La Stampa, 21 luglio 2019
Cosa resta di Togliattigrad
Noi – una che fa le foto e uno che scrive – atterriamo a Samara comodamente da Roma via Mosca, temperatura tardo-primaverile, un trolley leggero a testa, musica nello smartphone e cuffie per vincere la noia del viaggio, pasto vegano prenotato per tempo all’Aeroflot. Cinquant’anni fa era tutto infinitamente più lungo, difficile e faticoso, e intanto ci si trascinava dietro certi valigioni che oggi neanche riusciamo a immaginarci: con venti cambi di biancheria, il vestito buono per le serate di gala, i più provinciali gli spaghetti. In più, si era purtroppo nell’era pre-riscaldamento globale. Giuseppe Garesio partì da Carignano, Torino, il giorno di Pasquetta del 1970, con le primule nei prati e i mandorli in fiore. Appuntamento la mattina presto in Piazza Carlo Felice a Torino col resto della squadra, navetta Fiat per l’aeroporto di Milano, e da lì l’aereo per Mosca.
A Mosca c’era la neve, ma non una neve qualsiasi, precisa Garesio, una neve sovietica «da far spavento». Gli aerei per il sud non partivano, bisognava prendere il treno. Vennero a prelevarli con un autobus, attraversarono Mosca al buio, li scaricarono in una stazione immensa e lì salirono su un treno in cui non sembravano esserci vagoni di prima, seconda o terza classe, erano tutti comunisticamente grigi, puzzolenti e anneriti dal riscaldamento a carbone, e dopo diciotto ore di viaggio tra muraglie di neve, con i villaggi che si intravedevano all’orizzonte, in compagnia dei contadini che tornavano dai mercati di Mosca masticando semi di girasole e sputando le bucce («all’arrivo il pavimento del vagone era coperto da uno strato di melma, le scarpe facevano sciaf, come in una pozzanghera»), dopo diciotto ore arrivarono a Togliatti, (nota in Italia come Togliattigrad, ndr). Trasferimento in uno dei nuovi micro-appartamenti costruiti per il personale: due stanze con due letti ciascuna, soggiorno e bagno comune, e basta. La mattina dopo appuntamento presto col bus per la fabbrica: primo giorno di lavoro. Intorno, ancora neve, ma – si era a fine marzo – anche i primi segni di disgelo: «Lì aprile è il mese della fanghiglia».
Palmiro Togliatti era morto da appena sei anni, ma aveva già dato il nome a una città, l’antica Stavropol-sul-Volga, e in quella città si era deciso, verso la metà degli anni Sessanta, di costruire uno stabilimento per la produzione di automobili. Privo di esperienza nel settore, il governo sovietico si guardò intorno in cerca di un partner, e alla fine si rivolse alla Fiat. Nel giugno del 1965 Vittorio Valletta andò a Mosca a parlare con Kossyghin, il primo luglio firmò l’accordo.
Valletta lasciò la Fiat l’anno successivo e morì due anni dopo. Ma alla Fiat erano gente di parola, e si misero al lavoro. Costruirono lo stabilimento, progettarono una versione più robusta della 124. La prima automobile uscì dalla catena di montaggio dell’AutoVAZ il 22 aprile 1970. Negli anni successivi la produzione si attesta intorno alle 600.000 vetture l’anno, nel 1976 esce dalla fabbrica la tremilionesima vettura, vale a dire che negli anni Settanta l’Autovaz di Togliatti rifornisce buona parte della popolazione del blocco sovietico di auto Zhigulì (in Europa occidentale verranno commercializzate col marchio Lada).
La produzione ai sovietici
Consegnato lo stabilimento, la Fiat se ne va da Togliatti, affidando la produzione ai sovietici. Dal 2014 la fabbrica è controllata dal gruppo Renault-Nissan, che continua a produrre le Lada.
Noi visitiamo l’Autovaz un sabato mattina, il giorno dell’annuale Open Day in cui «la cittadinanza incontra la fabbrica». Giovanna è un po’ emozionata perché è l’unica milanese che possiede una Lada Niva (8.000 euro dieci anni fa, ma aggiungete il triplo in pezzi di ricambio). In albergo, mentre aspettiamo la nostra guida Julia, ci diciamo che saremo i soli a sprecare il sabato mattina per vedere delle vecchie catene di montaggio, ma abbiamo sottovalutato la fedeltà dei cittadini di Togliatti al marchio automobilistico di casa, e abbiamo sopravvalutato il potere seduttivo delle alternative. Prendere il sole in riva al Volga? Ma il sole va e viene. Fare una gita fuori porta? E dove? Intorno ci sono verste e verste – ecco a cos’è servito leggere tutti quei romanzi dell’Ottocento – di desolata pianura russa.
Così alle 9.30 davanti ai cancelli dell’Autovaz c’è già un pubblico da concerto rock, con tanto di consolle con due speaker-deejay che, rimugina Julia, «prendono anche cento euro l’ora», e mettono pezzi come "La macarena" o "Jenny from the Block": perché quando ogni cosa sembra dividerci, arriva il pop a ricordarci che viviamo tutti sotto lo stesso cielo. Insomma ci mettiamo un’ora, arriva il nostro turno, e un paio di volontari-forzati (definizione di Julia, che conosce la Russia) ci fa salire su un autobus di quelli di linea con i sedili in plastica e le maniglie, insieme a una cinquantina di togliattesi, mentre altre centinaia aspettano nella canicola, e dopo un giro del perimetro esterno della fabbrica entriamo prima nel reparto presse, poi nel reparto montaggio, poi nel reparto verniciatura.
La visita allo stabilimento
La visita è rapida perché i togliattesi premono ai cancelli, e il visitatore inesperto non capisce quasi niente, esce soprattutto frastornato dalle dimensioni perché è tutto immenso, una città nella città, molto più grande di Mirafiori, le presse sono centinaia, le scocche pronte per la verniciatura migliaia, l’autobus che percorre i corridoi interni, grandi come autostrade, va veloce e orientarsi è difficile, capire come funziona tutto è impossibile, ma il cuore italiano che è in noi batte più forte per la seconda volta – dopo ieri, per "Serenata" di Cutugno captata alla radio – alla vista del marchio PRESSE INNOCENTI inciso a caratteri di scatola sulla ghisa dei macchinari.
Usciamo annoiati il giusto (le spiegazioni sono in russo, le catene di montaggio sono catene di montaggio, abbiamo fatto il classico), ma rinfrancati da questa boccata di madrepatria, e pronti a tuffarci nella vita togliattese. Se pensate che Los Angeles sia una città un po’ troppo a misura di pedone non resterete delusi da Togliatti. Si atterra a Samara, si fa un’ora di macchina, si trova il cartello Benvenuti a Togliatti, si chiede alla guida-interprete dov’è il centro. «Eccolo», dice la guida-interprete indicando la steppa.
Il fatto è che Togliatti è una città nuova. «Anche Milano 2», si obietterà. Ma non è la stessa cosa, perché Togliatti non è veramente una città, sono tre distretti industriali costruiti attorno a mega-impianti chimici e meccanici, ciascuno circondato da condomini. I tre distretti sono collegati da viali non alberati intitolati a eroi sovietici o a date topiche della storia nazionale, viali che si estendono letteralmente a perdita d’occhio, non se ne vede la fine, e che sono larghi come autostrade, più delle autostrade, soprattutto nel distretto Avtozavodskij. Sei, otto corsie, più i controviali. Quanto ai condomini, si dividono in «costruiti al tempo di Stalin», «costruiti al tempo di Krusciov» e «costruiti al tempo di Breznev», e presentano tra loro differenze nella foggia e nel materiale che Julia ci spiega minutamente, e che noi dimentichiamo all’istante. Belli, non sono.
Conseguenza della "forma della città": girare a piedi ha poco senso. Il concetto di piazza era sconosciuto all’urbanista che ha disegnato la pianta di Togliatti. Il bello è nascosto: a Togliatti esistono ancora – oh, nostalghia! – i cortili interni dei condomini, e ogni cortile ha il suo giardinetto in betulle e cemento armato con dotazione di giochi per i bambini. Fuori dai cortili, gli spazi si dilatano. La terza o la quarta traversa, che sulla mappa sono a mezzo dito di distanza, nella realtà sono lontane un chilometro. Il ristorante di cui si parla bene su TripAdvisor sembra lì a un passo, invece a piedi ci vogliono tre quarti d’ora. Perciò prendiamo la macchina, sempre, dando volentieri il nostro obolo al global warming. Sennò stiamo anche comodissimamente in albergo, a guardare un film su internet, o in piscina. Poche cose sono cambiate, infatti, come l’hôtellerie, e di riflesso i bisogni dell’occidentale medio, i comfort dati per scontati, i disgusti. Condividere il bagno con un estraneo? Piuttosto si resta a casa (ricordo un Simenon in cui Maigret, in vacanza, si faceva preparare la tinozza coll’acqua calda dalla pensionante per fare il bagno: sembra incredibile ma i miei genitori hanno vissuto in un mondo così, forse io stesso da bambino). Così noi siamo appena soddisfatti del nostro appena aperto hotel a quattro stelle super-kitsch in stile tirolese con piscina solarium sauna e bagno turco a due passi dal bosco che fiancheggia il Volga. Gli italiani in visita a Togliatti negli anni Sessanta e Settanta erano di più facile contentatura.
Mentre gli operai come Garesio stavano in appartamenti da quattro, i dirigenti stavano in albergo: lo Zhigulì e il Volga sono ancora in piedi. Da fuori sembrano, come tutto qui, un po’ délabré. Il cemento armato che a metà Novecento si credeva eterno è invece risultato soggetto a un’usura atroce: s’insozza, si sbriciola.
Così l’Unione Sovietica, che il cemento armato l’aveva spalmato dappertutto, anche nei parchi, nelle spiagge lungofiume, ha lasciato in eredità alla Russia questi miliardi di miliardi di tonnellate di massa grigiastra spaccata dal gelo, coi tondini in ferro che spuntano come ditini cianotici dalle fessure. Vorremmo anche vedere come sono fatti dentro, gli alberghi, scattare qualche foto soprattutto per mostrarla poi agli italiani che ci hanno vissuto mezzo secolo fa, ma quando tiriamo fuori la macchina fotografica il personale ci dissuade – allo Zhigulì gentilmente, al Volga meno gentilmente: la custode-concierge ci spinge proprio via col braccio teso, urlando qualcosa di non amichevole in russo, e noi obbediamo, scendiamo in strada e, mentre stiamo fotografando il marciapiedi davanti all’albergo, sentiamo alle nostre spalle la sua voce dal citofono che, sempre nel suo russo concitato (io, messo da parte l’inglese, avevo provato col francese di Guerra e pace, i russi sono forti lettori), ci manda certamente a a quel paese. Un residuo di Soviet manners, trent’anni dopo. Che bello che da noi nel 1948 il Fronte Democratico Popolare ha perso.