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 2019  luglio 21 Domenica calendario

Armando Spataro: «Era amareggiato perché in certa politica sono rimaste corruzione e arroganza»

Armando Spataro è nato a Taranto.

Altrettanto pugnace, sebbene meno timido, Armando Spataro, già procuratore di Torino, fu uno dei magistrati di punta nella lotta alla criminalità organizzata durante la reggenza di Borrelli. Al punto che quando Di Pietro se ne andò gli venne proposto di prenderne il posto.
E lei perché rispose di no?
«Ritenevo doveroso non interrompere l’impegno sul fronte antimafia: all’epoca se ne parlò poco, ma in quel periodo, furono arrestati oltre 2.500 affiliati delle varie mafie».
Resistere, resistere, resistere: per chi fu quell’esortazione?
«Riguardava tutti i cittadini, aveva il significato di un invito a tenere la schiena dritta in un periodo di principi costituzionali messi a rischio».
Eppure, guardando scandali e polemiche della magistratura, è come se quell’appello fosse caduto nel vuoto.
«Non sono d’accordo. Anche all’epoca di Borrelli vi furono episodi di comportamenti inaccettabili di magistrati. Ma dire che la magistratura ha perso il senso del suo essere, non è accettabile. Non bisogna generalizzare: l’individuazione di violazioni deontologiche e forse penali, non può giustificare la convinzione che si tratti di un modello diffuso tra i magistrati».
In quell’epoca foste amati e poi abbandonati dai cittadini. La solitudine è il destino del magistrato?
«Borrelli diceva così: insulti o applausi non ci devono interessare perché, sosteneva, “la solitudine è lo stato naturale del magistrato”. Il no alla retorica della solitudine che oggi ci affligge – se penso a quanti colleghi a fronte di una critica lamentano di essere lasciati soli – deve essere un principio: non siamo noi gli unici a cercare il bene o la verità».
Che “capo” era Borrelli?
«Una persona correttissima. Intanto era un procuratore della Repubblica a cui non piaceva essere chiamato “procuratore capo”. E questo già dà l’idea della concezione che aveva della Procura: una squadra che deve lavorare compatta dove c’è un coordinatore ma non un “capo”; situazione totalmente all’opposto di chi vorrebbe le procure gerarchizzate con un uomo solo al comando».
E come si traduceva tutto ciò?
«Noi andavamo da lui per qualsiasi tipo di problema, così come gli avvocati, senza che vi fossero orari di ricevimento perché come noi, gli avvocati sono operatori di giustizia. E da Borrelli andavano anche i cittadini comuni che magari volevano solo sfogarsi e sul piano umano questa è un’eredità che mi ha trasmesso. Lui non pensava alla giustizia come a un gruppo composto da divinità chiuse nel loro mondo. Era una persona di grandissima ricchezza umana».
Ciò non toglie che qualcuno lo accusò di golpismo.
«Una ridicola sciocchezza, che purtroppo si riascolta anche in questo periodo. Direi che si tratta di un’affermazione da ignorare».
Eppure a un certo punto mostrò qualche ripensamento sull’esito di Mani Pulite. Che ne dice?
«Nessuno può essere pentito di aver lottato contro la corruzione. Credo che la sua fosse più una provocazione, o forse era l’amarezza di constatare che nonostante tutto, la corruzione è rimasta endemica e certa politica si è rafforzata nella sua arroganza».