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 2019  luglio 21 Domenica calendario

India, le case progettate dagli dei

A dispetto delle numerose teste, braccia, gambe che sovente caratterizzano la loro immagine, le divinità hindu non hanno forma: supreme o minime, sono tutte spiriti puri. Per intervenire nel tempo e nello spazio, cioè nella manifestazione, ciascun dio o dea assume però una forma (murti) adatta alle circostanze. Se questa non è distinta da quella umana, il dio o la dea – secondo il folklore indiano – si riconosce… perché non batte le ciglia e non traspira. I grandi dèi si manifestano in forme numerosissime, corrispondenti ai loro interventi molteplici: basti pensare che le murti principali (non il numero totale), nel caso di divinità supreme come Vishnu o Shiva, assommano per ciascuno dei due a sessantaquattro, diversificate non dalla fisionomia, che salvo rari casi è di scarsa importanza come tutto ciò che in India è ‘personale’, ma dall’aspetto del corpo (diciamo così) e anche dalle posture, dai gioielli e ornamenti, dalle armi o dagli oggetti che reggono. Ogni forma, consacrata nella pietra – la scultura è l’arte sovrana dell’India – trova riscontro nel mito che narra l’apparizione nel mondo di quel dio e deve perciò essere stabilita con esattezza.
Un discorso analogo si deve fare a proposito dell’architettura e a maggior ragione dell’architettura templare. Il tempio, infatti, è la dimora della divinità che in esso si rende visibile ai seguaci per il darshana, “visione” appunto, di una delle sue murti, e che in esso vive in molti casi una sorta di vita fenomenica; al punto da essere vestito, alimentato, messo a riposare e svegliato dai sacerdoti con i rituali appropriati. Fra l’altro, il darshana e l’adorazione del dio attraverso una sua icona rappresentano uno dei pochi atti centrali comuni a quasi tutte le forme dell’induismo. Ma per i fedeli il tempio rappresenta anche un cosmogramma: come le cattedrali medievali per i cristiani, esso raffigura la struttura intera dell’universo e della gerarchia spirituale che lo regge, dalla terra con il sovrano che la governa e con le sue attività molteplici, alla zona intermedia dell’atmosfera, popolata di esseri semi-divini sovente di straordinaria bellezza e immersi nell’amore, alla zona celeste dove risiedono appunto gli dèi. E siccome gli dèi in realtà non hanno forma, ecco che nella fascia più alta dei templi ogni immagine svanisce, lasciando simbolicamente il posto a giochi decorativi puramente geometrici. 
In una civiltà molto tradizionalista come quella indiana, dove ogni cosa ha diritto di esistenza solo se ripete un modello che ha avuto origine nei tempi mitici, la forma dei templi, in generale e nei particolari, così come ogni icona delle divinità, deve corrispondere a un modello stabilito con rigorosa precisione da appositi trattati, gli shilpashastra per l’iconografia e i vastushastra, “trattati sugli edifici” per l’architettura, non solo sacra. Uno dei testi fondamentali in questo campo, il celebre Mayamata, è disponibile ora in italiano, pubblicato da Luni a cura di Annamaria Dallaporta e Lucio Marcato, che si sono valsi dell’introduzione e delle traduzioni francese e inglese del grande specialista Bruno Dagens (1970, 1976; 1994 e 2007), senza rinunciare a interventi originali frutto del confronto con il testo sanscrito. L’opera è di straordinario interesse anche per la completezza, spaziando dalle diverse tipologie di edificio, sacro o – diremmo noi – profano, alle tecniche della costruzione, dalla pianificazione dei villaggi e delle città alla determinazione dei luoghi dove costruire e ai restauri, fino all’iconografia e iconometria (importantissima!) di numerose murti divine.
Lo stile del trattato è messo molto bene in luce dai curatori; come già si accennava, «il Mayamata non poteva trattare argomenti opinabili, mutevoli o dipendenti dalla volontà di qualcuno: il suo contenuto doveva essere certo, ovunque e per chiunque» – tanto più che l’opera, come spesso accadeva per quelle consimili, si considerava rivelata dagli dèi. E a ciascuno di loro, fra quelli preposti alle diverse caselle dei diagrammi di costruzione, venivano distribuite le offerte opportune, meticolosamente indicate dal testo, dove l’aspetto rituale riveste assoluto rilievo. Così, con il patrocinio delle divinità si pianificano città regali, insediamenti per servitori, piuttosto che per i saggi o per abitanti di tutt’e quattro le classi sociali, fortezze e bazar. Non mancano ovviamente (!) i suggerimenti sulle gratifiche ad architetti e assistenti, talché la lettura del trattato, con le sue prescrizioni minuziose, offre al lettore di oggi indirettamente uno spaccato vivace della situazione sociale e dell’ambiente culturale dell’India del Sud durante il regno (IX-XIII secolo d.C.) della grande dinastia dei Chola. In quell’ambiente, infatti, fu redatta probabilmente gran parte dell’opera, che è rimasta fino a tempi recenti uno dei punti di riferimento tradizionali più significativi degli architetti tamil. Infine, per un esempio iconografico, ricorriamo alla prescrizione riguardante Lakshmi, la sposa di Vishnu, scelta non casualmente… perché porta fortuna e prosperità: «Lakshmi siederà su un loto e avrà due braccia; sarà dorata, splendente e porterà gioielli d’oro; uno dei suoi orecchini avrà la forma di makara [mitico coccodrillo spesso con la testa di elefante] mentre l’altro quella di una conchiglia. La dea sarà una bella, raffinata giovane donna dagli arti armoniosi e le sopracciglia arcuate. La sua figura sarà arrotondata, con un fiore di loto sopra l’orecchio e nella sinistra un frutto di shriphala [cotogno del Bengala, simile a un’arancia e dai molti pregi curativi]. I suoi seni attraenti e i larghi fianchi saranno coperti da una veste fine; porterà una cintura alla vita e una ai fianchi. La capigliatura sarà raccolta in una tiara. La dea siederà nella postura del loto (kamalasana). Ai suoi lati si troveranno donne con il ventaglio e due elefanti che dall’alto la spruzzeranno d’acqua con le proboscidi».