Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2019
A tu per tu con Luca Parmitano
«È uno dei più nitidi ricordi che ho. Avevo tre-quattro anni, ero in una piscina. Mi chiesero che cosa volevo fare da grande e risposi senza dubbi: l’astronauta!». Tra il dire e il fare, c’è di mezzo un salto in alto nell’atmosfera terrestre di ben 400 km; e se tutti, prima o poi, da bambini, abbiamo almeno sognato di andare a esplorare lo spazio a maggior gloria del genere umano, son poi pochi, pochissimi, quelli che lo fanno davvero. Luca Parmitano è uno di loro. Dalla Sicilia (è nato a Paternò, il 27 settembre 1976) al cosmo, il tragitto non è facile e non va in linea retta: ci vogliono anni di passione, studio, allenamento, perseveranza, disciplina, tenacia, prontezza e una costante, e salutare, dose di umiltà, che Parmitano non perde mai occasione di professare. Da ieri l’astronauta italiano dell’Esa è di nuovo lassù, al suo 167° giorno di spazio (i primi 166 nella precedente missione, «Volare», del 2013), a scrutare la «biglia blu» della Terra e a compiere i suoi esperimenti, ma quando ci chiama per lo slot di tempo (breve) che abbiamo a disposizione è nel cosmodromo kazako di Bajkonur, in quarantena assoluta, i giorni immediatamenti precedenti il lancio.
La voce arriva nitida e percepisci con chiarezza che la calma, la precisione e i nervi saldi non vanno solo esercitati – e Parmitano li esercita – in situazioni di estrema complessità come quando, durante una sua passeggiata spaziale, gli si riempì di acqua il casco, mettendolo in pericolo di vita, e seppe reagire con sangue freddo e determinazione, ma anche in situazioni estremamente più agevoli, come, appunto, una chiacchierata. Parmitano risponde sempre alle domande nel merito, non eludendo nulla e scegliendo con cura le parole. È perché, probabilmente, è consapevole di quanto la sua figura possa essere d’ispirazione per molte persone, giovani e no. «Spero che ci siano ancora tanti bambini che vogliano fare il lavoro dell’astronauta», continua, «perché c’è stato un lungo periodo nel quale non molti volevano farlo. Io vengo dalla generazione per la quale il volo spaziale, tra realtà e fantascienza, attraverso le letture, i cartoni, era davvero qualcosa di eccezionale, cui tendere. Una grande avventura». Il fatto che la sua seconda missione, «Beyond», sia partita proprio nel 50° anniversario della più importante conquista spaziale di sempre, l’uomo sulla Luna, è sì casuale (esiste una “finestra” temporale per il lancio), ma certo è di buon auspicio.
Del resto, che il suo «lavoro» (Parmitano insiste spesso su questa parola) sia in continuità con i tanti astronauti – di tutto il mondo – che lo hanno preceduto nelle esplorazioni e negli esperimenti, non c’è dubbio: e se c’è una prova che la scienza, e il lavoro, funzionino al meglio quando sono frutto di collaborazione, forse niente è più calzante della Stazione Spaziale Internazionale. In effetti, da lassù, è molto evidente che i confini non esistono, se non nelle nostre teste. Eppure, nonostante la sua dichiarazione da bambino, anche Parmitano non è arrivato a indossare la tuta spaziale in un battibaleno. «Non ci sono arrivato in modo diretto, ma dopo vari giri, e con la costante della passione per il volo. Solo quando ho varcato il cancello dell’Accademia Aeronautica e quando, lì, ho potuto affinare, nel tempo, i valori della disciplina, dell’impegno, del lavoro in gruppo, ho capito che il volo spaziale sarebbe potuto essere nel mio destino». Appena prima di partire è stato promosso al grado di colonnello dell’Aeronautica, ma quando gli faccio i complimenti li schiva subito; bisogna capire se c’è l’uomo dietro un titolo. È talmente secco che non mi pare di dover replicare, e poi è evidente che nel suo caso non ci sia certo bisogno di eccepire: anzi.
Gli ricordo una emozionante lettera aperta che scrisse alle figlie, dopo la prima esperienza nello spazio. «Allora avevano 7 e 4 anni, e l’ho fatto su richiesta di una rivista, cercando di essere comprensibile da loro, ma scegliendo parole che potessero risuonare poi in futuro e nelle menti di altri giovani». Alla domanda su chi abbia ispirato lui risponde con chiarezza. «Chi mi ha veramente ispirato sono stati i miei genitori: entrambi docenti, mia mamma di francese, mio padre di elettrotecnica, venendo dalla fisica. Mi hanno sempre incoraggiato, ma non mi hanno mai dato una direzione da prendere. Hanno fatto sì che io potessi spiegare le ali seguendo le mie inclinazioni». Mi fa venire in mente un analogo aneddoto, letto chissà dove, che una volta raccontò il celebre scrittore di fantascienza Isaac Asimov. «Ma come fai a sapere tutte queste cose?» gli chiese un giorno, ammirato, il padre. «Me le avete insegnate voi», rispose Asimov. «Ma come? Tua madre e io non sappiamo nulla di tutto questo» ribattè stupito il genitore. «Voi mi avete dato il dono della curiosità; il resto è venuto da sé» chiuse Asimov. Un filo che ci riaggancia all’importanza, che Parmitano sottolinea con decisione, dello studio, dell’impegno ma, soprattutto, dello sforzo di seguire i propri desideri. Ma «non credo ci sia tanto bisogno di enfatizzare particolarmente la cultura scientifica», risponde quando gli chiedo se essa non abbia bisogno di essere più propugnata, almeno in Italia. «Chi la vuole seguire, in Italia, trova tante eccellenze, nella quale la cultura scientifica si mostra e agisce. Con gli amici con i quali collaboro c’è lo sforzo, la volontà, di avvicinare i ragazzi a questa possibilità. Ma non direi mai che la scienza, in valore assoluto, sia superiore a quelle che si chiamano liberal arts: voglio solo che ognuno trovi qualcosa che risuoni con i propri interessi e desideri».
Nella seconda metà della missione, Parmitano assumerà il ruolo di Comandante della Stazione Spaziale, la prima volta per un astronauta italiano e la terza per un europeo. Ha le idee ben chiare sul compito e le dice quando gli chiedo cosa conti di più per il buon clima nella Stazione. «Competenza, coesione, solidarietà, unità nell’affrontare i problemi, come lei ha elencato, ci sono già. Fanno parte dell’addestramento e del nostro lavoro, del modo in cui veniamo selezionati». «Io, come comandante – continua –, devo essere quello che ha modo di aprire e lasciare aperta più possibile la comunicazione: i colleghi devono essere liberi di parlare, e io non posso essere difensivo, ma aperto ai consigli e alle critiche. Siamo sempre guidati e protetti dal comando del centro di controllo: devo essere al servizio di tutto questo». La Stazione, abitata dal 2000, è stata mantenuta in efficienza grazie a 200 missioni spaziali e corre sopra di noi, compiendo un’orbita intorno al pianeta ogni 90 minuti: va a una velocità 30 volte superiore a quella di un Jumbo. Per chi avesse la fortuna di sapere dove si trova mentre alza lo sguardo, appare come una stellina in movimento, così luminosa da essere visibile a occhio nudo da diversi punti sulla Terra. Tra qualche mese sarà il nostro tricolore a “sventolare” sul posto di comando. Parmitano, anche qui, è puntuale e calibra le parole. «Sarei molto naif, se non pensassi che quel tricolore che porto sulla spalla sinistra con orgoglio non dia anche una grande responsabilità. Perché quella bandiera è visibile e osservata». E continua: «Ma so anche che l’individuo ha molto meno valore della squadra. Non sono solo io a essere lì: porto con me il lavoro di tutti quelli che mi hanno formato, che mi hanno addestrato, con me in orbita c’è il risultato del lavoro della mia maestra delle elementari, dei professori che ho seguito e mi hanno interessato, dei colleghi con i quali ho collaborato. L’orgoglio non è per me, è per l’Italia, che in questo settore è presente e va a testa alta». Commetto un errore quando chiedo che cosa sia più emozionante o più importante per lui nella missione. «Non faccio mai classifiche, niente graduatorie. Chi mi conosce sa che cerco di mettere lo stesso impegno nel fare le cose più umili e quelle, diciamo così, più visibili. In tutto ciò che faccio, qualsiasi attività intraprenda, vedo un’opportunità di miglioramento. È la stessa esperienza del viaggio quello che ha valore più di tutto, non c’è un aspetto che prevale sull’altro. Perché in volo ci trasformiamo, ci adattiamo, siamo diversi da come siamo sulla Terra e tutto questo deve essere compreso nella nostra esperienza di astronauti».
Il senso della sua missione, «Beyond», è racchiuso nel nome e nel logo che Parmitano ha scelto: un casco che comprende la Terra, la Luna, Marte e la sagoma della Stazione Spaziale. «In futuro», dice, «penso che dovremmo spingerci oltre l’orbita basso terrestre. Si dovrà cercare di arrivare sulla Luna in modo più consapevole, più sicuro, forti delle esperienze, della scienza, della tecnologia che in questi anni abbiamo sviluppato. Non sarà un allunaggio fine a se stesso». «Ho voluto chiamare la missione Beyond, Oltre, intanto per il desiderio che fosse un nome evocativo. È un invito a guardarsi dentro, ad andare al di là dei propri limiti: non bastano solo i “grandi passi”, si tratta di provare a oltrepassare, anche di un poco, i propri confini».
Abbiamo iniziato con un sogno e chiudiamo con un altro. Luca Parmitano, astronauta, ha ancora sogni nel cassetto? «Certo che ne ho, e spero tutti ne abbiano. Anzi, auguro di avere i sogni più irraggiungibili – desideri che ci tengono in vita – e progetti che ci aiutano ad avvicinarli».
La telefonata finisce con queste parole filosofiche e penso che la sua sia una lezione per tutti. Forse è proprio “oltre” la parola chiave, la spinta che ha portato il genere umano alle sue conquiste. «Oltre» è la parola che ci obbliga a trovare ogni giorno qualcosa per cui non fermarsi, dovunque ciascuno di noi sia stato capace di arrivare. Magari, mi dico, il vero ruolo di chi prende la via dello spazio è proprio questo: dare forza a tutti noi che manteniamo i piedi ben piantati per terra e troppo spesso dimentichiamo il potenziale di una piccola parola, dei sogni fatti da bambini, e di alcune cose che, unite, possono portare, letteralmente, molto in alto: l’energia vitale di un sorriso, la forza di volontà e, sì, l’ottimismo della ragione.