La Stampa, 21 luglio 2019
Intervista al presidente di Dior Pietro Beccari
Incontro Pietro Beccari, il nuovo presidente di Dior – in Francia viene chiamato PDG (President Directeur General) – al quartier generale di Parigi, al 30 Avenue Montaigne, alla vigilia dell’inizio dei lavori di ristrutturazione. Sulla parete si vede un ritratto di Christian Dior fatto da un artista cinese, in giallo e blu, perché Pietro considera Dior fonte di energia vitale.
Lei viene dalla provincia?
«Sì, da un paese chiamato Basilicagoiano, 1200 abitanti, nei dintorni di Parma. Da lì, sono arrivato a Parigi, nella sede di Dior. La vita è buffa, vero?»
Come è successo?
«Come in un videogioco, con i vari livelli da superare per arrivare a quelli successivi. Continui ad aprire porte e aspetti di poter accedere al livello successivo. Sono passato da un’avventura all’altra, senza badare troppo alle strategie, senza pianificare nulla. Credo che nella vita sia importante l’atteggiamento giusto».
Cosa intende?
«Dico ai giovani che, alla fine, l’atteggiamento giusto è più importante dei libri, degli studi, dei piani, delle strategie. Le opportunità ci ruotano intorno, con l’atteggiamento giusto le si riconosce e le si coglie. Altrimenti, gli si passa accanto. Ci vogliono curiosità, coraggio e una certa dose di ambizione, che io leggo come disponibilità a fare sacrifici, a lavorare per raggiungere l’obiettivo, a impegnarsi fino all’ultimo secondo, come un atleta. Non credo di aver mai conosciuto nessuno che non avesse lavorato duramente per raggiungere il successo. Spesso la gente vuole ottenere risultati con il minor impegno possibile, ma nella mia esperienza non funziona così».
Da quanto sta con sua moglie Elisabetta?
«Con Elisabetta ci siamo conosciuti a Basilicagoiano, nella scuola materna, io avevo 5 anni e lei tre. Poi abbiamo fatto la stessa scuola elementare, in classi diverse perché era più piccola. Al liceo, io ho fatto il classico e lei lo scientifico, ma ci siamo messi insieme quanto lei aveva 16 anni e io diciotto. Quando lei aveva 25 anni e io 27 ci siamo sposati. Stiamo insieme da 34 anni e quest’anno festeggeremo il 25° anniversario di matrimonio».
Avete tre figlie, vero?
«Sì, tutte nate a Düsseldorf, in Germania, dove sono stato dirigente della Henkel per 10 anni. Quando arrivai, non parlavo una parola di tedesco».
Prima aveva lavorato negli Stati Uniti?
«Dopo esserci sposati a Milano siamo partiti per gli Usa nel 1994. Per tre anni abbiamo abitato in un appartamentino di soli 45 metri a Montclair, dove io lavoravo per la Parmalat. Partimmo per la Germania quando Elisabetta era incinta della nostra prima figlia. Sono stati anni meravigliosi. Io salivo i ranghi: da product manager nella sezione marketing diventai manager della divisione cura dei capelli, poi responsabile degli shampoo e delle tinture. Ero uno dei 15 dirigenti più importanti della società».
Come vi siete trasferiti in Francia?
«Elisabetta disse: "Senti, la nostra vita qui è stata bella, ma Düsseldorf non è esattamente la città dove vorrei far crescere le figlie». Cominciai subito a guardarmi in giro, e dopo due mesi ebbi l’offerta da Louis Vuitton, una sorpresa perché non avevo mai lavorato nel lusso prima, non possedevo tanti oggetti di lusso e mi tenevo alla larga dalle boutique del lusso perché non volevo spendere».
Però ebbe successo?
«Non considero la mia vita una storia di successo. Ho fatto un percorso meraviglioso e ne sono fiero. Non mi sento arrivato in fondo, ho ancora un fortissimo desiderio di imparare, vedere, scoprire, evolvere».
Ha guidato anche Fendi?
«Sono tornato in Italia dopo 18 anni all’estero e sono stato presidente e ad di Fendi dal 2006 al 2012. In soli cinque anni siamo riusciti a raddoppiare i risultati del marchio e a portarlo oltre la soglia del miliardo di euro».
Come ci è riuscito?
«Abbiamo riposizionato il marchio Fendi, incentrandolo sulla qualità romana, prendendo le distanze dai concorrenti. Ero fiero dell’amicizia di Karl Lagerfeld, un rappresentante eccezionale del marchio».
E poi?
«E poi mi chiamarono da Dior. La sfida consiste nel portare Dior a un livello ancora più alto. Con un ambizioso piano di tre anni per incrementarne la quota in tutti i mercati».
Cosa è Dior?
«Sono 7000 persone in tutto il mondo, quasi 300 punti vendita, un marchio da sogno, perché il suo fondatore lo creò a 42 anni, dopo gli orrori, i disastri e i tempi bui della guerra».
Come ci riuscì?
«Era un gallerista e un illustratore, un amante dell’arte e del giardinaggio, che aveva disegnato per altri e aveva deciso di disegnare abiti per se stesso, con un proprio marchio. Voleva far sentire le donne del dopoguerra non solo più belle, ma anche più felici. Il marchio Dior nacque dall’ottimismo nei confronti della vita, come un atto di coraggio, in un’epoca in cui pochi davano il loro nome a un marchio».
Fece profumi?
«Sì, da subito, fin dalla prima sfilata. Era un marchio completo che parlava ai sensi e all’estetica. Noi oggi non siamo qui per conservarlo, perché oggi conservare i marchi non è più moderno. Un marchio deve essere attuale, evolvere nel rispetto dei suoi valori fondanti».
Dior è una leggenda? Tutti i libri su di lui sono pieni di fotografie delle dive più famose.
«Dior è certamente una leggenda, come le sue clienti, da Marlene Dietrich a Sofia Loren a Grace di Monaco. Nel museo di Christian Dior a Granville, dove nacque, esponiamo tutti i vestiti acquistati dal principato di Monaco e indossati dalla principessa Grace».
Una tradizione che continua?
«Star, regine, first lady e tante altre donne sono felici di indossare Dior. Molti amano il marchio ma non hanno mezzi per l’alta moda e quindi acquistano accessori, piccoli oggetti, bracciali, collane, borsette o portafogli. Dior riesce a vendere un sogno anche a chi non può permetterselo».
Lei ha lavorato in Italia, in America, in Germania, in Francia, in Belgio, in Olanda, che differenze ci sono?
«Sono stato fortunato a conoscere tante culture, a imparare qualcosa da tutte, ad adattarmi. Gli americani richiedono obiettivi precisi, non c’è molto spazio per l’improvvisazione, che invece è il lato forte degli italiani. I tedeschi sono un po’ lenti a capire, ma poi non divagano mai, sono serissimi, mentre noi italiani siamo un po’ superficiali. I francesi sono un misto di tedeschi e italiani, molto affidabili, con meno immaginazione di noi, ma hanno talento, soprattutto nella moda, gli viene dal loro Dna del lusso. I marchi del lusso sono francesi o italiani, senza offendere nessuno, nel resto del mondo sono pochi».
Che tipo di manager è lei?
«Amo lavorare con il team. Preferisco guidare gli altri condividendo valori e visione, coinvolgendoli nel progetto, invece che costringerli. Trascorro molto tempo a spiegare dove stiamo andando e perché. Se riesce ad accendere un "fuoco sacro", allora ho fatto un buon lavoro come capo. Posso adattarmi ai miei dipendenti e tirare fuori il meglio da ciascuno».
Corre molti rischi?
«Scherziamo spesso con Arnault sul fatto che ha assunto un centravanti più che un portiere, ma mi sento più un allenatore che preferisce schemi di attacco. Le cose a Dior si stanno muovendo e ci sono rischi da correre, ma se non si accettano rischi è per paura, e la paura non porta da nessuna parte. Bisogna raggiungere i sogni, le visioni, altrimenti parliamo solo di obiettivi, che non vi fanno guardare oltre il vostro naso. Se invece dici "Ho un sogno..."»