamente è la storia di amore impossibile e di scelte difficili; all’epoca ci ha causato qualche incomprensione dentro la famiglia.
Tipo?
Raimondo Vianello è mio cugino e la sua parte ci trattava un po’ con la puzza sotto il naso, in fin dei conti lui era figlio di una marchesa e di un ammiraglio; il nostro rapporto è sempre stato solo affettuosamente diplomatico: non è mai venuto a un mio concerto.
Non c’era simpatia.
Era un tipo abbastanza scuro, come accade spesso ai grandi comici.
Ha iniziato a suonare con Morricone.
La Rca mi aveva proposto Luis Bacalov, ma Ennio era già un fuoriclasse, tutto quello che toccava acquisiva un quid in più; con un nostro pezzo sono andato a Sanremo.
Per lei il Festival non è mai stato decisivo.
Sempre lo stesso discorso: lì conta più l’immagine e alla mia terza partecipazione ho cantato Nasce una vita, era il giorno successivo al suicidio di Luigi Tenco.
Tempo perfetto.
Che imbarazzo.
La sua idea della morte di Tenco?
In quel periodo non era proprio capace di intendere e volere, e lo conoscevo bene, eravamo molto amici.
Cupo.
Per niente! Simpaticissimo, assatanato di donne, un po’ come Paoli.
Altro…
Gino vinceva con questo suo atteggiamento sempre in disparte. Micidiale. A un certo punto nell’ambiente s’iniziò a favoleggiare sulle sue doti intime.
Ha scritto per Mina.
Per lei mi ero preso una bella cotta.
Forte?
È stata decisiva per la mia carriera, da sconosciuto mi ha invitato a Studio Uno.
Lei disperato.
Prima di entrare in diretta ero agitatissimo; arriva Mina, se ne accorge, e risolve la questione: ‘Prendi questa pillola’. ‘Va bene’. Risultato: sono rimasto sveglio due giorni.
E che era?
Boh.
Come ha conosciuto Mina?
Nel 1959 ero in una compagnia di prosa, e con i soldi guadagnati avevo comprato una Fiat 600 usata: con un amico decido di partire e girare l’Italia a caccia di cantanti ai quali proporre i miei pezzi.
Grand tour.
Una volta a San Benedetto del Tronto vediamo uno striscione: ‘Giovedì, Mina’. Era martedì. Ci accampiamo, raggiungiamo il locale, conosciamo il proprietario, gli spieghiamo il perché di quella gita, lui sorride e il giovedì ci presenta Mina. Che esordisce: ‘Edoardo Vianello? Ho sentito parlare di te’.
Perfetto.
La sera, a metà della sua esibizione, annuncia: ‘C’è qui un mio amico molto bravo’. E mi invita a cantare. Finito lo spettacolo mi ferma: ‘Voglio ascoltare le altre tue canzoni. In che albergo sei?’.
Ahi…
Dal mio imbarazzo intuisce la verità, ci invita nell’appartamento che aveva affittato, e ci mette a disposizione la spider. Ho perso la testa per lei.
Lei oltre la musica.
Fin da bambino fotografo le fontane di Roma: sono a 3.560 scatti.
Cosa le piace?
È l’unico monumento che si muove.
Depresso?
Mai, ho provato solo momenti di sconforto, in particolare quando nel 1969-70 ho fondato una casa discografica, Wilma era incinta e dovevo rispondere di una multa con il Fisco. Non c’era una lira…
Al verde.
Dopo il 1966 ho iniziato a non lavorare più, le mie canzoni venivano vissute come un fastidio per via dell’onda sessantottina. E pure il pubblico fischiava.
Quindi?
Ho pensato: ‘Ma chi me lo fa fare?’. E mi sono messo da parte.
Durato?
Fino a quando non sono nati I Vianella, poi l’altra esplosione c’è stata con Sapore di mare e a due cover di Ivan Graziani.
Compare nel film.
Tutto nato da una casualità: esco da un ristorante di Roma, piove forte, mi riparo in un portone e trovo Jerry Calà. Ci salutiamo. Mi racconta del progetto cinematografico, io mi propongo e dopo tre giorni arriva la chiamata.
Agli inizi della sua casa discografica ha lavorato con Renato Zero.
Purtroppo non sono riuscito a dare il mio contributo alla sua carriera: la mia etichetta veniva distribuita dalla Rca e tutti i progetti dovevano ottenere la loro approvazione. Niente. Così a un certo punto l’ho liberato.
La Rca s’imbarazzava.
Era legata al Vaticano, e Renato per l’epoca era un azzardo: quando camminavamo per strada, ci urlavano di tutto; un giorno l’ho portato da un sarto: ‘Ora ti prendi un vestito normale’.
Il suo opposto.
Anche come carattere, lui istrionico, io ovviamente no.
Già cantava O mio signore…
Mica mi piace tanto.
Davvero?
Non mi appartiene. O meglio: non rappresenta il mio stile, poteva scriverla chiunque. Mentre sono quello de I Watussi e così voglio essere ricordato. Per sempre.
(Perché lui, pur non altissimo, ogni tre passi ha comunque fatto sei metri)